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I Volontarii Italiani
Racconti politici Un capriccio della Rivoluzione

RACCONTI POLITICI

I Volontarii Italiani


INTRODUZIONE

Questo racconto fu scritto durante il preludio di quella epopea che prometteva all'Italia la completa attuazione del programma politico-nazionale.

Fu scritto nelle prime settimane del giugno 1866, allorquando la fiducia era piena e l'entusiasmo senza limite.

Le sorti della guerra si svolsero meno propizie alle armi italiane per una fatalità misteriosa che non osiamo interrogare. Tesori immensi di entusiasmo, di sacrifizio, di fede e di valore andarono sprecati — Ma forse perchè l'esercito italiano non potè vantare le grandi vittorie, perchè Garibaldi e i suoi quarantamila non ottennero di far stupire l'Europa come i Mille di Marsala, dovremo noi disconoscere l'eroismo dei soldati e dei volontari che ebbero a combattere le disastrose battaglie del 1866?

La missione assegnata ai volontari non poteva esser più ardua. Conquistare palmo per palmo le roccie inaccessibili del Tirolo, sfidare i nemici nei loro covi più formidabili, e per giunta logorarsi nei digiuni e nelle veglie assiderate — tali furono le battaglie dei volontari Garibald ini nel 1866.

Ma io non intendo numerare gli episodi gloriosi di quella difficile campagna. La mia trilogia non è che una storia di passioni generose, il preludio fisiologico di tutte le rivoluzioni, di tutte le guerre italiane.

Ho meditato i diversi sentimenti che spinsero l'Italiano a combattere volontariamente le battaglie contro l'Austria. Fra questi, emergono principalissimi il sentimento dell'odio, comune a quanti patirono oltraggi e ingiustizie dal dispotismo straniero — il sentimento elevato del dovere nazionale, che investì le classi più intelligenti e più colte — e da ultimo, nei giovani spiriti, la poesia dell'entusiasmo ispirata da un nobile ardore di gloria, da un indefinibile trasporto verso la vita agitata e avventurosa, dalla emulazione, dal culto di un eroe. — Questi sentimenti io mi sono proposto di tradurre in tre brevi episodii, dei quali ciascuno può fare da sè, mentre formano, riuniti, una specie di trilogia, la quale può a buon diritto intitolarsi: Trilogia dei militi volontari...

È ben vero che ad ingrossare le file dei volontari, concorsero, nel 1866, anche elementi più atti a dissolvere che non a corroborare quel nobile esercito.

Ma di questi non spetta a noi tener conto.

Noi cantiamo al nobili cuori i nobili affetti. — Abbracciando gli eroi ed i martiri, noi dimentichiamo nel loro fango gli insetti ed i rettili che si incontrano da ppertutto.



PARTE PRIMA

L'odio.


I.

C'è un paesetto in Val di Intelvi che si compone di cinque o sei case rustiche. Gli abitanti son tutti contadini, ad eccezione di un prete, il quale non è parroco, non è cappellano, non porta verun titolo che definisca il suo grado nella gerarchia ecclesiastica — è il prete del paese. S'egli non sapesse leggere il breviario e masticare gli oremus della messa, lo si direbbe un bifolco mascherato cogli abiti del sacrista. I suoi grossi scarponi perdono le legaccie, le sue brache non hanno colore. Da otto anni il suo collare consiste in una grossa cinghia di pelle assicurata dietro l'occipite da una fibbia. Egli ereditò quel distintivo pretesco dal suo ultimo cane bracco; un cane che fu ucciso da una palla tedesca nell'autunno del 1848, quando gli austriaci piombarono nella povera valle a esercitarvi le loro feroci rappresaglie. — Quel prete, per la santa memoria del suo bracco, non ha mai cessato di esecrare gli austriaci. Un uomo eccellente — e a mio giudizio — uno dei preti meglio accetti al Signore. Il suo nome è Don Remondo, ma i più lo chiamavano il papa di Val d'Intelvi.

Nel paesetto c'è una piccola osteria — vale a dire una casa rustica, dove si vende del vino, abitata da una famiglia di tre individui: un vecchio di setta nt'anni, sua moglie, e un ragazzetto di sedici anni circa, biondo di capelli e gracile come una fanciulla. Il vecchio si chiama Gregorio, la moglie Veronica, il ragazzo Ernani. Questo ultimo nome rappresenta il romanticismo dei tempi moderni infiltrato nella prosa patriarcale di quella antica famiglia.

In sul finire dell'aprile 1866, don Remondo entrò nel cortile dell'osteria colla Gazzetta nelle mani — ordinò un quintino Valtellina, e sedette presso un vecchio tavolo a leggere avidamente.

Quando Ernani dopo alcuni minuti venne a servirgli da bere — il prete alzò gli occhi dal foglio, e volgendosi al ragazzo — ci siamo! gli disse — questa volta si fa davvero... La campagna va ad aprirsi, hanno chiamato i contingenti, e dicono che già a quest'ora si vanno ad iscrivere parecchi volontari nell'esercito...

Gli occhi del ragazzo sfavillarono.

— Ah! nell'esercito...! sclamò il vecchio Gregorio, che era entrato nel cortile con un carico enorme di legna sulla testa — nell'esercito!... Ma là dentro non c'è da far bene per noi... Non sanno che farne dei soldati che hanno passati i sessanta... e meno ancora dei ragazzi che non hanno toccato i sedici anni!

— Aspetta un poco, Gregorio!... lasciami finire — disse il prete, riprendendo la lettura — lasciami finire ti dico... Vediamo le ultime notizie... i dispacci... le corrispondenze... particolari... Ci scrivono da Berlino... Ci scrivono da Parigi... Ci scrivono da Bruxelles... Ci scrivono da Caprera...

Il prete abbassò la voce, ma cogli occhi divorava le cifre.

— Oh! corpo del sacratissimo... del sacratissimo!... Sta a vedere che vuol mangiarsele tutte lui le notizie da Caprera... questo bagolone della dottrina!... Ma non sa, don Remondo, che quando si tratta di papà Garibaldi... di lui... corpo del sacratissimo... sacratissimo...

— Quante bestemmie per nulla! — interruppe il prete senza affettazione. To' vuoi sentire che cosa scrivono da Caprera....? Siamo qui per servirla...! Metti a terra quella legna... che deve pesarti sulla testa... La notizia è buona... anzi eccellente!... e bisogna che tu ti assesti un poco a tuo comodo per meglio assaporarla... Bravo! così va fatto! Vieni qua: mettiti a sedere... e lascia in pace i santi e la madonna... se vuoi che tutto vada per bene.

Gregorio aveva scaricato a terra il suo enorme fascio di legna — e fattosi dappresso al tavolo, si era posto a cavalcioni di una panca, giungendo le mani sotto il mento, e sporgendo la bocca semiaperta verso il prete.

Don Remondo colla sua voce più solenne lesse quanto segue:

«Ci scrivono da Caprera che il generale Garibaldi gode ottima salute... Egli ha ricevuto una lettera di un alto personaggio che lo ha messo di buon umore. Ad alcuni suoi amici, che sono andati a visitarlo, dichiarò di esser pronto ad assumere il comando dei volontarii al primo scoppiare della guerra. Noi crediamo sapere da ottima fonte che nel Consiglio dei Ministri si è già deciso di chiamare i volontarii e il loro invincibile condottiero non appena le operazioni della leva saranno terminate».

Il prete, finita la lettura, guardò in faccia a Gregorio aspettandosi una eruzione di entusiasmo violento. Ma il vecchio Gregorio pareva impietrito.

Dopo alcuni minuti, il vecchio levò lo sguardo verso sua moglie che era venuta ad ascoltare la lettura dietro le spalle del prete — quell'occhiata pareva una interrogazione.

Poi, con accento misterioso e carezzevole disse ad Ernani:

— Figliuolo, scendi in cantina!... Cavane un buon litro di quello che piace a don Remondo,... Ora comincio a crederci anch'io alla guerra... se si muove lui!... E bisogna pensarci... bisogna pensarci seriamente: non è vero don Remondo?

E quando il ragazzo fu tanto lontano che non potesse udire:

— Bisogna consigliarci... bisogna deciderci — o io, o tutti e due...

La vecchia Veronica facendosi colla mano ventaglio alla fronte — sentitelo! — esclamò — lo sentite, don Remondo? — Non vi pare che egli abbia perduto la testa?... A settant'anni voler seguire Garibaldi!... E quell'altro! Un ragazzo di sedici anni... sempre malato.... e timido come un passerino...

— Va a letto, Veronica!... Va a dormire... Già, tu sai bene... Non siamo mai andati d'accordo su questi interessi... Anche l'altra volta...

— Ma dunque... tu vuoi farlo morire, quel povero figliolo!... disse la vecchia con voce alterata dai singhiozzi.

— Va a letto, ti dico!... silenzio!...

Ernani tornava col vino.

Il vecchio Gregorio guardò con tenerezza le mani scarne e profilate del fanciullo alle quali pareva enorme peso il litro ricolmo. Poi accennò alla moglie di ritirarsi, ma questa volta con espressione più mite.

La vecchia obbedì — Ernani usci dal cortile chiamato da alcuni ragazzi che giuocavano nella strada. Gregorio e don Remondo rimasero soli.


II.

— Ho da farvi una confidenza, prese a dire Gregorio nell'atto di versare da bere.

— Di' su.

— Una confidenza che non ho mai fatta a nessuno... nè anche alla mia Veronica... Una sola volta... ma non qui in paese — lontano... lontano assai — ne ho detto qualche cosa a lui... a papà Garibaldi, che Dio lo benedica sempre!... E lui... Garibaldi — lo vedo ancora — Garibaldi ha fatta una smorfia come se gli venissero le lacrime su per la gola... E mi ha battuto la mano sulla spalla... come volesse dire: va là... che hai proprio ragione di odiarli... quei cani di tedeschi!

Il vecchio vuotò un bicchiere e riprese:

— Dunque... come vi dicevo... la cosa per intero... non l'ho mai detta a nessuno... Ed ora, metterò di essere al confessionale... Promettetemi, don Remondo, che non si saprà mai da anima viva ciò che sto per narrarvi...

— Gregorio... tu mi conosci!

— Sì... Ed è per questo che mi sono deciso ad aprirvi tutta l'anima mia per chiedervi consiglio. Vi ricordate della mia povera Martina...? L'unica nostra figlia... la nostra gioia. Ora avrebbe trentasette anni... A trentasette anni una donna è giovane ancora!... Eppure, quand'essa è morta, non aveva compiuti i venti!...

Il vecchio si interruppe — si versò da bere, portò il bicchiere alle labbra, ma tosto lo ripose in sulla tavola. Il vino, in quel momento, gli ripugnava.

— Come or diceva — riprese il vecchio — prima del quarantotto, io ne sapeva di politica quanto l'asino del mulinaro. Mi avevano mai detto cosa fosse la politica? Noi altri si viene su come gli alberi di frassino — grossi di fusto e buoni da far legna. A quarant'anni, io non ero mai uscito da Val d'Intelvi — una volta ero andato fino a Bellano, e quando fui arrivato laggiù, ho pianto dalla paura... Mi pareva di essere andato così lontano, così lontano, che per me non vi fosse più speranza di poter tornare al paese! Ma veniamo a lei... a quella povera figliuola!... Nel quarantotto aveva diecianove anni... La mia Martina — lo dicevano tutti — era la più bella figliuola della valle. Buona, poi! — altrettanto buona quanto io ero bestia!... Non sapeva niente di niente... Avevamo due conigli nella stalla... Una mattina, vedendoli uscire nel cortile con un seguito di piccoli coniglietti, la Martina mi chiese: chi li ha portati tutti quei piccoli? Ed io, bestia: «ma sono i figli di quei grandi.» «Eh! lo so bene anch'io, disse la Martina; ma domandava appunto chi è che li ha portati nella stalla... da qual parte sono venuti...» Vedete s'ella ne sapeva qualche cosa di ciò che succede a questo mondo!... Com'io della politica!... Basta!... È venuta fuori la guerra... Pio IX... il governo provvisorio... i piemontesi... e tutto il resto... Un bel giorno hanno arrestato i due gendarmi — hanno disarmato le guardie di finanza — sul campanile di Argegno s'è veduta svolazzare una bandiera di tre colori che pareva l'arcobaleno... e i ragazzi cantavano certe canzoni... Dio sa dove le avessero imparate! — certe canzoni che allora mi parevano del latino come i salmi che si cantano in chiesa. Cominciarono a passare dei giovanotti che non erano nè uomini ne soldati... Sulle prime io non ci capiva nulla — vi ho già detto che ero un bestione in quanto alla politica — ma quel passaggio di gente mi portava dei guadagni — si vendeva del vino — l'osteria era sempre piena — facevo denari. A forza di osservare, di ascoltare, di domandare..., a poco a poco io venni a capirci qualche cosa... alla meglio... tra chiaro e oscuro. Fra quei ragazzi che passavano dalla mia osteria per andare allo Stelvio, ce n'erano parecchi fra i dieci e i quindici anni. Quei biricchini sapevano già tutto... Un giorno entrò nell'osteria una grossa comitiva di quei caporioni trascinando legato e ammanettato un venditore di pipe. Gridavano: «morte alla spia!... fuciliamolo!...» Quel povero diavolo era smorto come un cadavere — tremava come un cane uscito dall'acqua — e implorava misericordia a nome di tutti i santi e della Madonna. — Mi sentii stracciare le viscere.... «Alto là!... alto là!... Nella mia osteria non si fanno di queste ribalderie... non si uccide un cristiano!» gridai a quei soldati senza uniforme. — E sentite mo questa! Un ragazzo, che forse non toccava i quindici anni... un coso da far ballare sulla punta del mio dito piccolo... si voltò indietro come una vipera, e guardandomi dal basso in alto con certi suoi occhi da gatto arrabbiato, incominciò a strillare: «chi è che difende i tedeschi?... Dunque... voi siete un tedesco!...» «Morte ai tedeschi! morte alle spie!» gridarono tutti, volgendosi dalla mia parte. «Tedesco io?... Ma io sono un taliano di val d'Intelvi... e dice che non si deve ammazzare un galantuomo...» — «Ah, siete anche voi della lega!... Abbasso le spie!... Morte ai traditori della... repubblica!...» Vi assicuro, don Remondo, che ebbi un bel da fare perchè quella gente non mettesse il fuoco alla casa per arrostirmi vivo in compagnia di quel povero venditore di pipe e di tutta la mia famiglia! In quel giorno io dovetti la vita a Veronica. — Ella tornava dalla campagna; vedutomi alle prese con quei furibondi, si fece nel mezzo a gridare: «ma non capite che egli è una bestia... un asino... uno zuccone, che non sa mai quello che si dice?... Animo, via, Gregorio! (e mi diede un gran pugno per spingermi in cucina) lascia fare a chi tocca.... e viva Pio IX! viva l'Italia!» — Quella Veronica aveva una gran testa... allora!... — La scena mutò di aspetto. — Cose da far piangere... Qualcuno sorse a gridare: viva le donne italiane!... La presero in mezzo... le saltarono al collo... le attaccarono una coccarda sulle spalle... tutti volevano baciarla... mentre io, sulla porta della cucina, vedeva tutto... e lasciava fare... perchè mi pareva che, in quel momento, fosse ben fatto... E quando uno la baciava, io diceva: «se lo merita! che tu sia benedetta! Io sono un asino, e tu sei sempre stata una gran donna!» Ma quella giornata segnò per la mia famiglia il principio di molte disgrazie. Veronica ammalò. Ella mi aveva salvato, ma non per questo ebbe a subire meno gravi le conseguenze dello spavento che ella aveva provato entrando nel cortile. Ella non potè mai dimenticare quella scena. La malattia fu lunga — per oltre due anni Veronica rimase inchiodata nel suo letto — ed oggi — voi lo sapete, don Remondo — la povera donna non ha più la sua testa — ha paura della sua ombra, e ricade malata ad ogni mutamento d'aria, ad ogni nuvolo che sorga. Ma ora viene il peggio della storia — bevete, don Remondo!... Beviamo!... Il vino non mi vuole andar giù... ma pure bisogna bere!...


III.

Dopo breve silenzio il vecchio riprese il suo racconto:

«A quell'epoca, poco prima che tornassero i tedeschi, voi, don Remondo, veniste ad abitare in paese. Mia moglie era seriamente ammalata, e il medico non dava speranze. Qualche cosa di quella maledetta politica io cominciava a capire. Io sapeva che i tedeschi non erano nati in Italia, che erano venuti qui a comandare, come sarebbe, a mo' di esempio, se quei di Argegno andassero a dire a quei di Lezzeno: ecco, noi siamo i vostri padroni! Ma pure... ve lo confesso... dopo la scena del venditore di pipe... dopo la disg razia accaduta a mia moglie, io non poteva capacitarmi che quegli altri... i taliani... fossero gente buona a qualche cosa. Sotto i tedeschi, la gendarmeria era rispettosa... era gente... pulita, pensava io — i finanzieri venivano qua a bere... pagavano... se ne andavano senza far male a nessuno... Non c'erano schiamazzi... non c'era confusione... Che volete, don Remondo? Io ragionava da bestia... io non sapeva che per via... della via... Corpo di quel cane!... so io di chi intendo parlare... Ma se vi è un Dio che fa giustizia alla povera gente... saremo ancora noi che gli faremo la pelle a quel boia che mi ha assassinato la mia Martina!...

«In settembre... è successo... quel che è successo. Quegli altri, che erano scappati in Isvizzera, volevano tornare... Val d'Intelvi andò tutta in repubblica... e il povero oste di Argegno fu il primo a pagarla.... Un uomo della legge — compar Brenta!... Mi voleva bene come ad un fratello... Ah! io doveva capirla finalmente che s'aveva da fare con dei cani senza legge e senza timor di Dio...! Ma no... testa d'asino!... Quando vennero a contarmi la fine del povero Brenta, ho detto: non è vero! non può essere... la gendarmeria non commette di questi orrori!... Un accidente a me, e a quanti pensavano in quella maniera! Ma io fui servito come meritava... altro che accidente!... Sentite, don Remondo... Io sono vecchio... ho settant'anni compiuti... ma se Dio non mi concede la grazia di ammazzare due tedeschi... io sento che morirò dannato! Aspettate... Il litro è vuoto... datemi il tempo di andare e di venire... e poi vi dirò cose che non ho mai detto a nessuno... cose da far piangere un badile!»


IV.

Il vecchio Gregorio discese nella cantina, e tornò poco dopo col litro ricolmo. Egli riprese la sua storia a voce bassa:

«Tutta la valle era piena di tedeschi... ma di quelli... voi sapete... si diceva che mangiassero le candele e i ragazzi appena nati! — Io cominciava ad aver paur a... Mi era venuto in mente di mandar via la Martina, come avevo fatto alcuni mesi prima, quando passavano i crociati dello Stelvio. Veronica era malata — come si fa?... E poi, c'era pericolo — le strade erano piene di soldati — e quegli altri... i nostri battevano le montagne per ritornare in Svizzera — Ero là: sotto quel fico, a pensare, colla testa nelle mani. Vedo comparire il Console sulla porta del cortile — (allora chiamavano Console quello che oggi... presso a poco... si chiama sindaco) — Buon dì, Gregorio! — Signor Console, il mio rispetto! — Hai tu una camera per dar alloggio ad un uffiziale? — Camere! alloggio!... ma quando mai ho avuto delle camere io? — Eppure bisogna avere una camera! — Bisogna...! è presto detto... ma come si fa?... — Si fa... si fa...! insomma... bisogna che tu metta in ordine la camera... Fra mezz'ora io verrò qui coll'uffiziale... Hai capito? — Ho capito... ma quanto poi all'intendere...»

Il Console aveva messo un'aria, quella mattina!... Mi rideva in muso!... Basta!... Nel cinquantanove ho liquidato i miei conti con quella mummia... gli ho fatto sputare i due denti dinanzi... e d'allora in poi nessuno lo ha più veduto ridere. — Figuratevi il mio imbarazzo... e la mia paura! Pensa... rifletti: — che serve? se io non preparo l'alloggio, quelle bestie mi infilzano sulla baionetta e dànno il fuoco alla casa per arrostirmi! Non c'era verso... La povera Martina consentì a cedere la sua stanza che era imbiancata di fresco — fra noi due, in meno di un quarto d'ora, vi collocammo i mobili migliori pian pianino... come se si portasse attorno del vetro — ma pure l'ammalata si accorse di quell'insolito vai e vieni. «Mio Dio! che novità son queste! esclamava Veronica dal suo letto... con voce affannata...» Io corsi a lei per calmarla... In quel momento si intese nel cortile un rumore come quando il pescivendolo mette a terra la sua stadera — Il Console gridava: Gregorio! dove è andata quella bestia?... Presto! non si faccia aspettare il signor tenente!!! E l'altro colla sua stadera a battere le muraglie... che pareva satanasso colle sue mille catene. Io non poteva staccarmi da Veronica... La povera donna era presa dal convulso...e spasimava fra i singhiozzi. — In quel momento, Dio aveva la testa rivolta d'altra parte...od era occupato a far cadere le foglie!...Quando io scesi nel cortile, la Martina aveva già parlato all'uffiziale — questi le rispondeva a bassa voce coll'aria più mansueta. — Era biondo come una pecora...quel boia — ed io, che mi aspettava di veder un orso colla bava alla bocca e cogli occhi pieni di sangue... io... bestione... Ma quella faccia di latte e ciliegia avrebbe ingannato il diavolo!....

«La Martina era smorta come la cera — l'altro tutto leccato le diceva: non affer paura!... tettesco star bona!... E quel muso da forca del Console... anch'egli si era messo a far il bocchino... e non cessava di ridere... Ve l'ho già detto, don Remondo — quella vecchia birba ora non ride più!...» «Se il signor tenente vuol vedere la sua camera... gli dissi io, entrando di mezzo — Oh! pasta! pasta! rispose il tedesco — mi piacer tutto in tua casa, pono uomo! — Egli sedette presso la tavola, mandò via il console con un segno della mano — e ordinò da colazione. Mi è mai passato un sospetto — un mezzo sospetto per la testa? Quindici giorni lo abbiamo tenuto in casa — timido... rispettoso...! Parlava poco, e sempre a voce bassa, per paura — diceva — ti tisturpare la mamma. — Egli andava, veniva, tornava ad uscire... mangiava molto e beveva pochissimo...non si lagnava di nulla!... Io mi fidava interamente di lui... Quanto alla Martina poi... Ve l'ho già detto... una ragazza che non distingueva la capra dal montone, e credeva che i figli nascessero fasciati. Non è bene che le figliuole sieno proprio all'oscuro di tutto... A una certa età, bisogna metterle in guardia... bisogna ammaestrarle, perchè senza avvedersene non abbiano a giuocare colla vipera... Voi mi capite, don Remondo. Io non vi dico altro... Cosa hanno fatto... cosa non hanno fatto...? Il tenente è partito... chi si è visto si è visto... e lei è restata... come Dio ha voluto!...»

V.

Il vecchio si interruppe — in quell'anima semplice da contadino c'era il pudore di una vergine. Egli arrossiva per sua figlia. Dopo breve silenzio riprese:

«La mia Martina m'avrà perdonato... Io sono stato un po' duro con lei... e non doveva... Sua madre, come vi ho detto, era malata — le madri hanno la mano più dolce nel medicare certe piaghe... Ma io non l'ho mica strapazzata quella povera creatura... Sulle prime sono andato un po' in furia... che volete, don Remondo?... bisognava sgridarla un poco... tanto da farle capire che aveva fatto male... perchè lei... quel povero angelo... non capiva... non sapeva proprio nulla... È morta che pareva una madonnina di cera!... Ma ora, ci vuol altro che piangere... sentirete, don Remondo, quello che intendo fare... Dunque... come dicevo... ho alzato un po' la voce sul principio... e poi ho detto subito: non è con lei che io devo prendermela... io devo rimediare alla meglio... perchè Veronica non sappia... perchè nel paese non succedano degli scandali... La condussi a Osteno in casa di una mia sorella vedova — una santa! E poi, dopo alcuni giorni, andai a Milano — aveva un pensiero — quell'uffiziale si chiamava Francesco Nëipper — il suo reggimento era di guarnigione a Milano... Mi era messo in testa io che ci potesse essere dei galantuomini anche fra loro... oppure... che parlando a qualche superiore... a qualche coronello... Sentite mo questa, don Remondo!... Arrivo a Milano... In quei giorni c'era lo stato d'assedio... Soldati di qua, gendarmi di là... commessi... pollini ad ogni angolo di contrada... Milano pareva una caserma. Prima di fare dei passi coi superiori... voleva vederlo lui... voleva un poco sentire come la pensasse... Vederlo! non era facile... Eppure... una mattina... girando nei dintorni del castello... vedo un uffiziale che ha la sua statura... Era in compagnia di un altro... e parlavano a voce alta in tedesco. — Mi avvicino... gli prendo la volta... è lui... proprio lui... quella faccia falsa da san Sebastiano!... Con tutto il rispetto... levand omi il cappello... me gli accosto di fianco, e gli dico: buon dì, signoria! — Quei due campioni balzano lontano tre passi, e subito fanno l'atto di cavar fuori le sciabole... «Farcflutter... staiffer! crazzer!...» sa Dio cosa bestemmiavano quei due mostri!... — e mi vengono addosso che sembrano due jene! «Ma il signore sa chi sono... l'oste di Val d'Intelvi... Gregorio... il padre della Martina...» — «Tartaifel... ludro... flucter! porco talliano... andar tua strada... o far fucilare sul momento!» — E poi tutti e due a bestemmiare in tedesco e battere lo squadrone che volevano subissarmi! — Ah! sono stato un gran vile... una carogna! Ma chi poteva aspettarsi...? so io cosa è avvenuto di me in quel momento?... Non ero più io... Quella piazza... quel castello... tutti quei soldati... non si vedeva un solo cristiano nè dappresso nè in distanza... Mi sono lasciato avvilire... E poi... cosa sarebbe avvenuto di quelle due povere donne...? Mia moglie ammalata... e l'altra!... Iddio mi ha tenuto la mano... e ve lo giuro, don Remondo, quei due moscardini di gesso avrei potuto mangiarmeli come due paste sfogliate... e li avrei digeriti in un attimo!... Invece... mi è rimasto un gruppo qui dentro... qualche cosa che non ha mai voluto andar giù... Ma prima di morire, voglio farmela passare, perdio!


VI.

Gregorio vuotò un bicchiere. — Don Remondo mormorò delle parole che non erano una giaculatoria da prete.

— Avete mai provato colla vostra bacchetta a scacciare un grosso ragno dal suo telaio? — Se il ragno cade a terra, subito si raggruppa, diventa piccino, si perde fra i sassi e rimane immobile fino a quando non lo abbiate perduto di vista. — Così ho dovuto far io, così ho fatto in quell'occasione, — come non avessero parlato con me... come se nulla ci fosse stato... Restai là parecchi minuti... cogli occhi a terra... fino a che, dopo essersi sfogati con delle parole da far raccapricciare le anime del purgatorio, quei due cani si fu rono allontanati... Appena mi parve che il pericolo fosse cessato, levai timidamente lo sguardo... e vidi quei due che se ne andavano con aria di trionfo picchiando la terra colle sciabole... Avevano cessato di bestemmiare in tedesco, ma ridevano in italiano... Ed uno si volse indietro a guardarmi, — lui, proprio lui — quell'infame rideva con una bocca da vipera! — Don Remondo: credete voi che qualche volta... in certe occasioni... quello che sta lassù... possa udire certe parole che si pronunziano a voce bassa col veleno nell'anima? Io per me ci credo. Ho sentito dire che il basilisco, quando guarda fissamente una persona, la uccide. Orbene: ponete che in quel momento io avessi nel cuore e negli occhi tutto il veleno del basilisco — ma io non lo fissava per ucciderlo, quell'assassino del mio sangue — io lo fissava per piantargli nelle viscere la maledizione. Sentite le parole che io scagliava dietro lui, senza muovermi d'un passo, appiattato nel mio fango come un rospo su cui è passata la vanga: «Che tu possa vivere finchè venga un altro quarantotto!...» Questa sentenza l'ho scagliata dietro lui non meno di trenta volte. Egli non ha avuto più il coraggio di volgere indietro la testa — io credo che egli debba aver sentito nel cuore qualche cosa come un chiodo gelato. Ed ora, non saprei dirvi, don Remondo, come io partii da Milano, come tornai al paese — Sono uscito da una porta... ho camminato due giorni e una notte... sono entrato in casa una mattina, mi sono inginocchiato presso al letto della mia Veronica che dormiva — e ho pianto per due buone ore. Dopo, ho potuto dormire anch'io — e quando mi sono svegliato, il primo pensiero che mi venne in mente fu questo: Gregorio: ora bisogna vivere, e aspettare l'altro quarantotto! — Intanto si è dovuto tirare avanti dieci anni... La Veronica stette ammalata ventidue mesi... e sempre domandava di sua figlia... Ho dovuto inventargliene per risparmiarle il dolore...! Io andava tutte le settimane ad Osteno a vedere quella poveretta che dimagrava a vista d'occhi... — La sua prima parola era sempre questa: come va la mamma? — e poi subito, a bassa voce, facendosi tutta rossa: per l'amor di Dio... ch'ella non sappia mai nulla! — Ed io ho tenuto parola — quella brutta istoria è rimasta qui dentro... Voi solo, ne sapeste qualche cosa... Era ben necessario che qualcuno mi consigliasse in quei brutti momenti...! Ma pure io non vi ho mai detto il capo o la fine come ho fatto questa sera... Vi ricordate? Il bambino è venuto al mondo la mattina del sedici giugno... Voi mi avete insegnato la via della via per mandarlo al sicuro... E nessuno, meno la mia sorella di Osteno, nessuno ha saputo della disgrazia. Due mesi dopo, quando io aveva stabilito di ricondurla al paese... chè ciò avrebbe fatto tanto bene a sua madre... la povera Martina morì come una santa. Sono arrivato in tempo a vederla... Mi ha domandato perdono... Di che? Cosa aveva fatto di male quella povera creatura?... Le sue ultime parole furono quelle che mi ripeteva sempre ogni volta che andavo a trovarla: «mai!... nè anche quando sarò morta... non dite mai nulla a mia madre... glielo dirò io... quando ci incontreremo in paradiso...!» — Così è morta... Dopo ventiquattro ore l'abbiamo collocata nella cassa... io e mia sorella — e poi sono rimasto là fin quando l'hanno portata via... A Osteno non aveva amiche... nessuno la conosceva... Non c'eran più di dieci donne ad accompagnarla al campo santo... Io mi sono inginocchiato presso una finestra... l'ho seguita cogli occhi fin oltre il muricciuolo del sagrato — e quando non si vide più nulla... allora... Ah! voi credete, don Remondo, che durante quella cerimonia io abbia risposto alle litanìe dei morti... che io abbia pregato il Signore? Nè anche un deprofundis! Quando non si vide più nulla di quel povero cofano coperto di stracci, mi è sembrato di trovarmi ancora laggiù... a Milano... in quella grande pianura... Ma il castello non c'era più... tutto era deserto... non eravamo là che noi due... io e quell'assassino — egli inginocchiato a domandarmi la vita, io sopra di lui a piantargli una baionetta nelle viscere. — Questa orribile visione è stata il mio deprofundis, la preghiera che io ho recitato in quella stanza donde era uscita la mia povera Martina per andare al campo santo.


VII.

La voce di Gregorio si era fatta roca — i muscoli neri delle sue braccia si erano gonfiati. Don Remondo con accento di compassione e di benevolenza si studiava di moderare quegli impeti appassionati.

— Sentite, don Remondo — riprese il vecchio col suo energico accento — io credo che la mia anima andrebbe dannata se prima di morire non facessi qualche cosa anch'io per aiutare la giustizia di Dio. Se si è fatta la guerra ai tedeschi, vuol dire che i tedeschi ne devono aver fatte tante e poi tante a noi poveri italiani, che finalmente anche quel lassù si è stancato. Le ho sapute tutte... A me la figlia... a quest'altro la moglie... dei poveri innocenti mandati alla forca... bastonate a dritta e a sinistra... centinaia di individui morti nelle prigioni... E senza andare lontano... da noi... nella nostra piccola valle... quali orrori... quanti assassinii!... Basta! Il secondo quarantotto è venuto... Hanno dovuto andarsene un'altra volta... dai nostri paesi... ed io — vedete maledizione! — io... nel cinquantanove, non sono arrivato in tempo... E voi ci avete avuto un po' di colpa, don Remondo... Mi dicevate: «aspetta, Gregorio!... non è tempo di partire... non è tanto facile passare il confine... Garibaldi verrà su da Varese... quanto prima egli dovrà passare per Como, e allora noi andremo ad arruolarci con lui!» Sicuro ch'egli ci è passato per Como, Garibaldi!... e poi si è portato a Lecco... e noi... bel da fare!... siamo corsi laggiù per farci iscrivere... e abbiamo avuto il nostro fucile quando non c'era più modo di adoperarlo! E loro le avevano già amministrate le loro pillole di piombo... si erano battuti a Laveno, a Varese, a San Fermo... mentre noi, gira di qua, gira di là, daghela avanti un passo... caricate le armi — un bel giorno vengono a dirci: fermo, signori!... alto!... non c'è più guerra... hanno capitolato... hanno accomodato l'armistizio... la diplomazia... l'accidente che li fulmini tutti...! E dopo alcuni giorni — vi ricordate, don Remondo?... noi eravamo a Lecco a fare il diavolo sulla piazza — e quel signore di T irano colla barba rossa ci ha rimandati al paese con queste belle parole: basta! quel che ho fatto, ho fatto, e quel che voi non avete fatto, lo faremo noi! — (Col tempo e colla paglia!...) Dio! le belle parole! Ma intanto...! Intanto daghela avanti un passo come i gamberi... ed io sono tornato al paese con quel gusto!... Oh! non sarà così questa volta... ve lo prometto io... Questa volta non si perderà il tempo a piantar delle carote... e dovranno lasciarci fare... perdio! La vuol esser l'ultima, don Remondo! Ci venite voi? Ebbene: non bisogna perder tempo... Preparare i nostri arnesi, e via tutti quanti!...


VIII.

In quel momento Ernani rientrava nel cortile tutto affannato. Quel gracile fanciullo di sedici anni, giuocando cogli altri contadinelli, si era fatto tutto rosso — le sue guancie diafane stillavano come il muro di una cantina.

— Diamine!... Mi vai tutto in sudore, figliuolo mio! Ci vuol altro... ci vuol altro! Con Garibaldi bisogna marciare! Venti... qualche volta trenta miglia al giorno... e a gamba levata!

— Oh! non dubitare, papà Gregorio! — rispose il fanciullo — io non ho paura delle marcie.

— E degli schioppi... avrai tu paura? chiese don Remondo accarezzando il fanciullo collo sguardo.

— Degli schioppi...! Ma ne avremo anche noi degli schioppi, non è vero, papà Gregorio?...

— Per noi due il governo non avrà da far spese... c'è tutto... Gli schioppi, le baionette, il sacco, le cartuccie... Questa volta ci siamo provveduti in tempo...

— Ma dunque? andremo proprio con Garibaldi? domandò il fanciullo saltando al collo del vecchio.

— Sicuro che ci andremo...

— Quando?

— Quando... quando!... Bisogna domandarlo a lui... a don Remondo... Ci capisco io qualche cosa di queste gazzette?... Là! fatemi il favore, don Remondo... tornate un po' a leggere il proclama di Garibaldi!

— Ma finora non ci sono proclami — rispose il prete — non sono che notizie da Caprera... dei si dice...

— Ma... dei si dice...! come nel cinquantanove! E mentre quegli altri si battevano, noi stavamo qui a masticare dei si dice!... Ernani: va a dormire!

— A dormire!... Così presto?... Ma io non ho sonno...

— Va a dormire, ti dico: domattina verrò a svegliarti di buon'ora... e andremo tutti e due... dove s'ha da andare...

— Da Garibaldi!... esclamò il fanciullo battendo le palme.

E di nuovo saltò al collo del vecchio; poi, senza dire parola, Ernani s'avviò alla cucina, salì per una scaletta di legno e disparve.

— Che vuol dire questa novità? — domandò il prete — se n'è andato senza salutarmi!

— Quel ragazzo aveva voglia di piangere... Io l'ho capito... Oh! non dormirà questa notte... il povero figliuolo!

— Ma dunque... anche lui... ha una gran voglia di andare alla guerra! A quell'età! E si può dire che egli non sa nemmeno cosa siano quei maledetti che a noi hanno fatto tanto male!

— Ditemi un po', don Remondo — prese a dire Gregorio col tono misterioso di chi sta per rivelare un grande segreto. Ditemi un poco: perchè ci siete andato... perchè ci tornerete anche voi alla guerra? cosa vi hanno fatto di male, a voi, quegli scomunicati di tedeschi?

— Io vado a battermi — rispose don Remondo con qualche imbarazzo — io vado a battermi per un principio... perchè ho veduto le atrocità che i tedeschi hanno commesso nella nostra povera valle... uccidendo tanti poveri innocenti...

— Dite la verità, don Remondo — fra questi poveri innocenti non c'era qualcheduno che vi apparteneva.... al quale eravate specialmente affezionato... qualche amico?...

— Ebbene... sì!... capisco... dove mira il tuo discorso... Tutti abbiamo le nostre debolezze... Noi preti si vive nell'isolamento... non abbiamo famiglia... Io amava il mio bracco come un amico... Alla fine non è un delitto portar un po' di affezione alle bestie che sono anch'esse creature di Dio! Cosa aveva fatto di male quel povero Fido?... Vedendo quelle monture bianche e quelle sciabole, s'era messo ad abbaiare... Ed essi — bel coraggio! bella forza!... pinf! panf! me l'hanno freddato con due palle nella testa!

— E voi non l'avete più perdonata a quei mostri! — proseguì Gregorio — si capisce! Ma a quel ragazzo... vedete!... a quel ragazzo i tedeschi hanno ucciso ben altro che un cane...! Hanno ucciso la persona che tutti al mondo si tengono più cara — la persona che egli ama, che egli adora senza averla conosciuta... una santa che prega per lui in paradiso... sua madre.

— Ma dunque... — esclamò il prete — questo ragazzo che da cinque o sei anni ti sei tirato in casa... che tutti credono tuo nipote...?

— Sotto voce... che nessuno ci senta! — sì!... è lui — badate che io vi parlo come se foste il mio confessore — è il figlio della mia povera Martina!



PARTE SECONDA

Il Dovere.


I.

Fra le molte famiglie che in Lombardia arricchirono considerevolmente dopo le disastrose peripezie del 1848, una ve n'ha in Milano, la quale oggigiorno può competere, in fatto di dovizie, col patriziato più illustre di censi. La voce del popolo, che è voce di Dio, attribuisce a questa famiglia un patrimonio di cinque o sei milioni. — Al fortunato capitalista noi daremo un nome di nostra invenzione — lo chiamer emo il signor Lorenzo De Mauro, senza defraudarlo di quel de pretensioso, che egli stesso volle assumere in una giornata di riabilitazione e di buon umore. — Cosa era il signor De Mauro prima del 1848? — Bisogna discendere molto basso per rintracciarne l'origine — noi non ci daremo la pena di calcare tutto il fango pel quale ha dovuto trascinarsi questo oro che oggi rifulge sulle alte cime della società. — E d'altra parte, a che gioverebbe? — Si tratta di un uomo ricco, di un uomo divenuto potente, che dà pane a tanti artisti, che presta danaro a tanti signori poveri, che ha regalato un pallio alla chiesa parrocchiale, che fuori di Milano, nel paesetto ove possiede, ha promesso di rifabbricare a sue spese il campanile. — Non si domanda il passato ad un presente così luminoso — e quand'uno osa farlo, tutti in coro rispondono: «che importa?... sì... forse.... ma pure... la invidia... la calunnia...» Noi dunque ci limiteremo a dire di questo passato solo quel tanto che importa all'intelligenza del nostro racconto.


II.

La fortuna del De Mauro cominciò — per quanto dicono — con delle speculazioni sulla carta bollata. Questa istoria ha dello inverosimile. Più tardi vennero gli approvvigionamenti militari — poi gli appalti per la costruzione di alcuni fortini, quindi, in occasione della battaglia di Novara, il noleggio dei mezzi di trasporto, e di nuovo la fornitura delle vettovaglie all'esercito austriaco. — Dotato di molta avvedutezza e di poca coscienza, il De Mauro cominciò per bene la sua carriera. I tedeschi furono contenti di lui, ed egli naturalmente di loro — così, di appalto in appalto, il nostro uomo raggiunse la meta invidiata — divenne milionario. — Non spetta a noi rivedere le partite arretrate per verificare l'esattezza dei bilanci — poichè il governo austriaco fu pienamente soddisfatto!.... E d'altra parte, non è forse vero ciò che dicono molti, che i fornitori d'armata hanno mille occasioni di rubare onestamente? — La maggiore o minore on està risulta dall'esito. Fatevi fucilare sul campo, e siete fior di canaglia; uscite salvi ed illesi coi vostri milioni, e avrete fama di industriale avveduto. L'onestà degli speculatori si misura a questa bilancia.


III.

È ben vero che in sulle prime — all'improvviso bagliore delle nuove fortune — il popolo mormora e qualche volta calunnia. — Ma il signor De Mauro, co' suoi milioni, oppose una barriera alle dicerie di quell'infima classe donde era uscito. Un'altra società, un altro mondo si apriva per lui. — Egli sapeva che questa società doppiamente maligna, ma frivola altrettanto, che questo mondo avverso ai nuovi arricchiti, ma altrettanto facile alle transazioni, si poteva agevolmente conquistare e dominare colla servilità e coi favori. Stese la mano timidamente ai più prossimi — strisciò nelle anticamere, fu prodigo di inchini ai potenti. Qualche persona di rango cominciò a restituirgli le visite entrando nel suo palazzo per la porticina — più tardi il portone si aperse per tutti. — Ecco un uomo riabilitato, un uomo influente, un uomo di considerazione — Era egli felice? — Una stolta domanda — e voi che la proponete, osereste asserire di esser felici? — Quella porzione di male che si aggrava su ciascun individuo della specie umana, pel signor De Mauro era la coscienza del suo passato, era il non esser capace di dimenticare egli stesso ciò che la società, per lo meno in apparenza, aveva potuto dimenticare. Da ciò una inquietudine vaga, una perpetua diffidenza. Non osava persuadersi che qualcuno gli fosse amico. Un'occhiata meno franca lo metteva in sospetto — un freddo saluto lo irritava come un insulto. Odiava senza ragione. Delle voci sinistre giungevano qualche volta al suo orecchio, lo assalivano di fianco come pugnali. — Dopo la riscossa del 1859 passò dei giorni affannosi — il suo contegno divenne più umile, tentò sulle prime di eclissarsi. Nel fondo del cuore egli deplorò come propria sventura la cacciata degli austriaci — e nondimeno fu tra i primi a inalb erare la bandiera nazionale sul terrazzo della sua casa, e a versare delle somme cospicue a pro della patria. — Erano le elargizioni della paura — ma il contante produceva un benefizio reale — il nuovo governo e il buon popolo accettarono quei tributi generosi come prove di patriottismo. — Nullameno — ci duole il dirlo — il signor De Mauro non cessò mai di rimpiangere segretamente i tedeschi. Le trepidazioni della sua coscienza erano meno sensibili prima del 1859 — ed ora, la libertà della stampa, ciò che egli chiamava la sfrenatezza del popolo, costituivano per lui una minaccia perenne. Senza questa minaccia, egli poco o nulla si sarebbe preoccupato delle nuove condizioni politiche del paese, fors'anche avrebbe diviso sinceramente le gioie della patria redenta nel solo senso che per lui era possibile: «governo nuovo, risorse nuove!»


IV.

Per completare questo personaggio che avrà pochissima parte nel nostro racconto, ma che pure ne è in certo qual modo la causa efficiente, non ci resta che aggiungere alcuni particolari intorno ai suoi rapporti di famiglia.

Nell'anno 1847, quando era povero e incerto tuttavia del proprio avvenire, il signor De Mauro condusse in moglie una vedova di circa venticinque anni, la quale gli portava in dote una rara bellezza, un cuore di angelo e circa seimila lire fra danaro e masserizie. A quell'epoca, pel De Mauro, era un matrimonio di speculazione; quelle seimila lire dovevano costituire la prima base della sua fortuna.

Sarebbe malignità soverchia attribuire all'influenza di quel piccolo capitale l'affezione che il signor De Mauro portò sempre alla moglie. Egli non cessò mai di amarla anche in mezzo al tumulto degli affari ed al tripudio affannoso delle ricchezze. Si chiamava Serafina. Una donna di spirito mediocre, docile e mansueta come un agnello. Dopo aver condivise le angustie e le agitazioni del marito negli anni più disagiati, quella rapida e abbagliante prosperità che dal 1848 in appresso si era veduta sviluppare intorno a lei, le pareva miracolosa. Ne era quasi sgomentata — e quegli ingenui sgomenti formavano la gioia del marito. Il signor De Mauro, nelle sorprese di sua moglie, in quelle enfasi di maraviglia che toccavano i confini della paura, gustava doppiamente i propri trionfi. Egli era il giuocatore di prestigio che dopo aver gettata nel bossolo una moneta di rame, ne fa uscire gli scudi a centinaia fra lo stupore e l'applauso del pubblico. Per il signor De Mauro il pubblico era la moglie — la buona Serafina vedeva l'oro moltiplicarsi, crescere la agiatezza, e sempre, all'annunzio di nuove fortune, rideva e tremava per impeto convulso. Qualche volta, fissando nel marito i suoi grandi occhi pieni di spavento, ella non poteva trattenersi dallo esclamare: saresti tu mai il diavolo!... A tali parole il marito si sentiva rapire dalla gioia. —


V.

Abbiamo schizzato due ritratti e due biografie. Ma il signore e la signora De Mauro, come già avvertimmo, non prenderanno molta parte nella breve storia che siamo per riferire. — Vi è un giovane di ventidue anni in questo palazzo costrutto coll'oro degli appalti e delle forniture militari, un giovane che è passato per tutte le fasi delle fortune paterne senza quasi avvedersene, che sarà un giorno l'erede di uno dei più cospicui patrimonii di Milano, ed è, cionnullameno, infelice, noiato della vita e cupamente misantropo. Un bel giovane dai capelli bruni, dallo sguardo profondo, dal labbro ardente, adorato dai genitori, stimato dagli amici, desiderato nei circoli della società più eletta. Eppure il figlio del signor De Mauro non brilla fra gli eleganti di Milano, rifugge dai convegni brillanti, vive quasi isolato. In famiglia, rare volte si abbandona a quelle espansioni confidenziali che una madre affettuosa, una tenera madre qual è la signora Serafina, avrebbe diritto di attendersi dall'unico figlio. — Qual è il segreto di questa tristezza che ogni giorno progredisce in un cuore di ventidue anni? — Noi lo sapremo fra breve. È tempo oramai che i nostri personaggi si mettano in azione, che prendano a rivelarsi da sè medesimi.


VI.

Una sera, in sul finire del maggio 1866, si trovava adunata nel medesimo gabinetto — ciò che avveniva rare volte — tutta la piccola famiglia — La signora Serafina era intenta a ripassare delle lingerie — Ella non aveva mai potuto rinunziare alle abitudini casalinghe de' suoi anni meno fortunati — Il signor De Mauro leggeva la Gazzetta di Milano — e tratto tratto levava la testa dal giornale per lanciare una occhiata fuggitiva a suo figlio che, in quella sera, pareva di umore assai tetro.

— Ebbene? non ci dici nulla, Edoardo! Come hai passata la giornata? — domandò la signora Serafina al figliuolo.

— Come al solito! — rispose il giovane a voce bassa; stamattina ho lavorato un poco nel mio studio da pittore... poi verso le due sono uscito..,

— A cavallo?...

— No... sono andato a piedi fino alla stazione della ferrovia... Quest'oggi partivano per Como più di duemila volontari...

— Ah!... tu pure ti trovavi alla stazione, Edoardo! — disse il signor De Mauro, interrompendo la lettura. — Non ti ho veduto... Ti avrei ricondotto colla mia carrozza...

— C'era tanta folla!... rispose il giovane sbadatamente senza volgere gli occhi a suo padre.

— È vero! c'era mezzo Milano... per vedere quei bei... mobili! Che faccie quegli alessandrini... quei greci...! gente da far paura! tutti armati di coltello... e di revolver... Parevano assassini!

— Eppure... a quanto dicono... sono tutte persone...

— Persone...? sentiamo un poco... Edoardo!...

— Persone rispettabili e degne di am mirazione! esclamò il giovane con accento vibrato — essi hanno attraversato il mare e sono venuti ad offrire il loro braccio all'Italia, a far arrossire quei pochi italiani che, giovani com'essi e vigorosi, rimangono qui a poltrire nell'ozio e ad almanaccare sui dispacci dell'Agenzia Stefani!

Il signor De Mauro fissò nel giovane due occhi quasi atterriti. L'enfasi di quelle parole gli avevano rivelato ciò che egli da parecchie settimane tremava sempre di dover intendere. La buona Serafina intervenne fra padre e figlio.

— Oh! sicuro... Edoardo ha ragione... Li ho veduti anch'io quei bravi giovani... l'altro ieri... quando sono arrivati... Non è poco sacrifizio... venire da paesi così lontani e dicono... a loro spesa... per combattere contro i tedeschi... e sarebbe proprio vergogna se i nostri...

— Non c'è questo pericolo, mamma — riprese Edoardo con accento più mite — quest'oggi, anche dei nostri ne partivano più di due mila... e altrettanti ne partirebbero domani, se il Governo non avesse creduto bene di sospendere gli arruolamenti per la esuberanza degli accorsi... Ma quanto prima... dicono il cinque giugno... si ricomincerà da capo...

— E tutti quelli — riprese la signora Serafina — tutti quelli che amano la patria, e che sono abbastanza robusti da poter resistere alle dure fatiche del campo... faranno senza dubbio il loro dovere!...

— E lo faremo tutti, il nostro dovere! — esclamò il signor De Mauro con una voce che indicava il proposito di conciliarsi la benevolenza e l'ammirazione di suo figlio. — Noi abbiamo già dato cinquecento lire per le famiglie povere dei contingenti — d'altre cento lire ho disposto per quelli fra i nostri giovani di studio che sono partiti per il campo e saranno per ritornarne colla medaglia del valore militare — Se tu credi, Edoardo — sentiamo un poco il tuo parere — sai... del denaro non ce ne manca... è roba tua... e puoi farne liberamente quell'uso che credi migliore... Dobbiamo stabilire una piccola rendita vitalizia a tutte le vedove e le madri dei nostri coloni, le quali avessero a perdere il marito od il figlio in queste ultime battaglie della patria?

— Tu sai bene che quando si tratta della patria...

— Ebbene... sì! faremo anche questo sacrifizio... cioè... tu, Edoardo... Alla fine... come dicevo... è roba tua... E faremo stampare sui giornali... che il signor Edoardo De Mauro...

— Questa ci mancherebbe! — esclamò il giovane con accento di sentita ironia — Stampare nei giornali che il signor Edoardo De Mauro, un giovinotto di venti anni, sano, robusto, addestrato al maneggio delle armi, ha voluto esimersi dal suo obbligo di prestare il braccio alla patria... costituendo una pensione vitalizia in favore di quei poveri contadini che sono andati a farsi ammazzare in sua vece, perchè hanno sentito — essi, idioti e quasi ignari di avere una patria! — hanno sentito che in questo sublime momento della nazione non vi è altro posto d'onore per un giovine italiano che il campo di battaglia!

La fronte del signor De Mauro si coperse di una nube. I suoi occhi bigi coperti da folte palpebre cercavano ansiosamente quelli di Serafina — ma dessa, la buona madre di Edoardo, teneva lo sguardo intento alle lingerie, e non osava respirare.

Il signor De Mauro, dopo breve meditazione, riprese a parlare con quel tuono moderato e insinuante che pretende persuadere colla duplice influenza della logica e del sentimento.

— Si lavora per tutta la vita e si diventa vecchi... Si adunano delle fortune... non per sè stessi... ma per quelli che vivranno dopo noi... pei nostri figli.... Quando se ne ha molti dei figli... si capisce... questi vanno e quelli restano a casa.... Fossero due!... meno male! — io non mi farei pregare... io direi: qual è di voi che vuole arruolarsi?.... Tirerebbero a sorte... non è vero, Serafina? — anche tu saresti contenta. — Ma quando non si ha che un solo figlio... e quando si può giovare alla patria... quando si può fare dell'immenso bene al paese senza sacrificare il nostro sangue — allora, dico io, allora bisogna essere senza cuore, o peggio, ubbriachi di fanatismo e di orgoglio — sì... anche di orgoglio! — per resistere alla voce della natura, agli istinti dell'affetto... Oh! ne abbiamo veduti dei padri fare ostentazione di un tale cinismo! Dei vecchi usurai, i quali non si vergognarono di negare alla patria una miserabile oblazione di poche lire, poichè, dicevano essi, avevano già dato... il loro figlio! — Ah! si farebbero le belle guerre... senza i milioni!... Sono forse le braccia che mancano? Dove ci sono milioni, ci sono soldati.... Mi parlate dei contadini!... Essi vanno perchè devono andare.... Ebbene: quando noi proprietarii si fa piovere qualche spicciolo nelle giberne, quando noi si provvede al mantenimento delle famiglie povere e si istituiscono premii e pensioni vitalizie... ecco questi poveri ragazzi partono di buona voglia... gridano: viva l'Italia! e marciano incontro al fuoco con coraggio! Uno diventa due — le forze si raddoppiano... e con uomini di tal fatta non c'è più da temere! — Convengo... se vi fosse penuria d'uomini.... Ma tu lo vedi — Edoardo — si è obbligati a sospendere gli arruolamenti... Uno più, uno meno conta per qualche cosa in un esercito che trabocca? — Nulla! proprio nulla! — Ma questo uno conta per tutto... è tutto nella vecchia famiglia di suo padre e di sua madre... e quanto all'esercito, quest'uno può contare per cento senza allontanarsi dalla propria casa. Io te lo ripeto, Edoardo: domanda ciò che vuoi — io sono pronto a qualunque sacrifizio. Non ami che i nostri sacrifizi sieno fatti palesi per mezzo dei giornali? Sia pure. — Registrerò le offerte a nome mio... Ma tu... nella tua coscienza potrai dire: sono io che ho indotto mio padre a far questo — sono io che soccorro tante famiglie povere di soldati... Leggo nelle Gazzette che il governo ha bisogno di cavalli... Ne offriremo due... sei contento?... Pensaci — o far le cose per bene o non farle... Ho messo gli occhi sul tuo Morello... Hai capito, Edoardo?... Sei tu disposto a privartene?

— Morello!?... Non è possibile! — rispose il giovane alzandosi in piedi e levando un lume dalla tavola in atto di ritirarsi.

— Ah... vedi!... ti dispiace privarti del tuo più bel cavallo... Anche questi sono sacrifizi!...

— Gli è che Morello mi è divenuto indispensabile — disse Edoardo avviandosi verso la porta — perchè domani io intendo presentare la mia petizione alla commissione degli arruolamenti volontari per entrare nel corpo delle guide!

Ciò detto, il giovane uscì dal salotto senza volgere la testa.


VII.

Il signor De Mauro rimase come un uomo percosso dal fulmine. — Era la prima volta che suo figlio osava parlargli un simile linguaggio, la prima volta che quel figlio taciturno e sottomesso accennava di volersi ribellare alla autorità paterna in modo sì franco e risoluto. — La signora Serafina tremava. Ella si attendeva una di quelle esplosioni violente che andavano a scaricarsi sovr'essa, ogniqualvolta al tenace dispotismo di suo marito si opponevano delle contrarietà inesorabili.

Ma questa volta l'esplosione non avvenne. Il signor De Mauro aveva bisogno di un alleato per lottare vantaggiosamente contro la ribellione del suo unico figlio; e il migliore, il più potente alleato — egli lo comprendeva — era la madre di Edoardo. Serafina era più forte di lui, poichè la tenerezza di una madre ha maggiore impero sul cuore di un figlio che non l'affetto paterno. Il signor De Mauro non aveva mai permesso a sua moglie di intromettere una mezza parola nelle vertenze più scabrose dei suoi affari, delle sue speculazioni commerciali; ma ora egli sentiva il bisogno di prendere consiglio da quel cuore di donna, da quel senno di madre.

— Hai tu sentito, Serafina? — cominciò egli con voce fioca e con accento desolato — ah! ne avevo il presentimento! ma pure non avrei creduto ch'egli avesse a mostrare tanta durezza!... Un bel vantaggio davvero... questa libertà!... Cosa abbiamo guadagnato?... Non si può contare su nulla... nè anche sui figli...! Ingrati! E quando vi hanno detto: la patria... l'Italia... credono di avere il diritto di calpesta re il padre, la madre, tutti gli affetti o i doveri della famiglia! Noi altri non si conta più nulla... noi! La patria, l'Italia, e crepino nella solitudine e nella amarezza coloro che ci hanno messo al mondo, e che vivono solo per noi! — Che cosa ne dici, Serafina?...

— Io dico che quel ragazzo...

— Non è più un ragazzo... Serafina! — Oh se lo fosse, faremmo presto a metterlo al dovere!... Ma ti pare? Quando io mi era messo a fargli un po' di morale, a mostrargli come due e due fanno quattro, che noi signori si può fare molto bene alla sua patria senza metterci là ad aumentare di venti o trenta chili la carne da cannone — cosa ha risposto... vediamo!... «Domani anderò a presentare le mie petizioni al Comitato degli arruolamenti»! — Domani!... Hai capìto, Serafina?... Ma io credo che la petizione abbia già fatto la sua strada a quest'ora... credo che da questo lato non ci sia più mezzo di attraversargli la via... Quel ragazzo è già bello ed arruolato!

— Non ancora! — rispose Serafina timidamente — sai bene che Edoardo dice sempre la verità...

— Non ancora?... Capisco... tu ne sapevi qualche cosa... Hai fatto male a non avvertirmene subito... Ma pure... se le cose stanno come tu dici... Vediamo: — ma tu non ti sei provata a fargli intendere ragione? non hai tentato?...

— Io?... Sicuro che gli ho parlato... La prima volta che Edoardo si lasciò sfuggire una mezza parola su tale argomento, gli ho detto: bada, figliolo mio; tu non hai salute da buttar via, tu non potrai reggere alle fatiche del soldato... lascia andare quelli che sono già abituati alle durezze e ai disagi della vita...

— Ed egli ti avrà risposto: anche il tale e il tal altro appartengono alle prime famiglie di Milano, sono nati e cresciuti nella bambagia... il figlio del conte G... il figlio del marchese C..., e via con una filza di piccoli conti e di piccoli marchesi!... Bisognava prender la cosa da un altro verso!... Serafina... tutti quanti si credono Ercoli... si credono Sansoni... in questi momenti!... anche quelli, che l'anno passato giravano per la città con una veletta azzurra abbassata sulla faccia come le modistine che vanno a bottega!

— Gli ho anche proposto — come tu mi avevi indicato una sera — gli ho proposto di fare quel tal viaggio a Parigi ed a Londra...

— Sicuro... una buona idea! egli mi tormenta da due anni per ottenere il permesso... ed il danaro... Ebbene: che cosa ha risposto?

— Ha risposto che per andar a Parigi egli vuole aspettare la grande esposizione dell'anno venturo... e che del resto... sarebbe una vergogna per un giovane come lui... il farsi vedere sui boulevards di Parigi...

— Imbecille! come se a Parigi avessero a riconoscerlo e a fischiargli dietro le spalle, perchè, essendo figlio unico, ed unico erede del signor De Mauro, che possiede oltre sette milioni di patrimonio, non è andato a farsi massacrare dalla mitraglia, onde gli altri abbiano a godersi il fatto suo. C'è proprio da sbattezzarsi a vedere come ragionano queste teste! E dire che le abbiamo fatte noi...

— Insomma...

— Insomma... ho capito... Non sei riuscita a mettere assieme quattro ragioni da persuaderlo ch'egli si è fitto in capo una idea da matto... Bisognava assalirlo dal lato della sensibilità... parlargli dell'immenso dolore che mi avrebbe cagionato... del tuo amore... dirgli che saresti morta... Tu sei la persona ch'egli ama di più a questo mondo... Oh vedete un po' se si può dare di peggio?... Fosse almeno innamorato...! avesse almeno preso moglie!... Quand'uno ha moglie, non pensa a certe follie... Sono fatti così questi ingrati di figli... Il padre, la madre piangano pure... si disperino... muoiano... che importa? ma per una fanciulla che faccia gli occhi morti... per una moglie che finga di svenire, essi cedono le armi, diventano docili e sommessi come agnelletti...!

— Lorenzo... mi viene un pensiero! — esclamò la signora De Mauro abbandonando le sue lingerie e guardando fissamente il marito — forse un mezzo ci sarebbe...

— Sentiamo, mia buona Serafina... Sentiamo!

— Tu non mi sgriderai se ho taciuto finora...

— Via, poichè mi dici che vi è un mezzo...

— Sarebbe... Tu dicevi che una donna... una fanciulla... che insomma... quando un giovane è innamorato...

— Dunque... lui... Edoardo... sarebbe?... Ma perchè aspettar tanto... a parlarmene?

— Mio Dio!... Avrei parlato prima d'ora... ed anzi... da circa tre mesi non si è fatto che esplorare l'occasione favorevole... Ma tu... in questi tre mesi ne hai combinati tanti dei matrimonii pel nostro Edoardo! Non saranno venti giorni... volevi che egli sposasse la figlia del banchiere Zanna...

— Che possiede una bella e buona dote di ottocento mila franchi alla mano e tre zii milionarii... Ma non era la dote che mi stava a cuore... Io prevedeva il temporale... io capiva di avere a fare con un matto... e volevo, ad ogni buon conto, incatenarlo ad un pezzo di moglie!... Ma tu dici che il ragazzo ha già le sue idee... Sentiamo... Purchè ci stiano le nostre convenienze...

— Si tratterebbe... Tu conosci la figlia del Contareno... quella cara fanciulla...

— Il marchese Contareno!... uno spiantato... tutto boria... tutto fumo...

— Ma la ragazza ha ereditato la dote di sua madre... poca cosa... circa centomila franchi... Il nostro Edoardo è d'altra parte abbastanza ricco... e poi... gli è tanto innamorato di quella figliola...

Il signor De Mauro stette alcuni momenti sopra pensiero, colla testa appoggiata alle mani... Le sue dita si agitavano convulse sulla fronte, come quelle di un suonatore sulla tastiera d'un pianoforte.

Scorsi alcuni istanti, riprese a parlare; ma questa volta a bassa voce, senza badare alla moglie, senza attendere risposta.

— Famiglia di spiantati... ma pure... una nobile famiglia... Questo sarebbe forse un espediente per vincere l'orgoglio e la ritrosia di cert'uni... Tutto sta che quella mummia di marchese non abbi a l'aria di farmi una grazia!... Egli n'è ben capace!... Non hanno un baiocco... ma del fumo... del fumo ce n'è da acciecare un battaglione di ussari!... Non vogliono persuadersi che il loro tempo è finito... che oggigiorno... la nobiltà... la vera nobiltà siamo noi, o piuttosto i nostri sacchi di marenghi. — Sentimi, Serafina...

E a questo punto il signor De Mauro rinforzò la voce, dirigendo la parola a sua moglie:

— Credi tu che anche lei... la ragazza... la figlia di questo marchese... sarebbe disposta?...

— Innamorata pazza del nostro Edoardo! — rispose la signora De Mauro coll'accento dell'orgoglio e della gioia.

— Se la è così — disse il De Mauro levandosi in piedi — affare concluso!... Domani si va dal marchese — gli si fanno le proposte — si stabilisce che il matrimonio abbia a concludersi entro quindici o venti giorni... si induce la ragazza... Oh! lasciamo fare a lei... Se Edoardo è innamorato, come tu mi dicevi, si lascerà facilmente persuadere... e addio Garibaldi, addio volontari, addio patria... e chi è minchione vada a farsi ammazzare!...

— Ma zitto, Lorenzo!... Non posso sentire queste parole! — disse la signora, facendosi bianca nel volto.

— Che? che?... Sta a vedere che anche tu mi diventi repubblicana come il tuo Edoardo! La patria!... Sicuro: nessuno potrà dire che io non abbia sempre amato e non ami la patria... Ma questa non è una ragione perchè mandi mio figlio a farsi ammazzare dai croati! — Nostro figlio deve goderla la patria — a chi servirebbe questa Italia una e indipendente, se non fosse ai nostri figli, a quelli che la erediteranno da noi?

Così parlando, il signor De Mauro uscì dal salotto col volto radiante. Egli non era mai tanto felice come quando poteva sgomentare un poco la sua docile e ingenua compagna con ciò che egli chiamava le sue spiritosità politiche.

VIII.

All'indomani, verso le undici del mattino, il signor De Mauro salì nella sua carrozza di gala, e si fece condurre in via dei B... alla porta dell'antico palazzo dei Contareno.

Il marchese era un uomo sui sessant'anni — un patrizio dell'antico stampo, alquanto modificato dai due rivolgimenti politici del 1848 e del 1859, ma pure, in fondo all'anima, devoto ai principi assoluti di un'altra epoca. Non parteggiava per l'Austria, ma era avverso alla costituzione del nuovo regno. Egli vagheggiava un'Italia una, salvo il rispetto alle provincie appartenenti per diritto al Sommo pontefice; una Italia indipendente, ma governata col più severo despotismo. Ordine e religione: queste due parole formulavano tutto il suo programma politico.

A quarant'anni era rimasto vedovo con una figlia, e i maligni pretendono ch'egli sciupasse le sue sostanze nel patrocinare una allieva del maestro Blasis, che forse avrebbe consentito di rinunziare alle danze e di prenderselo per marito, s'egli, fortunatamente, non si fosse lasciato spiumare in anticipazione fino all'ultima penna.

Questa circostanza lo salvò da' peggiori disastri — da una moglie ballerina, la quale non aveva le migliori disposizioni per rassegnarsi alla vita inerte al fianco di un vecchio rovinato.

Il marchese Contareno, — convien rendergli giustizia — dopo quell'ultimo disinganno di amore concentrò tutte le sue affezioni nel cuore di sua figlia. Dal 1859 in appresso, la sua vita fu una passeggiata al mattino, una tazza di semata al Caffè Cova, ed il resto del giorno in casa, a dir male del governo e della licenza pubblica col suo vecchio domestico e colla sua Enrichetta.

Diremo noi che la figlia del marchese Contareno, è una delle più avvenenti fanciulle, una stella nascente del patriziato milanese? — In un romanzo, ciò sarebbe obbligatorio — ma noi, sventuratamente, dobbiamo att enerci alla realtà. Enrichetta è una buona figliola, dalla statura alta, dalla fronte spaziosa e severa, dallo sguardo profondo — è una bellezza simmetrica, dai contorni incensurabili, dai lineamenti perfetti — ma pure non è di quei tipi di fanciulla che hanno il fascino della seduzione. Le sue labbra, squisitamente delineate, non si schiudono che a brevi sorrisi — i suoi occhi non brillano di quella luce carezzante che rivela le anime espansive, esuberanti di giovinezza e di passione.

I baci di una madre non ammorbidirono quei lineamenti; le carezze di una mano di donna mancarono a quella infanzia vissuta nelle solitudini di un palazzo in rovina. Enrichetta si era educata da sè — un vecchio maestro di danza le aveva insegnato gli atteggiamenti e le pose della gran società — uno zio prete i rudimenti della grammatica italiana e un po' di francese — ma ella, profittando liberamente di una vecchia biblioteca, dove suo padre lasciava ammuffire migliaia di volumi, aveva assorbita una erudizione superiore alla sua età ed al suo sesso. A sedici anni ella aveva letto Plutarco e la Nuova Eloisa, i saggi di Montaigne e il Don Giovanni di Byron, la Storia di Tito Livio e il Cavaliere di Faublas. E nondimeno quell'anima non si era corrotta. Ella aveva respirato nei libri la filosofia e la lascivia, l'eroismo della storia e le enfatiche passioni del romanzo, ma il suo nobile carattere si era sempre elevato. A vent'anni ella non aveva ancora amato — il suo cuore patrizio esigeva un eroe, il suo spirito colto e fantastico aveva bisogno di un'alta intelligenza a cui affratellarsi. — Nelle sale del Prefetto e del Sindaco, ella aveva danzato con dei giovani ufficiali sfolgoreggianti di decorazioni, ma nessuno era riuscito a commuoverla. Il di lei sembiante altero, sdegnoso, pareva respingere gli adoratori. Una sera, alla veglia del casino, nessuno le mosse incontro per invitarla alla danza. Era una piccola congiura, una vendetta degli eleganti. Ma in quella sera un giovane le si era fatto dappresso, e si era intrattenuto con lei alcun tempo. Le sue guancie si erano animate di una tinta più rosea, — i suoi occhi mandarono un lampo inusitato — quella statua di fanciulla si rianimò come per effetto di incanto. — Enrichetta aveva trovato il suo ideale — e questo ideale, ch'ella prese ad amare con tutto l'ardore della sua anima vergine, era Edoardo De Mauro.


IX.

— Signor marchese, una visita! — disse il vecchio domestico entrando nel salotto. —

— Una visita!... infatti... avevo sentito fermarsi una carrozza...

— Il signor Lorenzo De... Mauro...

— Il signor Mauro... vorrai dire. Ma cosa può condurre il signor Mauro nel mio palazzo?... Ebbene? Che fai là ritto?... Avanti! fallo entrare... questo signor De Mauro!...

Il servitore uscì per pochi istanti, quindi ricomparve per introdurre il ricco industriale.

Il marchese Contareno si levò in piedi, fece un leggiero inchino, e accennando una sedia — La prego di accomodarsi, disse — a che debbo l'onore della sua visita?

— Io sono uomo d'affari, signor marchese... ella deve conoscermi. Altra volta ebbi la fortuna e l'onore di parlare con lei quando si trattò di stabilire fra noi un accordo sulle rispettive ingerenze nella amministrazione del comune di E... In quella circostanza ci siamo intesi senza molte parole, ma oggi si tratta di un altro genere di affari. La proposta che io vengo a farvi non riguarda voi solamente, ma anche la persona che vi è più cara al mondo... quella che è rimasta la sola compagna dei vostri vecchi giorni — voi comprenderete che intendo parlare di madamigella Enrichetta vostra figlia...

— La mia Enrichetta! — esclamò il marchese — ella è uscita, poco fa, colla contessa De Canzio per recarsi dalla duchessa Visconti...

— Non serve, non serve! — possiamo trattare fra noi, interruppe il signor De Mauro con un leggiero sorriso — a suo tempo consulteremo l'aristocrazia femmini le — vediamo dapprima se è possibile stabilire fra noi i preliminari del contratto.

— Ah! si tratterebbe dunque di un contratto...?

— Sicuro! un contratto... di matrimonio, signor marchese. Brevemente: io ho l'onore, signor marchese, di chiedervi la mano di madamigella Enrichetta a nome di mio figlio Edoardo.

— Ah!... vostro figlio Edoardo! — esclamò il marchese impacciato dalla sorpresa — vostro figlio... quel giovane biondo... cioè... m'inganno... mia figlia me ne ha parlato... credo anche di averlo veduto una sera alla veglia di Sua Eccellenza il signor Prefetto... Voi ci andate, non è vero, allo veglie di Sua Eccellenza, il signor Prefetto?

— Poichè il Prefetto viene da noi, sarebbe sconvenienza resistere a' suoi inviti — rispose il De Mauro con affettata indifferenza. — Quanto a mio figlio Edoardo, se non lo conoscete, io vi darò sul di lui conto le informazioni più precise — è un giovane di ventidue anni, perfettamente educato, di indole eccellente; alla mia morte sarà padrone di tutto il fatto mio, circa sei milioni di capitale, e all'atto del matrimonio io sono disposto a costituirgli una rendita annua di lire trentamila — che ve ne pare, signor marchese?...

— In verità... la marchesina nostra figlia non potrebbe desiderare una posizione più splendida dal lato delle ricchezze... e quando ella non avesse difficoltà... Voi sapete, signor De Mauro, che a tali proposte non si risponde definitivamente se non dopo mature riflessioni... Bisogna in ogni modo che io mi consulti con qualcheduno... coi nostri nobili parenti... che io interroghi il cuore di mia figlia...

— Ma via, signor marchese! — Parliamoci apertamente... Credete voi che un par mio, un uomo d'affari, sarebbe venuto a formularvi così francamente la sua proposta, se prima non fosse stato sicuro del consenso di vostra figlia? Che serve?... Le cose sono arrivate a tal punto che ai signori papà non resta che rappresentare la parte dei padri nobili della commedia — far venire i due ragazzi e impartire ad essi la loro benedizione. — Mio figlio Edoardo è innamorato pazzo della vostra Enrichetta... e madamigella Enrichetta è innamorata morta di mio figlio Edoardo... Da cinque mesi si scrivono lettere di fuoco...

— Da cinque mesi!... la mia Enrichetta... scrive delle lettere...!... A che tempi siamo giunti!... Ma siete voi ben sicuro, signor De Mauro..? Ed io non mi era accorto di nulla...

— Oh! sta a vedere che tocca a noi altri l'accorgersi di queste frascherie! Noi altri si fa di tutto per indovinarli i nostri figli, ma essi, gli ingrati! adoperano tutte le arti per sottrarsi alla nostra amorevolezza! Essi non vogliono permettere a noi il piacere di renderli felici! — Non importa!... se ad essi pesa la riconoscenza, ciò non toglie che il renderli felici sia per noi un dovere, una gioia!

Il signor De Mauro proferì queste parole con voce commossa. — Il marchese portò la mano agli occhi per asciugarsi una lacrima. Egli era uno di quei vecchi che piangono facilmente d'ogni nonnulla per rilassatezza dei vasi linfatici.

In quel punto Enrichetta Contareno entrò nella sala — Ella entrò senza punto badare a suo padre, ma alla vista del signor De Mauro, trasalì leggermente. Il marchese adempì come un automa alle formalità della presentazione; ma il signor De Mauro, ch'era uomo di mondo nel senso più positivo della parola, alla presenza di quella fanciulla, ripigliò il suo fare più disinvolto. Egli sentiva di avere in lei una alleata che poteva con una sola parola decidere della situazione.

— Non potevate giungere più a proposito, madamigella! — prese a dire il signor De Mauro indirizzandosi alla giovane — Io era venuto dal signor marchese vostro padre per proporgli un affare... che in... qualche parte... o signorina, riguarda anche voi... Il signor marchese non è ancora ben determinato nelle sue idee... mi ha chiesto del tempo a riflettere... e desidera innanzi tutto consultarsi con voi... Troppo giusto! Io amo la sollecitudine nel disbrigo degli affari... ma sono abbastanza ragionevole per comprendere le esitazioni del signor marchese, e d'altra parte la sua adesione non gioverebbe gran fatto quando essa non fosse avvalorata, o signorina, dal vostro consenso. Orbene; io vi lascio soli... non voglio influire colla mia presenza sulle deliberazioni che sarete per prendere. — Solamente io vi domando una grazia: se avviene che dalle vostre private conferenze esca un voto favorevole alle mie proposte, vi prego di inviarmi entro la giornata due righe così concepite: «domani, alle ore cinque e mezzo pomeridiane, il signor marchese Contareno e la sua gentilissima figlia saranno a pranzo da voi.»

— Oh.... ma vi pare!... signor De Mauro?.... Ciò è fuori d'ogni regola! Un pranzo... con mia figlia...

— Signor marchese, disse il De Mauro levandosi in piedi, e voi pure, amabilissima signorina, ascoltatemi bene: io ammetto che abbiate a riflettere, che abbiate a discutere liberamente e ponderatamente prima di decidere — ma una volta che questa decisione sia presa, io intendo che si proceda a passo di carica, a marcia forzata... senza perdere un istante. Fra quindici giorni tutto dev'essere compiuto.

Ciò detto, il signor De Mauro fece un profondo inchino al marchese, e con insolita galanteria baciò la mano della fanciulla che arrossì leggermente.

Appena il De Mauro fu uscito, il marchese ricadde sulla sua seggiola, e volgendosi alla figlia:

— Tu avrai già capito di che si tratta, le disse con voce sommessa. — Il figlio del signor De Mauro aspira all'onore della tua mano... e il di lui padre vorrebbe farmi credere che fra voi altri due vi siate già scambiate delle promesse... le quali poco o nulla conterebbero...

— Voi sapete che una mia promessa conta sempre per una promessa — rispose Enrichetta col piglio severo e quasi sprezzante ond'ella era usa a trattare con suo padre. — La mia fede è impegnata col signor Edoardo De Mauro; è l'unico giovine che io riconosca degno dei miei affetti e della mia stima. Solamente mi reca maraviglia ch'egli abbia scelto questo momento per realizzare i nostri desiderii!

— Dunque a me non resta da far altro ch e... obbedire e apporre la mia firma! Come i tempi sono cambiati...! Una volta, il figlio di un mercante non avrebbe nemmeno osato levare lo sguardo sulla figlia di un nostro pari... quand'anche... Ma adesso!... Viva la costituzione!... Viva la libertà!... Viva la democrazia!... Ah! ci vorrebbe, per farla compiuta, anche un poco di repubblica...

Enrichetta, senza badare alle querimonie di suo padre, che erano il ritornello quotidiano, si avviava per uscire dal salotto — quando il marchese, ingrossando la voce in segno di collera — Ebbene — domandò — cosa si ha da rispondere a quei signori? È ella disposta, la signora marchesina Contareno, a mettersi a tavola domani colla ditta Mauro e compagni?... Sentiamo!

— Io sono fidanzata al signor Edoardo da oltre cinque mesi — rispose la fanciulla — ecco la sola risposta che io possa darvi. Del resto fate voi!

Il marchese, appena uscita la fanciulla, si accostò allo scrittoio, e sopra un biglietto di visita segnò le seguenti parole:

«Tanto io che mia figlia Enrichetta aderiamo al vostro cortese invito, e domani, all'ora indicata, saremo da voi.»

— Ad ogni modo, non è un cattivo affare — borbottò il marchese deponendo la penna — mia figlia è una testa positiva.... essa tende alla aristocrazia dei milioni!


X.

Non diremo ciò che avvenisse nelle due famiglie De Mauro e Contareno nel seguito di quella giornata fino alle ore cinque pomeridiane del giorno appresso. Oggimai i nostri lettori conoscono abbastanza i singoli personaggi di questa istoria per indovinare dal loro carattere certi episodii di nessun conto che sarebbe superfluo riferire. — Alle ore cinque pomeridiane la carrozza del marchese Contareno entrò nel palazzo del signor De Mauro. Il ricco industriale discese nel cortile, porse il braccio al marchese per aiuta rlo a discendere dalla carrozza, mentre Edoardo, dall'altro lato, stendeva la mano ad Enrichetta colla timidità di un collegiale. — I due amanti si erano già ricambiati da lungi un saluto pieno di tenerezza, ma pure nei loro sguardi non brillava quella gioja serena, quella felicità espansiva, che ordinariamente trabocca dal volto di due giovani innamorati al momento in cui deve decidersi della loro unione indissolubile. — La fronte di Edoardo era ombrata da una ruga quasi impercettibile — gli occhi della fanciulla parevano approfondirsi sotto le palpebre folte. Quando la signora Serafina mosse incontro alla giovane per introdurla nella sala, Edoardo trasse dal petto un lungo sospiro, come se l'intervento di sua madre lo avesse liberato da un grave imbarazzo. Il pranzo non fu molto gaio. Il signor De Mauro sostenne quasi da solo l'incarico della conversazione, non risparmiando di lanciare tratto tratto degli epigrammi all'indirizzo del marchese, il quale divorava a due ganascie colla voracità plebea di un patrizio in bolletta. La mensa fu servita lautamente; la cucina del milionario, con quello sfoggio insolente di prodigalità, perorava cinicamente in favore del positivismo moderno.

Il marchese, verso la fine del pranzo, avea le guancie rifiorite di due rose color pavonazzo — i suoi occhi bigi ridevano e piangevano ad un tempo. — La signora Serafina contemplava la fanciulla con uno sguardo di materna amorevolezza.

— Orsù! disse il signor De Mauro levandosi in piedi per sturare di sua mano una bottiglia di sciampagna — beviamo il bicchiere della alleanza! facciamo un brindisi alla salute... dei nostri figli... e dei figli dei nostri figli, signor marchese!

Erano le prime parole proferite a quella tavola, che suonassero così apertamente allusive al matrimonio di Edoardo e di Enrichetta. I due giovani trasalirono. Edoardo levò il bicchiere spumante, e toccando leggermente a quello della sua fidanzata, con voce commossa si fece ad esclamare: «Io bevo innanzi tutto alla salute della patria, alla fortuna ed alla gloria delle armi italiane!»

La fanciulla si levò in piedi — le sue pupille parvero dilatarsi — la sua bellezza marmorea e severa rifulse di insolita luce — ella accostò il suo calice a quello del giovane, e coll'accento dell'entusiasmo: Bene! gli disse — viva l'Italia e i generosi che vanno a combattere per essa!

Il signor De Mauro potè a stento dissimulare la dolorosa sorpresa che veniva a colpirlo.

Per alcuni minuti regnò nella sala un silenzio solenne.

Appena servito il caffè, il signor De Mauro, sforzandosi a riprendere la disinvoltura dell'uomo d'affari, si volse a suo figlio:

— Ebbene, Edoardo?... Con buona licenza del signor marchese, non condurresti la signorina a respirare un po' d'aria in giardino? Al punto in cui stanno le cose, signor marchese... E poi non è bene che quelle teste là... prendano parte alle nostre conferenze... Direbbero che noi non sappiamo far altro che spoetizzare il sentimento colla prosa numerica delle cifre!.... Andate, figliuoli!... Edoardo!... offri il braccio alla tua bella fidanzata.... andate a svolazzare tra i fiori.... ad esalare la vostra poesia tra il profumo delle rose e dei giranii... Io spero che al vostro ritorno, fra me ed il signor marchese saranno conclusi i trattati!

Enrichetta ed Edoardo si levarono in piedi — la fanciulla appoggiò confidenzialmente il braccio a quello del giovane — la signora Serafina li accompagnò fino all'anticamera, e di là passò nel suo piccolo appartamento.

— Fatti l'una per l'altro! disse il signor De Mauro al marchese — due teste calde — basta! a noi altri, teste grigie, il provvedere alla loro felicità positiva!


XI.

I due giovani attraversarono il gran viale del giardino senza proferire parola.

Giunti all'estremo, laddove sotto un bosco di rubinie erano disposti dei sedili rusticamente foggiati, Edoardo accennò alla fanciulla di sedere. Le fine stre del salotto erano aperte, e la voce del signor De Mauro giungeva all'orecchio dei due giovani innamorati.

— Sentite, Enrichetta? — cominciò Edoardo con qualche esitazione — essi trattano del nostro matrimonio!

— In verità, rispose la fanciulla, ciò che è accaduto ieri... ciò che accade in questo momento mi sembra un sogno.

— Un sogno felice, non è vero, Enrichetta?...

— Ma non è dunque vero ciò che mio padre mi diceva?... Fra quindici giorni?...

— Fra quindici giorni noi dovremmo essere uniti per sempre... Vostro padre non oppone nessuna difficoltà al nostro matrimonio, non è vero, Enrichetta?...

— Voi sapete, Edoardo, che da quella parte non potrebbero sorgere degli ostacoli molto gravi...

— Orbene, Enrichetta, ciò che vi ha di reale, ciò che vi ha di rassicurante per noi in tutto che accadde da ieri fino a questo momento, è che la nostra felicità dipende da noi soli, che il nostro avvenire è assicurato, e quand'anche...

Edoardo esitava a proseguire.

La fanciulla, fissando nel volto del giovane uno sguardo che esprimeva un sentimento indefinibile, ripetè macchinalmente le ultime parole proferite da lui.

— Enrichetta! — proruppe l'innamorato coll'accento della risoluzione — se queste nozze dovessero ritardarsi, se questo ritardo fosse desiderato... richiesto da colui che ti ama... da colui che ti ha consacrato il suo cuore... che darebbe il suo sangue per risparmiarti una lacrima... cosa diresti, Enrichetta? rispondimi: che diresti?...

Le guancie della fanciulla si animarono di un roseo vivace che era la irradiazione di una gioia mal repressa. Pure ella ebbe forza di dominarsi. L'egoismo dell'amore domandava di assaporare a lente stille la voluttà di una rivelazione desiderata. Enrichetta, simulando lo stupore, proferì a voce secca queste sole parole:

— Io non vi comprendo, Edoardo!

— Voi non mi comprendete?... Eppure a vrei sperato... Quest'oggi... nel vostro contegno... nelle vostre parole mi pareva di leggere... Non importa... Poichè dite di non comprendere, converrà che io mi spieghi davvantaggio. Il nostro matrimonio non può effettuarsi entro quindici giorni, come mio padre avrebbe stabilito... Prima di unirmi a voi, Enrichetta, conviene che io parta da Milano, è necessario che io vada laddove in questo momento sono chiamati tutti gli italiani che sentono la voce del dovere... Questa mattina, mentre mio padre stava trattando col vostro della nostra prossima unione, io ho presentato la mia domanda per essere ammesso nelle guide dei volontari.

Edoardo non aveva finito di proferire queste parole, che la fanciulla obliando ogni riserbo, cadde ai piedi del giovane, e coprendo la sua mano di baci, esclamava coll'accento del più sublime entusiasmo:

— Io ti chieggo perdono, Edoardo, se per un momento ho potuto dubitare del tuo nobile cuore!

I due giovani stettero alcun tempo abbracciati, assaporando quell'estasi voluttuosa che inonda due anime sorelle allorquando per la prima volta si riconoscono completamente. Estasi rare nella vita, fremiti passeggieri della intemerata giovinezza, misteriosi tripudii di quella essenza divina che è nell'uomo, e a cui i sensi non prendono parte. — Una lunga carriera di piaceri ci consuma la vita, e all'età di sessant'anni ciascuno può formare un grosso volume delle sue amorose peripezie; ma in questo volume non spiccheranno che due o tre pagine bianche — e saranno le pagine che ricordano una stretta di mano e il ricambio di un bacio santificato da quei giovanili entusiasmi che riassumono i più elevati sentimenti dell'anima.

— No! Io non dubitava del tuo patriotismo — riprese la giovane sciogliendosi dall'amplesso e ricomponendosi in sulla seggiola — io temeva che l'insistenza di tuo padre, le preghiere e le lagrime della tua ottima madre, e quest'ultimo stratagemma del matrimonio avessero sorpreso la tua buona fede... Io temeva che l'esuberanza dell'amore potesse, per un momento, paralizzare in te la coscienza dei più sacri doveri...

— Il pericolo era grande, ma tutt'altri, m eno il tuo Edoardo, avrebbe potuto cedere al fascino di questa seduzione!... Tu non sai, Enrichetta... Io non ti ho mai detto le orribili angoscie del mio passato... Combattere per l'indipendenza della patria... è dovere di tutti, e la gioventù italiana ha mostrato di comprenderlo... Ma io!... Non è solamente all'Italia che devo il mio braccio — per me vi è ancora un altro dovere... quello di riabilitare la mia famiglia... Sì, Enrichetta!... Mio padre mi accusa di poca tenerezza per lui... mi chiama ingrato!... Egli non capisce che io non potrei dargli maggior prova di affetto che questa di ribellarmi alla sua volontà... Il giorno in cui mio padre potrà dire: io aveva un unico figlio, e questi è andato ad esporre la vita sul campo di battaglia — allora cesseranno i sospetti... Io tornerò dal campo colla fronte rialzata, io prenderò per mano questo vecchio quale egli sia, e la gente, vedendolo passare, non dirà più certe brutte parole... La gente dovrà dire: è il padre di uno che ha esposto la sua vita nella campagna 1866... a fianco di Garibaldi!

Con questo sfogo, Edoardo aveva rivelato alla sua fidanzata il segreto di quei dolori che davano al di lui carattere una impronta severa e qualche volta cupa all'età di ventun'anni.

In quel punto, la voce del signor De Mauro uscì più spiccata dal vano della finestra:

— Si sono dunque perduti quei ragazzi? Eppure, voi vedete, marchese, che il labirinto non è vasto!

— Siamo chiamati! disse Enrichetta.

— Prima di tornare lassù, io vorrei domandarti...

— Indovino il tuo pensiero, Edoardo. Tu non hai coraggio di dire a tuo padre...

— Non è che il coraggio mi manchi, rispose il giovane. Ma se l'opposizione partisse da te, se tu dicessi apertamente che non acconsentiresti a sposarmi se non a patto che io abbia prima adempiuto ai miei doveri di buon cittadino — allora non vi sarebbero più repliche... e mio padre sarebbe costretto a transigere...

— Vieni, Edoardo! — interruppe la Enrichetta — andiamo!... accetto con orgoglio la missione che mi hai affidata... Vedrai che io saprò parlare come si deve.

I due giovani si strinsero la mano e si baciarono — quindi, annodati delle braccia, uscirono dal boschetto, e a passo spedito si diressero verso il palazzo. — Nei loro volti si rifletteva la gioia e l'entusiasmo dei loro cuori.


XII.

Il signor De Mauro, vedendoli rientrare nel salotto, prese buon augurio da quella gioia. — E volgendosi alla figlia del marchese:

— Mi pare, le disse, che le cose si mettano bene. Eravate usciti col portamento impacciato di due collegiali, ed ora tornate a noi colla spigliatezza di due amanti. A maraviglia! Dal canto nostro non si è perduto il tempo — col signor marchese è molto facile l'intendersi... e oramai si può dire: affare finito!

Il marchese Contareno, rilevandosi della persona, e assumendo il fare grandioso dei suoi illustri bisavoli, diresse la parola ad Edoardo:

— L'onorevole signor De Mauro qui presente... vostro padre e mio eccellentissimo amico...

— Lasciamo da parte le grandi formule — interruppe il signor De Mauro — non vedete, marchese, non capite dai loro volti ch'essi sanno già tutto?... Non è vero, adorabile signorina, che il cerimoniale è divenuto superfluo?... Ad ogni modo, tanto che anch'io possa udire uno di quei sì deliziosi che, poco fa, avrete proferiti in giardino più di una volta, permettete che io vi domandi se è proprio vero che siate contenta di sposare questo scapato... questa testa balzana di mio figlio... Un cuore eccellente... vedete — ma un cervello... Basta! La signora Enrichetta penserà lei a fargli mettere giudizio.

Il signor De Mauro parlava scherzosamente alla giovane Contareno; ma questa aveva già ripresa quella calma solenne che era l'espressione più naturale del di lei volto.

— Il signor Edoardo — disse ella coll'accento più fermo — conosce i miei sentimenti a di lui riguardo, come anche le mie intenzioni. I nostri cuori son o già fidanzati da parecchi mesi: noi siamo vincolati da promesse reciproche, alle quali nè egli nè io potremmo venir meno. Ma il nostro matrimonio non può effettuarsi in questo momento... Il signor Edoardo lo sa... ed io ne vado orgogliosa... Quanto a me, non potrei stimare un uomo che si rifugiasse nelle dolcezze dell'amore al momento in cui tutti i giovani italiani vanno a sfidare la morte per l'indipendenza e la libertà del loro paese. Un tal uomo non potrebbe mai divenire lo sposo di Enrichetta Contareno.

Il signor De Mauro rimase fulminato. Egli comprendeva che in quel fiero carattere di fanciulla i propositi dovevano essere tenaci come le convinzioni. Si volse al marchese, sperando che questi lo togliesse di imbarazzo: ma il vecchio Contareno guardava sua figlia cogli occhi ebeti e lacrimosi, e a stento poteva respirare. Aveva mangiato per quattro, e la lunga conversazione tenuta poco prima col signor De Mauro gli aveva prostrate le fibre.

Impossibile descrivere le attitudini diverse di quei quattro personaggi. A sciogliere di qualche modo gli imbarazzi della situazione, sopravvenne la signora Serafina.

— Ebbene? tutto è conchiuso... non è vero? — domandò bonariamente quella ottima donna entrando nella sala.

— Sì, tutto è conchiuso — rispose il signor De Mauro dissimulando per quanto gli era possibile il suo cattivo umore — ma la signorina, a quanto pare, non ha molta fretta — a noi dunque non rimane che attendere i di lei ordini... o quelli dell'eccellentissimo signor marchese...

— Sicuro!... A domani!... Per oggi basta!... — disse il Contareno levandosi in piedi come uomo che si svegli dal letargo... L'ora è già tarda... non sarebbe tempo di andarcene, Enrichetta?

La fanciulla stese la mano al signor De Mauro che la strinse di mala voglia.

— Spero che non mi serberete rancore — in ogni modo, dopo la guerra, noi ripiglieremo le nostre buone re lazioni!

Ciò detto, la fanciulla pose il suo braccio in quello di Edoardo — e i due giovani uscirono insieme dalla sala, seguiti dal marchese che non cessava di ripetere macchinalmente: affare concluso! affare finito!


XIII.

Due giorni sono trascorsi. Una immensa folla di popolo sta adunata dinanzi alla stazione della ferrovia.

Un giovane abbigliato di rosso si ferma presso gli sportelli di una antica carrozza — i cristalli si abbassano — una mano lunga e sottile viene ad incontrare quella del giovane — il tumulto della piazza affollata copre il susurro di quell'addio misterioso e sublime.

Chi bada agli episodii laddove c'è un popolo intero che si abbraccia nei santi fremiti dell'amore e della patria? Volgete intorno lo sguardo — e dappertutto vedrete delle eroiche madri, delle spose gagliarde, che si separano senza piangere dai figli e dai mariti! — Dove fiammeggia una camicia rossa, quivi si aggruppano dei cuori di amanti e di sorelle, quivi la canizie dei padri rifulge di nobile orgoglio e le rughe dei volti materni sembrano irradiarsi di giovinezza.

Il segnale che richiama i viaggiatori al convoglio è suonato. Edoardo si stacca dalla carrozza stemmata, e slanciandosi nelle braccia di una donna che sta in un lato a rimirarlo con occhio di invidia — mia buona madre! — esclama — l'ultimo bacio è per te... perdonami ciò che mio padre ti fa soffrire per cagion mia!

— Oh, nulla!... Che la mia benedizione ti accompagni!

E poichè gli occhi di quella madre aveano lasciato scorrere una lacrima — Edoardo la asciugò con un bacio — e s'immerse nella folla per entrare nella stazione.

Dopo alcuni minuti, al fischio della locomotiva rispose dalla piazza e dai portici un urlo di acclamazioni. Le donne agitavano i fazzoletti... i fanciulli battevano le mani — i vecchi si drizzavano sulla persona coll'impeto dei loro venti anni.

Frattanto il convoglio si involava, lasciando indietro un'onda di canti.

Il torrente della folla si riversava nella città. — Tutte le parole suonavano ammirazione ed entusiasmo.

Due uomini in sulla età si incontrarono a poca distanza dal sottopassaggio.

L'un d'essi era là da alcuni minuti, quasi rannicchiato dietro uno stipite, e pareva assistere a quella scena da spettatore indifferente o sdegnoso.

— To'!... chi vedo! anche voi, signor De Mauro!... — esclamò l'altro che veniva dalla stazione. — Si è mai dato uno spettacolo più sublime di questo?... Scene da far piangere i sassi... e nessuno piangeva!... Che giovani!... che faccie!... che slancio!... Voi li avrete veduti quando montarono nei vagoni... Pareva che prendessero d'assalto una fortezza!...

— Se li ho veduti! — rispose il De Mauro a voce alta — come volete che io non li abbia veduti, mentre c'era anche lui... quel bel mobile di Edoardo!

— Come! vostro figlio?...

— Sicuramente! mio figlio... Non avevo che quello... e non potevo dare di più... io!

Alcuni, che si erano fermati ad udire, si partivano esclamando:

— Anche lui! un figlio unico!... un milionario!

E il signor De Mauro, per la prima volta in sua vita, si illuse a tal segno da credersi un grande patriota, un martire della indipendenza italiana.



PARTE TERZA

Entusiasmo.


I.

La piccola città di... non aveva dato che cinque volontarii, avanzi anche questi dell'illustre drappello di Palermo e di Milazzo. — Era apatia? era diffidenza? Fatto è che una volta partiti quei cinque valorosi soprannominati i cinque abbonati delle vittorie garibaldine, non si ebbe più sentore in città che altri intendesse seguirli. A spegnere l'ardore della gioventù erano giunte — dicevasi — due lettere: l'una da Como, l'altra da Gallarate, nelle quali veniva dipinta coi più sinistri colori la situazione dei volontari già accorsi ai depositi. I preti e i così detti cittadini di senno esageravano le dicerie, fors'anche le sopracaricavano di calunnie, a quale scopo si intende.

La popolazione di... nelle prime settimane di giugno presentava ancora il suo aspetto normale. Alla stazione della ferrovia, malgrado il quotidiano passaggio delle truppe che traevano al Mincio, il concorso dei curiosi non era di molto accresciuto.

Volete di più? — Una compagnia comica era venuta ad installarsi nell'unico teatro della città, e mentre nelle capitali più popolose d'Italia si chiudevano tutti i luoghi di pubblico divertimento per mancanza di spettatori — quella piccola compagnia coglieva applausi e danaro.

Come vedete, la città di... rappresentava un anacronismo di storia contemporanea.

Nullameno, le produzioni drammatiche del piccolo teatro non mancavano di riflettere l'attualità co' suoi colori appassionati e vivaci — e gli avvisi quotidiani, da oltre una settimana, non avevano mai cessato di promettere un dramma bellicoso, scritto appositamente da penna concittadina per la benefiziata della prima attrice. Questo nuovo dramma si annunziava col titolo: La partenza dei Volontari.

In una città più infervorata di patriottismo poteva bastare un tal titolo a chiamare in teatro un insolito concorso. Ma qui la maggiore attrattiva dello spettacolo era riposta nella circostanza dell'autore concittadino. Un istinto maligno di curiosità e di invidia si era manifestato all'annunzio del nuovo dramma. La rappresentazione era attesa con ostile impazienza.

Non vi è città così meschina, starei per dire non vi è in Italia borgata o paese, che non abbiano il loro poeta disconosciuto e tribolato, qualche volta detestato dalla intera popolazione. — Gli è già molto che nei grandi e popolosi centri, il poeta e l'uomo di lettere vengano tollerati per la compassione che ispirano. Nelle piccole città predominate dalla crassa possidenza, nei borghi ove è sindaco il droghiere, dove i consiglieri della Giunta sono anche membri della fabbriceria, il poeta e il letterato rappresentano l'abbominio.

Povero Lanfranchi! — L'autore del nuovo dramma La partenza dei Volontari si chiamava Eugenio Lanfranchi — E all'età di venticinque anni egli aveva lasciato la sua piccola città per recarsi a Milano, dove sperava co' suoi talenti e col suo sviscerato amore per le lettere di raccogliere simpatia e protezione. — Era partito con due romanzi nella valigia e circa duecento franchi nel portamonete. Tornando, dopo un mese, alla terra natale, egli possedeva ancora i due romanzi, ma i suoi duecento franchi erano rimasti a Milano. Quand'egli scese alla stazione, taluni ebbero a notare con infinita compiacenza ch'egli era alquanto dimagrato, che indossava il medesimo abito col quale era partito, e che una delle sue scarpe mostrava la lingua. — La città prima di sera fu tutta piena di tale avvenimento — e la gioia fu universale. Due mesi dopo, egli fu costretto ad accettare un posto da scrivano nel consiglio del Comune. Nel deliberargli quell'impiego, al quale andava annesso lo stipendio di lire quaranta al mese, il Sindaco fece inserire nel resoconto della seduta che ciò si faceva onde togliere dall'inopia un giovane di condizione civile, il cui padre si era reso benemerito della città dirigendo per oltre venticinque anni le apparature per la funzione del Corpus Domini.


II.

La rappresentazione del nuovo dramma era imminente. I comici, nel corso delle prove, si erano mostrati oltremodo soddisfatti dell'autore, preconizzandogli il più felice successo. Nullameno, all'avvicinarsi di quell'ora solenne e terribile nella quale il pubblico è chiamato a proferire il suo verdetto, Eugenio Lanfranchi sentì il bisogno di sottoporre il suo lavoro drammatico al giudizio di un amico. — Ma dove trovare un amico? — In città non vi era che uno solo, cui il Lanfranchi osasse dare questo nome — un altro poeta più giovine di lui e meglio favorito dalla fortuna, in quanto non avesse bisogno di esercitare la letteratura per vivere, o di subordinarsi, per necessità dell'impiego, alla dispotica albagia dei suoi concittadini.

Questo giovane poeta si chiamava Carlo De Santi. Toccava appena i venti anni, e faceva il suo corso di studi all'università di Pavia; ma da qualche tempo era tornato alla città natale per rimettersi da una grave malattia che l'aveva condotto a filo di vita.

La famiglia De Santi non aveva mai veduto di buon occhio l'intrinsichezza dei due giovani. Come abbiamo veduto, il Lanfranchi passava per un cervello matto, per un discolo. Ma forse la sua povertà più che la sua cattiva fama lo facevano reputare un soggetto pericoloso. Carlo ed Eugenio, all'epoca delle vacanze autunnali, si vedevano rare volte, di nascosto, attratti da quella omogeneità di caratteri e di studii che esercita un potere irresistibile negli anni della giovinezza.

Il Lanfranchi non aveva mai osato presentarsi alla casa dell'amico, dacchè questi era venuto da Pavia per rassodare la sua convalescenza. Il prepotente bisogno di interrogare il di lui giudizio sulla nuova produzione drammatica, prima di affrontare quello del pubblico, gli ispirò il coraggio di dirigersi a quelle soglie, malgrado il pericolo di vedersi respinto.

Entrò col cuore trepidante — salì le scale a celere passo — e ottenne di presentarsi all'amico, il quale non aveva ancora abbandonata la sua camera da letto.

Poichè i due giovani furono lasciati soli, essi presero a parlare con quell'enfasi esuberante, che fa sorridere gli scettici incalliti nella apatia, ma che è pure la espressione più naturale della giovinezza che sente e che crede.


III.

— Ti sei fatto aspettare — cominciò Carlo con accento di mite rimprovero. — Son qui da dieci giorni, e il buon Giuseppe ti avrà portato i miei saluti e ti avrà detto come io desiderassi... una tua visita...

— Non ebbi coraggio... Mi avevano detto che la tua famiglia... il medico... che so io... non permettevano ai tuoi amici di venirti a trovare.... Come stai?... Molto debole, a quanto pare...

— Sì... debole ancora... molto debole!... Ma tu ricordi la visita di Bruto a Ligario... Se tu vieni a invitarmi perchè io ti accompagni laddove in questi giorni debbono accorrere tutti gli Italiani che sentono amore di patria, fammi vedere una camicia rossa ed un fucile — A quella vista... io riacquisterò in un momento le forze perdute... sarò guarito completamente... e marceremo, perdio!... e ci batteremo anche noi come si battono i leoni!

Le guancie di Carlo si erano animate di quel fuoco febbrile che è proprio dei convalescenti allorquando vengano assaliti da una emozione troppo viva. Eugenio arrossì a sua volta, ma il rossore di lui accusava l'imbarazzo e la vergogna di chi per la prima volta sente rinfacciarsi dalla propria coscienza un fallo inavvertito.

— Ah! tu vorresti partire per il campo? farti gari baldino? — prese a dire il Lanfranchi con qualche esitazione... Ebbene: io ti ho portata la camicia rossa... ho pensato a te...

— Davvero?!

— Un momento... Non bisogna... per ora... prendere il discorso alla lettera... Prima che la guerra incominci noi avremo tempo di indossare la santa divisa del garibaldino e di recarci sul luogo dell'azione... Frattanto io ho creduto di far bene adoperandomi a suscitare negli altri quell'ardore che pur troppo nella città nostra è condiviso da pochissimi. A tale scopo ho scritto un dramma che domani dev'essere rappresentato all'anfiteatro...

— E questo dramma porta per titolo?...

La partenza dei Volontari!...

— Me ne avevano parlato, ma ero lontano dall'immaginare che tu ne fossi autore... Bravo! Ottimamente! A maraviglia!... Io comprendo il tuo pensiero!... Tu vuoi scuotere l'apatia dei nostri concittadini... vuoi eccitare la gioventù... trascinarla a seguirti... o piuttosto a seguirci... perchè io... ve'! io l'ho già bello e fissato il mio piano... Fra tre o quattro giorni, sano o malato, con o senza permesso del medico e della famiglia, io troverò ben modo di portarmi al quartiere di Garibaldi e di prendere il mio fucile!

Lanfranchi era umiliato da quell'enfasi, e seco medesimo si maravigliava di non aver concepita l'idea di arruolarsi fra le schiere dei volontarii prima che l'amico gli ricordasse, col suo vigoroso e nobile linguaggio, un tale dovere.

Ma il giovane convalescente aveva accolta colla massima buona fede la giustificazione dell'amico. Si era lasciato convincere che il pensiero di scrivere un dramma per suscitare l'entusiasmo bellicoso dei concittadini era degno di un'anima grande e fieramente patriotica.

Dopo qualche esitazione, il Lanfranchi si levò di tasca il manoscritto, e diede principio alla lettura.


IV.

Il nuovo dramma non era un capolavoro d'arte; l'intreccio non brillava di originalità, i dialoghi riboccavano di quelle iperboli comuni che si fanno applaudire egualmente in teatro e alla Camera dei deputati. Il giovane autore mirava all'effetto. I suoi personaggi ritraevano con brutale naturalezza i tre partiti politici dell'Italia contemporanea, i quali, sulla scena, soglionsi ordinariamente raffigurare in un prete reazionario, in un sindaco moderato e servilmente ligio al potere, e in un gruppo di popolani, di poeti e di artisti infervorati di principii democratici e sempre disposti ad agire. Ma il carattere più spiccato, e diciamolo pure, il più falso, era quello di una eccentrica madre, la quale, avendo un unico figlio di età giovanissima e per giunta infermiccio, era pronta ad immolarlo sui campi di battaglia, dividendo con lui i disagi ed i pericoli. Questa madre spartana era la protagonista del nuovo dramma, e l'attrice benefiziata contava a buon dritto di suscitare immenso entusiasmo presentandosi colla divisa garibaldina ad insegnare a suo figlio la manovra del fucile.

Sublimi trasporti della giovinezza! Slanci maravigliosi dei vergini cuori, ai quali è dato sorvolare a quella pesante atmosfera di positivismo che è la caratteristica dell'epoca attuale! — Se la dolorosa esperienza della realtà ci obbliga qualche volta a sorridere di questi illusi sublimi, è anche vero che noi siamo costretti molto spesso ad ammirarli e ad invidiarli! — Noi dubitiamo, essi credono — ecco la differenza. Ciò che è falso per noi, considerato nei rapporti di un ignobile realismo — per essi, che vedono il creato attraverso al prisma abbagliante della giovane fede, è un ideale che somiglia al possibile. Leggendo Plutarco, noi disperiamo che il secolo parolaio produca dei nuovi giganti e dei magnanimi fatti — essi, come il Carlo Moor del poeta alemanno, si illudono di veder rivivere l'età degli spiriti gagliardi e dell'eroismo disinteressato.

Chi ha ragione? chi ha torto? — Qual è di noi che vede più giusto? — Curviamo la testa dinanzi a questi martiri predestinati che profondono il loro sangue. A ben considerare, essi non hanno che un solo torto, quello di esser pochi. Non per questo abbiamo noi diritto di ammonirli che essi spendono il loro entusiasmo e la loro vita a profitto di una turpe ed ignobile maggioranza che, pure disconoscendoli, farà traffico dei loro sacrifizii per amplificare la propria potenza. La società è orribilmente viziata e incadaverita. Essi rappresentano l'avvenire.


V.

Alla lettura di quelle scene concitate e frementi, sul volto di Carlo si alternavano i pallori e le fiamme vivaci dell'entusiasmo.

Il dramma toccava la fine. Eravamo al punto in cui l'eroina dell'azione, strappato il figlio dalle branche di uno zio paolotto che si era attentato di impedirgli la partenza pel campo, fa sventolare una bandiera tricolore, e si volge alle madri italiane per animarle a seguire il di lei esempio.

Il Lanfranchi declamava quel brano drammatico coll'enfasi di un autore che si attende l'applauso: «Tu sei come me, Edoardo!... La voce di tua madre ha trionfato sulle arti dei rettili immondi che ti stringevano al piede... Essi non sono riusciti a contaminare la tua giovinezza... La voce di una madre ha parlato al tuo cuore più fortemente che non quella di un falso Dio! — Volevano farti credere di non essere abbastanza vigoroso per sopportare i disagi e le fatiche del campo! Ma io... tua madre... io che ti ho data la vita... saprò ben io infonderti la forza che ti abbisogna!...»

— Sublime! interruppe Carlo, balzando dalla seggiola, e percorrendo la camera a passo agitato.

— «Noi andremo insieme dove ci chiama la voce del cannone... la vera voce di Dio!... Tua madre ti starà a lato... per sorreggerti, per infonderti coraggio... e se una palla nemica colpisce il tuo petto... io raccoglierò il tuo cadavere con orgoglio... e lo porterò di città in città, di villa in villa, di contrada in contra da, e griderò alle madri italiane: vedete! era il mio unico figlio!... egli è morto per la patria... egli è morto combattendo... Vendicatelo, o madri italiane! e che tutti i vostri figli seguano il di lui esempio!»

A tali parole, il giovane convalescente che non avea cessato di passeggiare per la camera a grandi passi — si avvicinò all'amico, gli strinse la mano con trasporto, e gli disse:

«Fissami un luogo... dove possiamo trovarci assieme... domani a sera... dopo la rappresentazione.»

— Che? tu vorresti uscire di casa?... Nello stato in cui ti trovi?

— Non badare, Eugenio... Il tuo dramma mi ha ridonato la salute e il vigore... Io sono guarito, capisci? io sono guarito perfettamente — e dopodomani, all'alba, colla prima corsa intendo partire... Voglio ben credere che tu non avrai difficoltà ad accompagnarmi!...

Il Lanfranchi non poteva esitare. Egli era rapito di orgoglio in vedere la concitazione dell'amico; gli pareva che quell'entusiasmo fosse un effetto del suo dramma, fosse opera sua.

I due giovani si concertarono sul da farsi. A Carlo erano necessarie delle precauzioni per deludere la sorveglianza dei parenti. Fu convenuto, che dopo la rappresentazione, egli si sarebbe recato alla casa di Eugenio, e quivi sarebbero montati insieme in una vettura per trasferirsi alla più prossima stazione di ferrovia ad attendervi il convoglio del mattino. Questi concerti furono presi a bassa voce, senza spreco di parole. Infiammati dal medesimo ardore, quei due giovani cuori si indovinavano, si comprendevano a maraviglia.

— Un'ultima parola, disse Carlo all'amico nel momento in cui stavano per separarsi — ai mezzi penso io... la mia borsa è a tua disposizione. Solamente vorrei pregarti... ma temo che ciò non sia possibile... Mi dicono che ai depositi vi sia mancanza di camicie rosse... ed io muoio d'impazienza di indossare quella nobile divisa...

— Ci avevo già pensato! rispose Eugenio trionfalmente. — Io credo che domani a sera noi saremo tutti e due provveduti della nostra camicia. Per la rappresentazione del mio dramma ne furono ordinate sei... Gli è l'ultima recita della compagnia... e i comici... tu mi intendi... non avranno difficoltà a cederci per poco danaro questa parte del loro equipaggio!

Carlo, per tutta risposta si gettò nelle braccia dell'amico, e indi a poco i due giovani si separarono coll'animo tripudiante di sublimi emozioni.

Quel giorno il Lanfranchi doveva pranzare cogli artisti della compagnia drammatica.

Verso le ore quattro, egli si recò dunque ad un modesto alberghetto a poca distanza dal teatro, dove era atteso dalla scapigliata comitiva.

Quando Eugenio pose il piede nella sala da pranzo, uno degli attori stava leggendo ad alta voce in un foglio teatrale, giunto quella mattina da Milano la seguente notizia:

«Le compagnie drammatiche hanno fornito all'armata dei volontari italiani un numeroso contingente. Fra i molti che disertarono dall'arte per militare sotto le insegne gloriose si citano gli attori: Francesco Benincasa ed Enrico Brissoni, Pagani, Belli-Blanes, Schmit, Lavaggi, De-Martini, Bozzo, Pesaco, Mazzoni, Bajesi e Bisi. A questi voglionsi aggiungere Tito Taddei e Napoleone Straccia, G. Mozzidolfo, Carlo Zannini, Luigi Mazzoli ed Antonio Bellotti. Anche dal Circolo Ciniselli di Milano è disertato il fratello di Achille Majeroni. Quest'ultimo ha già dato un figlio al contingente dell'esercito. I grandi esempi di Gustavo Modena non andarono perduti. Questa eletta generazione di artisti che crebbe alla scuola dell'attore insuperabile, doveva necessariamente ispirarsi alle tradizioni patriotiche lasciate da lui.»

— Viva Gustavo Modena!

— Viva gli artisti italiani!

— Viva la guerra!

— Viva l'Italia!...

Tali furono i gridi che proruppero dalla comitiva, appena terminata la lettura di quel breve articolo.

— Eh! sicuro... il giornale ha ragione! — disse la madre nobile con sussiego — tutto quel poco di buono che ci resta nell'arte... e nella politica... è tutto opera di lui... Povero Gustavo!... E dire che l'Italia non ha pensato ancora ad erigergli un monumento!... Ma gli era troppo grande quell'uomo... e certa gente che so io... ha perfino paura della sua ombra!

— Ma pure — sorse a dire il caratterista — anni sono si era aperta una soscrizione all'ufficio di non so qual giornale di Milano... ed io so di aver versato cinque lire...

— Cinque lire...! c'era ben altro che cinque lire nella cassa...! — entrò a dire un altro comico — la sommetta era abbastanza tonda... ma poi... chi ne ha saputo qualche cosa? Dove è andato a finire quel denaro? — Indovinalo grillo!... Si sono fatti dei monumenti per certi zucconi... Basta! Lasciamo là queste storie! Povera Italia! Povera arte! Ma lui, non era cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro, il povero Modena!

— Ci vuol altro che innalzare dei monumenti! — esclamò il secondo brillante della compagnia — bisogna imitare gli esempi che i grandi ci hanno trasmessi!... Quel giornale, ove sono registrati i nomi dei nostri colleghi d'arte già partiti per il campo, quel giornale ci insegna la via che noi tutti dovremmo seguire!

A questo punto due giovani attori che sedevano vicini in un angolo della tavola, si scambiarono una occhiata di intelligenza.

— Basta! farà ciascuno ciò che gli piace meglio! disse il capocomico. — Domani sera finiscono le recite... e per ora io non ho stipulato verun contratto, nè saprei dove recarmi a dare delle rappresentazioni. Frattanto parliamo d'altro... Se non mi inganno, sarebbe ora che ci servissero da pranzo... Ci siamo tutti?...

— Non manca che il primo amoroso...

— È strano!... Cherubini non si fa mai aspettare all'ora del pranzo — disse il capocomico... Ma eccolo! Mettiti al tuo posto, Cherubini! La compagnia è completa... Signor oste, voi potete servire la minestra!

Il Cherubini, appena entrato nella sala, erasi avvicinato al poeta per domandargli non so quale avviso sul modo di abbigliarsi, nella nuova produzione. Finito quel breve colloquio, egli andò a seder e presso la prima donna, e mentre il direttore della compagnia dispensava la minestra:

— Signori e signore — prese a dire — scommetto che questa volta io sono il primo a darvi la grande notizia!

— Una notizia! sentiamo! — esclamarono tutti ad una voce.

— E quale!... Si vuole nientemeno... Ah! il signor poeta dovrà essere ben soddisfatto di quanto io sono per dire... Si vuole nientemeno che Garibaldi abbia lasciato Caprera...

— La bella novità!... Il Pungolo l'ha già data non meno di dieci volte... Io non crederò che Garibaldi sia realmente partito da Caprera se non quando l'avrò veduto coi miei proprii occhi!

— Ebbene: se altro non vi abbisogna per rimanere convinti, non avrete che a recarvi domani alle due pomeridiane presso la stazione della ferrovia, e di là vedrete passare il generale che si reca col suo stato maggiore a visitare i depositi di Como e di Varese.

— Egli!...

— Garibaldi!...

— Domani!

— Egli... Garibaldi... domani... Alle due pomeridiane e cinque minuti sarà visibile alla stazione, dove probabilmente si arresterà un quarto d'ora.

Tutti i volti si animarono come se una favilla elettrica avesse percorso la comitiva. Quelle mascelle da comici atrocemente fameliche sostarono improvvisamente in segno di stupore e di venerazione. Le guancie degli attori più giovani impallidirono. Il brillante mormorò delle parole incomprensibili — i due, che poco dianzi si erano scambiati delle occhiate di intelligenza, questa volta si parlarono all'orecchio e parvero accordarsi in una mutua promessa.

— A costo di passare attraverso le inferriate, questa volta nessuno mi torrà di vederlo — esclamò la madre nobile che era una grassona di sessant'anni.

— Darei l'intiero prodotto della mia benefiziata di domani pur di accostarmi al suo vagone e baciargli la mano! — soggiunse la prima donna.

Ciascuno esprimeva il proprio entusiasmo con quel frasario iperbolico che è proprio degli artisti da teatro. Durante il pranzo uno solo fu il tema della conversazione. Il nuovo dramma fu obliato completamente — il poeta, gli attori, il padrone dell'albergo, i camerieri, i guatteri, il mozzo di stalla non ripetevano che un nome. Nelle sale, nella cucina, nel cortile, tutti i cuori e tutti i labbri inneggiavano ad un uomo.


VI.

Vi è qualche cosa di magnetico nel nome di Garibaldi, come nella sua figura e nel suono della sua voce. La sua biografia si smarrisce nell'ideale come quella di tutti i profeti, di tutti i martiri della umanità. Delle sue gesta di Montevideo il popolo ignora i particolari, ma appunto da questo mistero che le involge quelle gesta assumono un carattere sovrumano. È accreditata la voce che Garibaldi in quelle remote regioni venisse orribilmente torturato dai nemici della libertà. Nelle tradizioni misteriose del popolo, Garibaldi apparisce vincolato all'albero di una nave come il Cristo alla colonna. Quando l'uomo delle Americhe apparve per la prima volta a Milano nel 1848, colla sua chioma raffaellesca, col suo sguardo fiammeggiante e soave, colla sua barba rossigna e flessibile, col prestigio di una virilità fiorente, colla sua tunica rossa e il fazzoletto a tracolla, egli parve il Nazareno risorto, il Cristo delle battaglie. L'apparizione fu breve, ma i tratti di quell'uomo si stamparono in tutti i cuori. Dopo i disastri d'Italia, Garibaldi dovette eclissarsi — pure le sue nobili sembianze rimasero scolpite nella mente del popolo come un simbolo di riscossa e di libero avvenire.

Che avvenne di Garibaldi dopo la sua ritirata da Roma? Dove si è recato? Quali furono le sue gesta?

Per circa dieci anni, l'eroe leggendario fu ancora travolto dal mistero. Un episodio lugubre, la morte di Anita, fu ripetuto sommessamente nei crocchi del popolo, il quale, tutto in massa, condivise i dolori del suo idolo. Milioni di cuori portarono il lut to per una donna, milioni di cuori giurarono vendicare una morte. — Di Garibaldi si disse: egli va errando sull'oceano, egli spazia fra le libere onde, aspettando il gran giorno della rivincita. Per dieci anni alla fantasia degli italiani umiliati ed oppressi l'intrepido difensore di Roma si dipinse errabondo e pensoso sovra una piccola prora agitata dai flutti. — La prima bandiera tricolore che ebbe a sventolare sulle alture lombarde nel 1859 fu piantata da Garibaldi. Pei Lombardi egli fu il Cristo risorto che viene a portare la buona novella! Le vittorie di San Fermo e di Palermo fecero stupire l'Europa — la disfatta di Aspromonte rattristò tutti i cuori liberali — l'eroe ferito al tallone ricordò l'Achille fatato, e il sangue che grondò dalla piaga rese venerabile l'ignorato promontorio siccome un nuovo Calvario. Tutti i partiti politici guardano riverenti a quella sublime figura. I despoti lo rispettano ed ammirano — i potenti gli invidiano la popolarità — i deboli e gli oppressi sentono che, lui vivo, la loro causa non è perduta. Dovremo noi aggiungere che le donne adorano in lui l'ideale della energia e della dolcezza, che le madri gli affidano la vita dei loro più cari con uno slancio di fiducia che tocca la passione? — Divinizzare una creatura umana è peccato di fanatismo, un peccato che molto spesso viene a scontarsi con amare delusioni. Ma quando il fanatismo si estende all'universo, quando un uomo diviene il simbolo di una idea, e come tale può rendersi adorato da tutti i suoi contemporanei, convien credere che questo uomo riunisca in sè medesimo tali doti da apparire colossale e quasi sovraumano. Se Garibaldi non è un colosso, è d'uopo confessare che a di lui confronto la società attuale è pigmea.


VII.

La notizia era vera. Garibaldi, partito il giorno innanzi da Caprera, si recava nelle provincie lombarde ad ispezionare i suoi volontari e ad assumerne il comando.

All'indomani, verso le ore due, una folla considerevole traeva alla stazione della ferrovia. Quella popola zione scettica e letargica si era improvvisamente scossa. Nelle fisonomie brillava la luce. I fanciulli e le donne — questa eletta porzione della società che è la più ingenua e la più impressionabile — rivelavano nell'incesso, nel movimento concitato della persona, un immenso tripudio. Il popolo scamiciato, il popolo vestito di velluto si arrampicava sulle muraglie, invadeva i capitelli delle colonne. C'erano dei nani che parevano giganti, dei giganti che parevano pigmei. Quella moltitudine che si era precipitata nella sala di aspetto, che si era distesa per oltre mezzo miglio lungo il margine della ferrovia, all'approssimarsi dell'ora desiderata divenne immobile e muta. Quegli ultimi minuti di aspettazione parvero secoli.

Non mai il fischio di una locomotiva parlò più eloquente alla folla. Tutti i volti impallidirono. I fanciulli giunsero le mani — qualcuno cadde in ginocchio e fece il segno della croce.

Al silenzio, all'immobilità successe un uragano di grida, una agitazione indescrivibile. Il convoglio aveva rallentata la corsa, e tutti gli sguardi si erano pasciuti di una sublime visione. Garibaldi avea reso il saluto alla folla e ciascuno si era vivificato.

Prima ancora che il convoglio si arrestasse, i più enfatici erano saliti sui gradini e sui tetti delle carrozze. Il vagone occupato da Garibaldi e da' suoi intimi fu preso d'assalto con impeto formidabile.

— Silenzio! gridavano mille voci; lasciatelo parlar lui!... Sentiamo cosa dice lui... Ma altre migliaia di voci non cessavano di urlare a tutta possa: «viva Garibaldi! viva l'Italia! viva la guerra!»

A un tratto la fisonomia di Garibaldi da ilare e benigna divenne radiante. I suoi occhi parevano salutare al di là della folla qualche persona amica e desiderata.

In un lampo tutte le teste si volsero.

— Fate largo! fate largo! tuonò il generale levandosi in piedi — ecco qualcuno che non perde il suo tempo in vane dimostrazioni... No: non è tempo di parole codesto!... l'Italia domanda soldati e carabine!

Tre giovani in camicia rossa si apersero il varco attraverso a quella immensa barricata di popolo, e animati dal sorriso e dalla voce del generale che loro stendeva le braccia come a fratelli, si lanciarono nella sua carrozza.

Quasi al medesimo punto la campanella diede il segnale della partenza e il convoglio fra un uragano di viva uscì trionfalmente dalla stazione ed indi a poco disparve.

Quei tre giovani, apparsi inaspettatamente a completare la solennità e l'entusiasmo di un istante, divennero il soggetto di tutti i discorsi.

Chi erano? Nessuno li aveva riconosciuti. La camicia rossa aveva abbagliato gli sguardi. I meglio informati sostenevano che erano tre faccie forestiere; altri invece, affidandosi alle ipotesi, profferivano dei nomi e inventavano delle favole assurde; ma l'episodio dei tre garibaldini non cessava per questo di rappresentare un enigma.


VIII.

Com'era da prevedersi, quella straordinaria effervescenza di popolo tornò propizia alla attrice che in quella sera dava in teatro la sua serata di benefizio. Il nuovo dramma La partenza dei volontarii, ritraeva dagli avvenimenti del giorno un'interesse di attualità quale l'autore ed i comici erano lungi dall'aspettarsi.

Allo schiudersi delle porte il teatro fu invaso dalla folla. La platea, le gallerie, il loggione traboccarono di spettatori. L'intera città si era travasata in quell'angusto recinto.

Eugenio Lanfranchi, l'autore della commedia, passeggiava fra le quinte collo sgomento nell'anima. S'egli avesse preveduto quel formidabile concorso di spettatori e di giudici, non avrebbe osato sfidarlo.

Gli pareva che in paragone degli avvenimenti reali il suo dramma fosse una frivola e sbiadita parodia. Le forti commozioni da lui provate al cospetto di Garibaldi, alla vista dei tre sconosciuti che si erano slanciati nella carrozza dell'eroe per seguirlo sui campi di battaglia, gli rinfacciavano la pochezza delle sue espansioni drammatiche. Due giorni innanzi egli temeva di aver esagerato le tinte; ed ora vedeva impallidire i colori e smarrirsi i contorni de' suoi personaggi. — Quale orribile fiasco! pensava egli misurando la scena a passo concitato — darei due anni del mio stipendio, perchè la rappresentazione non avesse luogo!

Frattanto gli attori attraversavano il palco scenico per recarsi ai loro camerini. Al di là del sipario la platea muggiva sordamente siccome un oceano in tempesta.

Lo spettacolo doveva incominciare alle otto, e nondimeno alle ore sette e mezzo il pubblico imperversava di schiamazzi. Ciò accade quasi sempre nei teatri eccessivamente affollati. La insolita agitazione degli animi questa volta irritava le impazienze, produceva un parossismo.

Si accendono i lumi — i professori di orchestra seggono ai loro posti innanzi tempo, e tentano, accordando gli istrumenti, di ammansare la belva-pubblico. — L'ispettore della questura va sul palco scenico per ottenere si anticipi la rappresentazione. Il buttafuori fa osservare che mancano dieci minuti all'ora convenuta — nondimeno egli dà il segnale ai suonatori, e frattanto percorre i camerini per avvertire gli artisti che si tengano pronti.

Ai primi suoni dell'orchestra, — parecchie voci gridano: silenzio! — la platea si rimette in calma, non pochi sembrano disposti a prestare attenzione alla musica.... — La sinfonia è troppo lunga... Basta! Avanti! Fuori! urlano ad un tratto diverse voci. — L'uffiziale di questura abbandona per la seconda volta la sua sedia e ritorna sul palco scenico per sollecitare gli attori.

L'orchestra, o bene o male, ha finito il suo pezzo, e i professori deponendo gli istrumenti, lanciano sotto voce mille imprecazioni sul rispettabile pubblico. Questi, che al cessare della musica non vede alzarsi il sipario, riprende con maggior veemenza le proteste. I piedi, le mani, i bastoni, gli ombrelli, tutto serve a far chiasso. Gli uomini d'ordine si provano a reprimere lo schiamazzo con dei sibili impotenti. Ma ogni pretesto di ritardo compatibile, viene a cessare.... L'orologio ha segnato le otto ore... la sfera non si arresta... Uno... due... tre minuti... l'edifizio sta per crollare... Il sipario si agita... Che vorrà dire?... Qualche accidente impreveduto? Qualche malattia?... La curiosità, l'impazienza toccano il colmo... La benemerita arma dei carabinieri si prepara a sedare un tumulto...

Ecco finalmente qualcuno che potrà appagare la curiosità pubblica se non placare l'agitazione. — Un uomo di circa sessant'anni si è presentato al proscenio come una vittima che viene spontanea ad immolarsi. È il direttore della compagnia. I suoi capelli sono scomposti come la sua cravatta, gli occhi stralunati, le guancie coperte di pallore. Egli serra nella mano una lettera... si inchina a destra e a sinistra e accenna di voler parlare. «Abbasso!... dentro!... silenzio!» Prima che cessi il baccanale trascorrono parecchi minuti.

Ma alla fine il partito dell'ordine riesce a dominare la situazione. L'intrepido capocomico ottiene di far intendere la propria voce e comincia a parlare in tal guisa:

«Inclito pubblico... rispettabile guarnigione... cioè... mi inganno... io voleva dire il contrario... ma presso a poco è la medesima cosa... È avvenuto uno di quei fatti... uno di quei casi che fanno epoca nella storia del teatro e della civilizzazione europea... Nella mia lunga, e starei per dire, eterna carriera di capocomico non ricordo un avvenimento più deplorabile, e al tempo istesso più glorioso per l'arte... Io mi appello, o incliti abitatori di questa illustre... e commerciale città, mi appello al vostro specchiato buon senso come al vostro inalterabile patriotismo. Voi sapete che nel corso di queste brevi ma fortunate rappresentazioni per parte nostra, non vennero risparmiate spese e fatiche... onde appagare le legittime esigenze di un pubblico intelligente e benevolo. Noi toccavamo felicemente la riva... noi sbarcavamo gloriosamente in quel porto, donde un capocomico, simile al naufrago dell'immortale Alighieri,

   Si volge all'acqua perigliosa e guata... 

«Per chiudere le nostre rappresentazioni luminosamente, avevamo allestito un grandioso dramma di circostanza, scritto, come più volte fu ripetuto nei pubblici avvisi, da un attore troppo modesto per rivelare il proprio nome, ma troppo famoso in questa ed in altre città d'Italia per rimanere ignorato. — Voi siete accorsi al triplice appello dell'autore concittadino, dell'umile attrice benefiziata, e diremo anche del vostro illuminato patriotismo. Voi avete con urbane ma abbastanza sensibili dimostrazioni palesata la vostra impazienza. — Ed ora... che direte voi... nell'udire ciò che purtroppo io sono costretto ad annunziarvi? Quale sarà la vostra sorpresa... e fors'anche il vostro giusto risentimento allorquando mi udirete annunziare che la rappresentazione non può aver luogo, per questa semplice e durissima circostanza che i tre principali attori giovani della compagnia erano quegli stessi che oggi, vestiti della gloriosa camicia garibaldina, si sono slanciati nella carrozza del leone di Caprera per combattere con lui le supreme battaglie della indipendenza italiana...?...»

Il pubblico, che ascoltando diffidente ed iroso la lunga tirata del capocomico, più volte si era permesso di interromperla con grida poco benevoli, rimase profondamente colpito dalla inaspettata conclusione. Un silenzio solenne successe improvvisamente alla sorda agitazione. Le parole del capocomico non solo scioglievano l'enigma della giornata, ma proponevano un nobile esempio. I generosi istinti della moltitudine furono scossi da quell'annunzio. Tutti obliarono lo scopo pel quale erano venuti in teatro; tutte le aspirazioni si portarono sovra un altro campo.

I tre attori che avevano seguito Garibaldi erano un avvenimento reale, un avvenimento che sorpassava l'interesse di una rappresentazione drammatica, che trascinava le menti ed i cuori in un realismo più elevato e più poetico di qualsiasi finzione ideale.

Il capocomico indovinò immediatamente il pensiero del pubblico — e profittando di quel silenzio solenne, riprese a parlare con maggiore naturalezza di linguaggio.

«Per mostrarvi che non vi fu da parte nostra verun inganno o soperchieria, io vi leggerò, o signori, la lettera che ci venne recata pochi minuti sono — la lettera di quei disgraziati... e diciamolo pure... generosi figli dell'arte!»

Il capocomico spiegò il foglio e proseguì leggendo:

 «Cari colleghi:

«Al momento in cui riceverete questo foglio, noi saremo a Como, sdraiati probabilmente sulla paglia della caserma. La persona a cui affidiamo la presente è incaricata di consegnarla alle ore otto precise, al punto in cui sarà per aver principio la rappresentazione. Abbiamo promesso La partenza dei volontari, e nessuno vorrà accusarci di aver mancato di parola. — Noi siamo partiti! — L'autore del nuovo dramma si era proposto di spronare i suoi concittadini ad accorrere sotto le bandiere di Garibaldi — orbene: noi crediamo che il nostro esempio gioverà meglio allo scopo. Noi abbiamo profittato delle camicie rosse che dovevano servire alla rappresentazione. Badate che c'è penuria di camicie rosse: quelle che ancora vi rimangono io vi consiglio di donarle ai giovani di buona volontà. Noi vi permettiamo di leggere in pubblico la nostra lettera. Dessa servirà a discolparvi. Noi conosciamo i cittadini di... Vedrete che gli spettatori, in luogo di esigere la restituzione del biglietto, proclameranno ad una voce di destinare l'introito della serata a benefizio della Commissione per le camicie rosse. Salute a voi, diletti colleghi, salute ai patriottici abitanti di.... Viva l'Italia! Viva Garibaldi! Viva la camicia rossa!

                                   «Vostri affezionatissimi fratelli
                                   «SIMONELLI — VISCARDINI — RIZZI.»

All'ultime parole della lettera rispose un uragano di grida che fece impallidire il capocomico. — Gli spettatori della platea salirono sulle panche agitando i cappelli e i bastoni — tutti i fazzoletti sventolarono dai palchi e dalle gallerie — i professori dell'orchestra per impulso istintivo ripresero i loro stromenti, e si diedero a suonare con lena da invasati l'inno di Garibaldi.

Vi sono delle commozioni popolari che nessuna penna può descrivere — e noi, per parte nostra, rinunziamo ad esprimere quell'entusiasmo collettivo, del quale ogni singolo episodio fornirebbe un poema.

Il capocomico non trovava la via per andarsene dal proscenio. Egli si inchinava, piangeva, rideva, e da ultimo era rimasto impietrito colle mani in saccoccia.


IX.

— Presto! una camicia rossa! — gridava un giovane pallido e scarno aggirandosi fra le quinte.

— Carlo!... tu qui!... esclamò Eugenio Lanfranchi, muovendo incontro all'amico.

— Non si perda un istante... Io ho contato sulla tua parola, e vengo a reclamare la mia camicia rossa prima che il palco scenico sia invaso.

La prima donna che era presente a quel breve dialogo, corse nel camerino e ne uscì poco dopo con due camicie rosse, che offerse ai due giovani.

— Andate! — disse l'attrice ad Eugenio Lanfranchi — è forse il primo caso in cui un autore drammatico debba supplire la prima donna... Io vi presto di cuore il mio vestiario — voi me lo renderete dopo la recita.

— Non oso promettervi di riportarvelo intatto, rispose Eugenio sorridendo.

E i due giovani si presero ciascuno una camicia rossa, e stretta la mano dell'attrice, uscirono dal teatro per la scala riservata agli artisti.


X.

Qual mutamento di scena dopo quella giornata!

La città di... in proporzione de' suoi abitanti è forse quella che ha fornito a Garibaldi il maggiore contingente di volontari.

Un giorno, un'ora di entusiasmo basta talvolta a trasformare un'intera popolazione, a convertire un popolo scettico e sonnolento in una falange di er oi!



EPILOGO


I.

Le vallate del Tirolo erano rigide e buie in quella notte. Delle nuvole opache pesavano sulle creste dei monti, immenso e cupo velario fra il cielo e la terra, fra i tripudii del firmamento e gli atroci conflitti degli uomini.

È una orribile cosa la guerra — ma pure, ove si consideri che la lotta è il principio che governa tutti gli atomi della creazione, bisogna credere che anche le battaglie e le carnificine della specie umana rappresentino una necessità dell'ordine universale. Chiniamo il capo alle leggi immutabili di chi ha creato questo immenso mistero che ci avvolge e ci trascina. È scritto nella Bibbia che Iddio si pentì una volta di aver creato l'uomo. Per quanto ripugni ammettere il pentimento in un Essere non soggetto a fallire, pure, al cospetto di un campo di battaglia, in faccia a questo sanguinoso risultato delle passioni e dei pregiudizii umani, non sembra del tutto inverosimile che Iddio debba inorridire di noi se non pentirsi di averci creati. Tutto ciò sia detto senza la menoma presunzione di indagare i segreti o di accusare gli intendimenti della Provvidenza.

Nulla uguaglia l'orrore di un campo, dove le belve umane si sono urtate a migliaia coi loro istromenti di eccidio. Lo splendore delle immagini e l'armoniosa cadenza del verso rendono accette le sublimi epopee di Omero, di Virgilio e del Tasso. Lo spirito umano sembra elevarsi nel percorrere le file dei combattenti colla scorta di un enfatico ed ispirato poeta. Quelle falangi, che si gettano l'una contro l'altra per sterminar si, ci riempiono di ammirazione. Nel poema, nel libro, noi non vediamo che dei giganti e degli eroi. — Portatevi sul campo, nella notte che succede alla battaglia di San Martino o di Custoza — e urtando nei cadaveri, respirando il singulto dei morenti, palpando le viscere de' fratelli nuotanti nel sangue, la vostra esaltazione verrà meno. I vostri nervi si incresperanno, i capelli vi si drizzeranno sulla fronte. Inorridirete di appartenere alla razza umana; maledirete il giorno in cui, poeti, dettaste delle energiche rime per spingere alla morte tanta giovinezza di fratelli, il giorno in cui il vostro inno clamoroso e vivace fece accorrere tante nobili vite verso la tomba.

Patria — indipendenza — libertà! Sacri nomi e sacri doveri. Nomi che domandano delle vittime, doveri che impongono sacrifizii di sangue. Non è dato a noi di eliminare questa terribile necessità della lotta brutale, nè speriamo che in un avvenire prossimo o lontano i principii della ragione e del diritto abbiano a predominare nel mondo senza violenza e senza massacri. L'umanità segue le sue fasi di trasformazione, ma gli istinti dell'uomo non mutano. Pure, mentre riconosciamo necessario e provvidenziale questo istinto che ci obbliga alla vicendevole distruzione, permetteteci almeno di deplorarlo e di esecrarlo al cospetto di mille cadaveri squarciati che nuotano nel sangue.


II.

Quella notte — la notte del 19 luglio — un lugubre drappello scendeva per la vallata. Erano tedeschi usciti dal forte di Ampola. La fortezza aveva ceduto alla prepotenza delle nostre artiglierie, e mentre i garibaldini vincitori bivaccavano sul baluardo espugnato, i prigionieri e i feriti, scortati da poche Guide, erano condotti al villaggio di Storo. La valle era tetra. — Quei soldati, scendendo pel sentiero tortuoso, parevano una processione di spettri. La voce dei garibaldini, che cantavano sulle ripide alture per ingannare l'appetito, giungeva sinistramente fioca all'orecchio di quei poveri prigionieri stanchi ed attoniti. La monotona cadenza dei passi e qualche favilla di zigaro accennava che quei lugubri viaggiatori erano individui della specie umana. La retroguardia si formava di cinque carrette, sulle quali, affratellati dalla sorte comune, parevano abbracciarsi i feriti dell'uno e dell'altro campo.

— Come va, capitano? chiese una delle Guide, accostandosi col suo cavallo ad una delle carrette di ambulanza.

Un lamentevole singulto fu l'unica risposta.

— A momenti giungeremo a Storo, soggiunse la Guida.

E il ferito, riprendendo coraggio da quella promessa — Vi prego, disse, di ricoverarmi nella prima casa che troverete, foss'anche un tugurio... una stalla... Io sento che poche ore mi restano da vivere...

— Coraggio, capitano!... la vostra volontà sarà fatta... Vedo dei lumi a poca distanza... Io corro a prepararvi l'alloggio.

Ciò detto la Guida spronò il suo cavallo e in pochi minuti raggiunse il villaggio.


III.

Al fermarsi della cavalcatura, sulla porta di una rustica casuccia apparve un uomo di atletiche forme e vestito d'una singolare divisa. Portava un cappello di grosso panno nero, quale usano i contadini dell'alta Lombardia; fra i suoi calzoni allacciati sotto il ginocchio da due rami di salice e le sue ghette da militare si espandevano due polpe adipose coperte da una maglia nera. Un soprabito lungo, sbottonato, che forse in altri tempi era una veste talare, lasciava scoperta sul davanti una camicia di color scarlatto trapunta di stelle d'oro. — Don Remondo, il papa di Val d'Intelvi, venuto al campo per combattere e per porgere ai morenti i conforti della religione, si era fornito a proprie spese un abbigliamento che simboleggiava di qualche modo il suo duplice ministero. Egli s'era fatto una camicia garibaldina coi re sidui di una pianeta rossa che gli era stata donata da una zia in occasione della sua prima messa.

— Buona sera, capellano! — disse la Guida riconoscendo don Remondo al riverbero di una lanterna che quegli teneva in mano. — C'è una stanza in questa casa... un letto... un pagliericcio su cui adagiare un ferito?

— Questa casa è un piccolo ospedale, rispose il prete — vi sono già ricoverati cinque dei nostri, dei quali uno è morto e due in grave pericolo... Pure c'è ancora posto per uno... Il letto non è molto pulito... ma in questi momenti non si bada...

— Sta bene... A momenti giungeranno i carri delle ambulanze... Vi è un capitano tedesco che soffre orribilmente e domanda di riposarsi il più presto possibile. C'è qualche medico qui dentro?

— Il chirurgo se n'è andato poco fa... Il paese è pieno di feriti... Quei maledetti artiglieri di Ampola hanno tirato sui nostri tutti i fulmini e le saette dei loro arsenali... Non importa... Lei sa bene, signor sergente, che abbiamo fatto un po' di pratica anche noi... In caso di urgenza scommetto che ci riuscirei a tagliare una gamba come il più abile chirurgo dell'armata.

Mentre il cappellano parlava di tal guisa, la Guida era scesa dal cavallo. Il corteo de' prigionieri e dei feriti cominciava a sfilare. La lanterna del cappellano mandava un sinistro riverbero sulle faccie abbronzite dei cacciatori tirolesi e degli artiglieri che proseguivano il loro triste viaggio.

Da ultimo, giunsero i carri delle ambulanze. La Guida accennò al cappellano di accostarsi col lume, e fatto arrestare il veicolo ove il capitano tedesco giaceva ferito quasi privo di sensi, coll'aiuto di un infermiere lo trasportò nella casuccia.

Entrati nella stanza terrena, il cappellano indicò l'unico letticciuolo che ivi era disponibile. Vi adagiarono il moribondo, e tutti insieme, il cappellano, la Guida e l'infermiere, si diedero con pietosa sollecitudine a medicargli le ferite.

Quella stanza umida e tetra pareva l'albergo dell a morte.

Vi erano quattro letti, o piuttosto quattro pagliericci malamente dissimulati da certi drappi senza colore che non erano lenzuoli, non erano coperte, e somigliavano a grossi sacchi di tela.

Su ciascuno di quei letti era distesa una forma umana.

Un lumicino ad olio affisso alla parete e la lanterna del cappellano erano la sola luce di quelle tenebre.

All'entrare dei nuovi ospiti, uno dei feriti, levando la testa dal cappotto che gli serviva da guanciale, domandò con voce fioca: «ebbene? com'è finita la festa?»

— Ampola ha ceduto — rispose la Guida senza volgere il capo.

— E il caporale De Santi?...

— Vivo!

— Meno male!... Domani gli darò mie notizie.

Un altro, che pareva più estenuato, senza muoversi dalla sua posizione, fece questa domanda: è dei nostri il ferito?

— No! gli è un capitano tedesco!...

— Un tedesco! — esclamò il ferito — badate che l'oste non sappia nulla... Avete capito? — fate attenzione a Gregorio!...

E la voce si tacque.

Il cappellano e la Guida, intenti a fasciare le ferite del capitano, non compresero quelle parole.


IV.

— Convien scendere a Storo in cerca di un chirurgo, disse il giovine sergente delle Guide. Sarà bene che vada io stesso... Il ferito è in buone mani... è inutile che io vi raccomandi di trattarlo come fosse uno dei nostri.

— Tutti gli uomini sono fratelli — rispose il prete — e non potè astenersi dal soggiungere: per scannarsi l'un l'altro, salvo poi a prestarsi vicendevole aiuto quando si sono scannati!

Il sergente delle Guide uscì dalla stanza.

Il tedesco pareva assopito. — Don Remondo era rimasto a piedi del letto e recitava, da buon cristiano, le sue preci della sera, colla testa curvata dal sonno. L'infermiere, dietro ordine del cappellano, era uscito anch'egli per andar in cerca di ghiaccio.

Un grido lamentevole, partito dalla stanza superiore, scosse il cappellano dalla sua ascetica sonnolenza. — In quella stanza del secondo piano c'erano altri due letti; altri due garibaldini feriti...

Don Remondo non poteva esitare. — Tolse da terra la lucerna, e battendo sulla spalla di un vecchio che se ne stava rattrappito ed immobile presso il letticciuolo vicino: Gregorio! gli disse con voce amorevole: che serve ora mai?... riprendi i tuoi uffizi di carità... gli è il miglior modo di rendersi accetti a Dio, e di far del bene ai poveri morti! Io sono chiamato là sopra!... Quì non resta più alcuno... fa attenzione se questo povero diavolo che ha poche ore da vivere... reclama qualche servizio... Mi hai capito, Gregorio?...

E il cappellano, vedendo che il vecchio aveva rialzata la testa e lo aveva ascoltato con faccia compunta, salì frettoloso la scaletta per accorrere alla voce che non cessava di chiedere ajuto.

Il vecchio volse una occhiata al letticciuolo che il prete gli aveva indicato.

Poi crollò la testa, e ripiegandosi tosto sul guanciale che gli era più prossimo, si diede a singhiozzare e a parlare seco stesso.

Su quel guanciale spiccavano i contorni di una testa coperta da un sottile fazzoletto di tela bianca. Il vecchio sollevò un lembo di quel fazzoletto, e accarezzò con uno sguardo pieno di amore e di angoscia le pure sembianze di un fanciullo irrigidito dalla morte. — Un volto che pareva quello di una vergine, — un morto che sorrideva come l'angelo che dorme.

— «Morto!... proprio morto!... Ma dov'è la giustizia di Dio? Anch'essa ha dovuto morire... la povera Martina! E sua madre quasi impazzita...! I preti dicono dal pulpito che i prepotenti, o presto o tardi, la scontano!

«Io l'ho ancora presente... quel mostro...

«Sì... l'ho presente... poichè nelle fattezze di questo povero ragazzo che era un angelo, c'è pure qualche cosa di quel demonio! Forse ho fatto male a condurre un ragazzo in mezzo a questi orrori. Ho voluto vendicarmi da me.... e il Signore ha detto: vediamo un poco cosa sai fare?... Ci hanno cacciati fra queste montagne dove si combatte senza vederci in faccia... Ho avuto un bel cercarlo io... Quel mostro era forse là... dietro un macigno... a tirare i suoi colpi al sicuro... e me l'ha ucciso...! Cosa dirò a Veronica tornando al paese?... Oh! ma io non tornerò!... Te lo prometto, Ernani... Io mi arrampicherò su questi massi... come da ragazzo quando andavo alla domenica a snidare i falchetti... Andrò bene a trovarli io, quei brutti ceffi che non si fanno vedere... E quando ne avrò trovato uno...

In quel punto dal letto vicino si partì una voce lamentosa.

— Datemi un sorso d'acqua!... per pietà, un sorso d'acqua... che io mi sento morire...!

Gregorio abbassò il pannolino sul viso del morto, e si volse dall'altro lato con sembianze mutate. In quella voce di moribondo gli era parso di udire un suono conosciuto.

Si levò in piedi — corse alla brocca per attingere acqua, e tornando al letto del ferito, gli accostò al labbro il bicchiere guardandolo fissamente.

— Ma voi... non siete dei nostri? — domandò il vecchio con terribile voce, dopo avere colla intensa avidità dello sguardo ricostruite quelle sembianze oramai scomposte dalla agonia.

Il morente non poteva indovinare il terribile segreto di quella domanda, non poteva sospettare che quelle ultime goccie d'acqua stillanti sull'arsura delle sue labbra, gli erano versate da un uomo che, riconoscendolo, lo avrebbe avvelenato collo sguardo.

— Fratello italiano: — prese a dire il tedesco con voce interrotta dai singulti — vi rendo grazie delle vostre cure... Non c'è tempo da perdere... io vi prego... chiunque voi siate... di inviare alla mia famiglia che vive a Pesth... la carta rinchiusa nel mio po rtafoglio... Fate sapere ai miei figli che ho combattuto fino all'ultimo... per la patria e per l'imperatore...

— Ma il tuo nome! il tuo nome, o dannato d'un tedesco! — urlò Gregorio come una iena...

L'altro si scosse... I suoi occhi nuotanti nella morte si spalancarono per terrore...

— Buono italiano! in guerra bisogna che tutti facciano il proprio dovere... io sono il capitano Francesco Neïper!... e non ho fatto male a nessuno...

— Non hai fatto male a nessuno?... Ma guarda un poco se hai fatto male a nessuno! gridò il vecchio strappando il pannolino dalla testa del giovine morto. — Io sono Gregorio... l'oste di Val d'Intelvi... il padre della poveretta che è morta di vergogna... di crepacuore... e questo che tu vedi... è il figliolo che tu hai abbandonato... e che i tuoi hanno ucciso!

Gregorio si avventò sul capitano con un gesto orribile, ma uno dei feriti garibaldini, riscosso alle grida del vecchio, era balzato dal letto per impedire una scena atroce.

In quel punto, il cappellano accorrendo dalle stanze superiori, si precipitava fra il vecchio ed il moribondo, mentre il sergente delle Guide entrava dalla porta di strada in compagnia di un chirurgo.

Per un istante un silenzio lugubre regnò nella stanza.

Don Remondo colla sua mano nerboruta serrava i polsi del vecchio — il sergente delle Guide sosteneva nelle sue braccia il garibaldino per ricondurlo al suo letto — il chirurgo, prostrato al giaciglio del capitano tedesco, ne esaminava le ferite, lavandole con una spugna.

— Che volevi fare... che hai tu fatto... o mio vecchio Gregorio! — esclamò il prete con voce sommessa. — Hai tu perduto la ragione? Vergogna!... Infierire contro un uomo vicino a morire!...

— Era lui!... proprio lui! — rispose il vecchio con voce strozzata — quegli che mi aveva fatto tanto male... Che il Signore mi perdoni... ma... poco fa... nel sentire la sua voce... nel riconoscerlo... mi ha preso un tal impeto... Ho creduto che il giusto Dio me lo avesse fatto trovare in questo luogo... presso al cadavere del mio povero Ernani... per darmi la consolazione... di finirlo colle mie mani!

— Non c'era bisogno — disse il chirurgo, levandosi in piedi e allontanandosi dal giaciglio coll'aria indifferente dello scienziato. Penetrando fra la clavicola e la costa superiore, la palla si è sprofondata nel polmone sinistro e la morte divenne inevitabile.

— Hai sentito? — disse il cappellano a Gregorio, poichè il dottore e la Guida si furono alquanto allontanati per visitare gli altri feriti. — Ora, se tu sei un bravo cristiano, inginocchiati e prega anche per lui, pensa che il povero Ernani gli ha già perdonato in paradiso — e che ora, padre e figlio ci guardano di lassù abbracciati.

Ciò detto, don Remondo si levò dalla testa il suo ampio cappello, e mentre Gregorio cadeva in ginocchio a mani giunte, si fece a recitare una semplice preghiera che diceva:

«Anche oggi la morte ha mietuto sui due campi centinaia di vittime umane. Perdonate, o Signore, ai fratelli che uccidono i fratelli, e inviate le vostre consolazioni alle madri che aspettano invano.»


V.

Trascorse alcune ore, gli ospiti del piccolo albergo parevano assopiti. Il vecchio Gregorio, rattrappito fra due letti, colla testa ricurva, avea cessato di pregare e di piangere. Nessuna espressione di dolore per parte dei feriti. Il tormento e l'angoscia reprimevano il singulto, nulla turbava i silenzi della notte misteriosi e profondi.

Nella stanza terrena, seduto presso una vecchia tavola, il sergente delle Guide scriveva. La sua penna scorreva rapidamente sul foglio, agitata da un leggiero tremolio; avresti detto che quel giovine fosse intento a commettere un delitto; che rivelando ad una persona amica i segreti del proprio cuore, temesse di dire cose riprovevoli e codarde. Sul campo di battaglia, dopo le innebrianti e spietate emozioni, il sentime nto dell'amore quasi apparisce puerile e ridicolo. L'eroe del mattino aspetta le tenebre e la solitudine per scrivere alla sua donna. Se i suoi compagni lo sorprendessero, il rossore gli monterebbe alle guancie. — Vedete se la guerra non inverte gli istinti del cuore umano! — i più puri, i più nobili affetti dell'uomo somigliano ad una debolezza e quasi diventano obbrobriosi, laddove non si vive che per uccidere o per essere uccisi.

Il sergente delle Guide non è pei nostri lettori un personaggio sconosciuto. Basti dire che egli si chiama Edoardo De Mauro, il figlio del ricco industriale di Milano, il fidanzato di Enrichetta Cantareno. — È forse mestieri di aggiungere che la lettera è diretta a lei, alla fiera e orgogliosa fanciulla, nel cui amore Edoardo aveva attinta la forza per compiere, a malgrado della resistenza paterna, i doveri di cittadino italiano?

Ed ora che abbiamo riconosciuto il nostro giovane eroe, poniamoci dietro le sue spalle, e coll'occhio seguiamo lo scritto che il di lui cuore va dettando:

 «Mia Enrichetta!

«Io ti scrivo da una povera stanzuccia piena di tenebre e di dolore. Poco fa ho dovuto assistere ad una orribile scena che ha portato al colmo la mia tristezza. Non ho cuore di descrivertela; e d'altronde il tuo animo gentile di donna non reggerebbe al racconto. Debbo ora dirti che questa fu una giornata di gloria per l'esercito garibaldino. Ci siamo impadroniti del forte di Ampola; ma ciò ha costato gravi perdite. Quando si pensa che soli duecento uomini difendevano quella fortezza, e ch'essi potevano fulminarci senza pericolo...! Ma a che servono i tristi commenti? Ampola ha dovuto arrendersi; qualche centinaio di prigionieri sono in nostro potere, e la bandiera austriaca che sventolava sul forte è caduta in nostra mano. — Contuttociò il mio animo non è punto rassicurato, ed io domando invano a me stesso il mio entusiasmo e la mia fede.

«Vi è qualche cosa di inesplicabile, di fatale in questa guerra — tanto ciò è vero che anche le vittorie ci prostrano come sconfitte. Io non mi pento di essere venuto a combattere — ho obbedito alla voce del dovere — se non lo avessi fatto ne avrei eterna vergogna. Ma ben altro era lo spettacolo, altre le emozioni che io mi riprometteva dalla battaglia — io posso dire di aver perduta una illusione ad ogni tappa.

«Vuoi che io ti parli sincero? Io desidero che la guerra abbia fine, io sospiro il momento di svestire questa uniforme per quanto gloriosa ella sia, e tornare semplice cittadino. Se io dovessi riassumere il mio giudizio su questo esercito in camicia rossa, al quale mi sono aggregato, non potrei farlo che con queste parole: «eravamo troppi o troppo pochi.» Non chiedermi in proposito altre spiegazioni.

«E frattanto, i migliori patiscono, combattono e muoiono! — In questa cameruccia, dove io sto scrivendo, c'è un poeta, un giovine poeta ferito, certo Eugenio Lanfranchi. Egli era venuto coll'entusiasmo della sua anima esuberante, egli era dappertutto ove tuonavano i cannoni e le carabine. — In quell'angolo c'è un morto, un fanciullo di tredici anni, che era venuto da Val d'Intelvi per vendicare sua madre... Il povero ragazzo ha fatto prodigi di valore... e nessuno saprà di lui... Quanti vennero per odio all'Austria, o per un elevato sentimento di dovere, o per entusiasmo di gloria... tutti meriterebbero una fronda di alloro... od un monumento... Ma queste anime candide e generose compiono i loro prodigi nel silenzio e nelle abnegazioni — gregarii degli infimi ranghi soffrono senza alzare un lamento, muoiono senza lasciare un ricordo. Pure io credo che anche in queste anime elette, l'entusiasmo e la fede a quest'ora sieno molto sbolliti.

«Udremo più tardi, a guerra finita, le recriminazioni e le invettive. Tutte le accuse andranno a cadere sul governo... e fors'anche — ma io credo che non l'oseranno — sullo stesso Garibaldi. — Dei colpevoli ve ne sono molti, e in ogni parte, su tutta la linea; ma da questo intrigo inesplicabile di colpe, di errori e di fatalità, il nome di Garibaldi uscirà più puro e più glorioso che mai. Quell'uomo è il riassunto, la personificazione delle idee più elevate. Per farti comprendere questo carattere grandioso e solitario, ti dirò ch'egli è meno garibaldino e più italiano di noi tutti...

«Mi è forza interrompere la lettera... Sento le balde voci de' miei compagni che sposano al suono dei tamburi i loro inni di guerra... Oggi ci avanzeremo verso Lardaro... Addio Enrichetta; il cuore mi dice che presto ci rivedremo, e lo desidero. Le più elette intelligenze, i più nobili cuori si consumano in queste lotte — e la feccia sopravvive! È un orribile pensiero codesto! — Non ti sembra che l'Italia abbia invece bisogno di economizzare le sue forze intellettuali e morali già ridotte all'estremo? Oh! voi altre donne vi siete molto adoperate in questi anni per infiammare di eroici sentimenti la gioventù italiana! — Ma un'altra missione vi resta ora da compiere, e non meno patriotica — creare degli uomini sapienti e costumati.

«Io vorrei che nel paese nostro ci fosse meno entusiasmo e qualche maggior lume di onestà e di sapere.

«Ti abbraccio con tutto il mio cuore.

                                                   «Il tuo EDOARDO.»


VI.

Di là a qualche settimana, dal quartiere generale dell'armata si partiva un dispaccio diretto al generale Giuseppe Garibaldi, nel quale a nome del re gli si ingiungeva di abbandonare le posizioni già guadagnate nel Tirolo e di retrocedere co' suoi volontari fino oltre la linea del Mincio... Tale misura, diceva il dispaccio, era divenuta indispensabile in seguito ad una convenzione d'armistizio accettato e stabilito dalle due parti belligeranti.

Garibaldi, nel leggere il foglio, divenne pallido e tetro. Egli sentì in quel momento tutto il corruccio e l'indignazione dei suoi... nonchè il dolore e la vergogna d'Italia. — Ma il patriotismo fu più forte dell'orgogl io — l'eroe delle inverosimili battaglie superò sè medesimo nell'eroismo della sommissione.

Una parola eternamente memorabile uscì dalle labbra di quel patriota gigante — una parola, che sola basterebbe a rendere immortale la fama di lui.

— Obbedisco!

L'uomo del comando, l'uomo nato a dominare, a trascinare le masse — sotto la impressione di una calamità inesplicabile, che fu per l'Italia una grande umiliazione e un immenso pericolo — piega la fronte, come il più umile dei mortali, ed obbedisce.

Vi è qualche cosa di commovente in questa abdicazione di potere per parte di un uomo sì grande. Quale lezione per gli inetti e pei vanitosi, che hanno fatto e non cessano di fare sì deplorabile prova nella tenacità del comando!


FINE.

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