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Il Diplomatico di Gorgonzola.
CAPITOLO I.
Il ritorno del volontario.
«È il 15 settembre del 1859... Eccomi di bel nuovo a Milano! quale
cangiamento! qual vita novella! quale agitazione! Tutti i volti
son lieti, le fisonomie animate... Nelle strade si cammina più
speditamente; si ciarla a voce alta, si grida, si canta, è una vera
baldoria. Le speranze dei Milanesi furono esaudite; il voto di tanti
anni è compiuto: i Tedeschi hanno fatto un bel passo innanzi verso il
loro paese nativo. Un altro passo ancora, e buona notte per sempre!
«Le piazze e i caffè riboccano di soldati, le sciabole battono ancora il selciato e le muraglie; ma sono soldati amici, e il tintinnio delle armi che pochi mesi sono metteva il brivido addosso, ora è per tutti una musica gradita. Gli zuavi danno amicamente di braccio ai nostri barabba; i dragoni francesi cavalcano di pari passo co' nostri gentiluomini; le benefiche sartorelle non isdegnano di volgere un sorriso di buon augurio ai seguaci di Marte: esse che cinque mesi or sono torcevano lo sguardo dalle uniformi mormorando; brutt mòster! E le dame?... pazze per gli zuavi... pazze pei cacciatori di Vincennes, pazze pei corazzieri, pazze per le uniformi in genere! Oh davvero le dame si mostrano calde più che giammai... di amor patrio! Benedetto l'entusiasmo... della donna! non so se i mariti e i papà divideranno la mia opinione; se ciò non fosse, mi guarderei però dallo scagliare sovr'essi l'anatéma. Il signor Paolo d'Ivoy, corrispondente del Figaro parigino, scriveva che «a Milano le donne si mostrano riconoscentissime verso la Francia de' benefizj ricevuti, mentre gli uomini serbano un contegno fra l'indifferente e il sospettoso.» Questi uomini con cui il signor Paolo d'Ivoy ebbe a fare, probabilmente erano mariti.
«Inoltriamoci pel corso di porta Renza. Oh! veh l'amico Eugenio...»
— A prima giunta io non t'aveva riconosciuto!... Ma bene! ma bravo!... l'uniforme ti sta a meraviglia! A dir vero sei un po' dimagrato... ma pure la tua fisonomia è ringiovanita; la tua persona è più agile... più disinvolta. —
Eugenio mi abbraccia con trasporto, ma il suo contegno mi sembra alquanto imbarazzato; nelle sue parole non trovo l'entusiasmo del soldato, che, dopo aver combattuto pel suo paese, ritorna fra i suoi cari a dividere le gioie della libertà.
— Fui ferito a Solferino, — mi dice egli con un misto di orgoglio e di tristezza; solo da quattro giorni ho lasciato lo spedale...
— Ma, a quanto veggo, ora ti sei pienamente ristabilito... Tanto meglio! Sai tu che molti invidierebbero la tua sorte! Una ferita a Solferino, ecco un diploma onorevole che tu potrai mostrare con orgoglio per tutta la vita! —
Eugenio china il volto mestamente, e mormora a voce bassa: — Era meglio morire!
— Che razza di idee son queste? Morire!... So anch'io che sul campo di battaglia la morte è gloriosa; ma una ferita, credilo a me, è del pari onorevole.
Io tento colla celia di diradare la tristezza dell'amico; ma questi, insensibile ad ogni parola di conforto, mi risponde a m onosillabi.
Mi conviene cangiar tono. — Eugenio, — gli dico, dandogli di braccio e traendolo meco verso la via del Durino; — tu hai nell'anima qualche grave cordoglio; perchè non ti confidi al tuo vecchio amico? Chi sa! forse io ti potrei giovare o d'opera o di consiglio! —
Eugenio si ostina a tacere; io prego, insisto, minaccio d'andare in collera; infine, vinto dalle mie preghiere, egli si risolve a confidarmi le sue pene.
— Ho paura che tu rida... di me! tu ridi di tutto....
— Ma non di tutti, — gli rispondo. — Però vorrei che le tue sciagure fossero tali da farmi ridere...
— Sono innamorato!
— Ottimamente!
— Tu cominci a ridere....
— Perchè l'amore è un male a cui facilmente si rimedia. Ma presto, veniamo al fatto: Gli amori di un volontario! ecco un tema da romanzo che i generosi editori milanesi, stante il prestigio dell'attualità, mi pagherebbero due soldi per pagina!
— Tu devi sapere che nell'ottobre passato io mi recai a villeggiare in un paesello a poche miglia da Gorgonzola....
— Gorgonzola! mio caro amico, io prevedo che le tue saranno disgrazie da ridere. Ti par egli che in un paese chiamato Gorgonzola possano accadere degli avvenimenti serii? Tanto meglio: faremo un romanzo umoristico.
— Eppure a Gorgonzola io ho veduto un angelo di bellezza, a Gorgonzola io mi sono innamorato, a Gorgonzola mi sarei ammogliato, se, durante la guerra, alcuni genii perversi, profittando della mia lontananza, non avessero distrutto il bell'avvenire di felicità ch'io mi aveva sognato. —
Il povero Eugenio proferisce queste parole d'un tono sì lamentevole, la sua bella fisonomia siffattamente si decompone, che io non ho più il coraggio di sorridere; io mi metto ad ascoltarlo colla serietà d'un medico consulente.
— La località ove accaddero le mie sc iagure, e la professione d'uno de' principali personaggi da cui queste derivano, non sono, a dir vero, le cose più poetiche del dramma. Il padre della mia fanciulla è un tal Egidio Lanfranconi, ricco proprietario dì cascine e commerciante in formaggi. Egli possiede in Gorgonzola una casa magnifica, e mena comoda vita in compagnia di una sua sorella nubile, mediocremente brutta, e d'una figlia... d'anni diciotto, la più bella, la più poetica, la più cara creatura che io mi abbia veduta.
— Tu fosti ammesso nella casa del signor Lanfranconi, hai chiusi gli occhi sulle bellezze della figlia di diciott'anni, e ti sei innamorato della sorella nubile. Davvero sarebbe una grande disgrazia!
— La disgrazia fu maggiore: ho amata la figlia....
— Ed hai destate le gelosie della sorella...'?
— Ma no. La figlia mi ha corrisposto coll'amore il più ardente, il più appassionato. Io la chiesi in isposa al signor Lanfranconi, ed egli, colla piena adesione di sua sorella, me l'accordò. Le nozze dovevano effettuarsi lo scorso carnovale. Mio padre, tutti i miei erano contentissimi d'una tale unione; perchè Ifigenia (tale è il nome della fanciulla), oltre alla bellezza ed alla onestà, possiede una dote di lire dugentomila. A quest'ultimo accessorio, te lo giuro, io non dava importanza veruna; l'avrei sposata anche povera affatto, tanto io l'amava. Passai il mese di novembre e dicembre a Milano. Io attendeva con impazienza il dì delle nozze, quando, in sul principio del carnovale, corsero i primi rumori di guerra. Le parole dette da Napoleone all'ambasciatore austriaco la prima sera dell'anno, eccitarono improvviso fermento nella gioventù milanese: in que' giorni non si parlava che di rivoluzione e di prossima guerra. Puoi immaginarti qual fosse il mio animo allora...! Pensare alle nozze nel momento in cui tutta la gioventù italiana era commossa dall'entusiasmo di patria, parevami ridicolo... Temetti che i miei conoscenti, i miei amici potessero burlarsi di me, del mio amore, della mia risoluzione inopportuna. Differire le nozze e attendere gli avvenimenti mi parve ottimo consiglio. Mi recai difatto presso il signor Lanfranconi, gli palesai i miei dubbi, ed egli approvò la mia condotta. Ifigenia parve dapprima alquanto malcontenta del dovere attendere, ma io, che primo le aveva parlato d'amore, fui anche primo a parlarle di patria... e vidi con infinita compiacenza com'ella assai bene mi comprendesse. Crederesti? quando verso la metà del febbraio la gioventù lombarda cominciò ad emigrare per correre tra le file dell'esercito piemontese, la brava figliuola mi animò ella stessa a seguire l'esempio dei generosi. Oh come un tal atto la rese più cara al mio cuore! come sublime è l'amore, quando ad esso è congiunto l'eroismo del sacrifizio! Quando io mi recai per dirle addio, ella non versò una lacrima. Mi donò una coccarda e una piccola treccia de' suoi capelli; mi pregò li portassi sempre sul petto. «Le nostre nozze, — diss'ella, — saranno più gioconde allorchè il paese sarà libero; ed io sarò doppiamente orgogliosa di passeggiare al tuo braccio, quando vestirai la divisa del soldato italiano.» Ciò ella diceva con entusiasmo incredibile in fanciulla di diciotto anni. Il padre, in udire quelle calde parole, si asciugò due grosse lacrime di tenerezza, e stringendomi la mano: «a rivederci presto! — mi disse, — spero tornerete colle spalline.» «Poco m'importa delle spalline, — soggiunse Ifigenia, — il semplice soldato non è da meno del capitano, quando entrambi combattono pel santo scopo di liberare la patria.» Partii coll'animo commosso; e all'indomani con altri miei compagni mi trovai al di là del Ticino a salutare ancora una volta il vessillo tricolore. La fortuna mi fu seconda; io fui ammesso nel corpo dei cavalleggeri, corpo che, come sai, prese parte alle principali battaglie. Ifigenia mi scriveva ogni due giorni, e le sue lettere erano piene di amore, di generose esortazioni. Puoi immaginarti con qual animo io corressi al combattimento; quanto entusiasmo nella prima vittoria; quanta gioia in vedere che il nemico perdeva ogni giorno terreno, incalzato dal valore dei nostri! Ai fatti di Montebello e di Palestro successe la battaglia di Magenta. Gli Austriaci non rinvennero altro scampo fuorchè abbandonare la Lombardia e concentrarsi nel quadrilatero... Milano era libera... noi marciavamo trionfanti di villaggio in villaggio... salutati, acclamati dalle popolazioni redente. Io sperava di metter piede in Milano; io pregustava la gioia di riabbracciare Ifigenia... di mostrarmi a lei colla onorata divisa, di narrarle i piccoli episodi delle mie imprese guerresche, di vederla arrossire, tremare di amore e d'entusiasmo. Sventuratamente le mie speranze andarono fallite: il mio reggimento prese altra direzione. Le scrissi da Brescia una lunga lettera: ella mi rispose col suo stile consueto; ma appena trascorse poche settimane, notai che le sue lettere giungevano meno frequenti, e bene spesso non contenevano che poche linee più gentili che affettuose. Non più l'abbondanza espansiva d'un'anima innamorata; non le frasi sconnesse ma eloquenti di chi scrive per impulso d'affetto. Dopo la battaglia di Solferino, quand'io mi giaceva all'ospedale ferito... quando, circondato dalla desolazione e dalla morte, più che giammai io sentiva il bisogno d'una persona amica, Ifigenia cessò di scrivermi! —
Eugenio interrompe la sua narrazione, si strappa il berretto, e stende il braccio verso il cielo, accompagnando il gesto d'una imprecazione.
L'ingenuo dolore dell'amico mi commove le fibbre. Povero Eugenio! Qual terribile disinganno per un giovane innamorato: tornare al proprio paese dopo sei mesi impiegati al servizio della patria, sei mesi di combattimenti, di pericoli, di dolori, e raccogliere per mercede l'indifferenza e l'abbandono. «Oh la donna! — grido io nell'eccesso della commozione: — essere volubile e capriccioso! creatura disleale ed ingrata!»
Ma l'amico tronca a mezzo le mie furibonde invettive. Io mi accorgo ch'egli è troppo innamorato per sopportare un oltraggio contro il sesso femminino.
— No!... essa non è colpevole, la povera figliuola. Ella è vittima d'un padre imbecille che si lasciò abbindolare dalle cabale di due furfanti.
— Ella ti ama tuttavia? Perchè dunque ti disperi? perchè imprechi al destino? Un padre imbecille, raggirato da due furfanti, è il solo ostacolo ch e si oppone alla tua felicità? Amico, quando la donna sta con noi e per noi, la è causa guadagnata.
— Ascolta il seguito della istoria. Puoi immaginare se, appena uscito dallo spedale, io corsi tosto a Gorgonzola per rivedere Ifigenia, per rimproverarle la sua ingratitudine, per chiederle ragione della troncata corrispondenza. Entrai, verso le nove del mattino, in casa del signor Lanfranconi... Io tremava, sudava... il mio cuore pareva sul punto di scoppiare. Precipito nell'anticamera; nessuno. Sono dunque tutti morti? mi faccio a gridare con voce tonante: Chi è di là? Giorgione! Anastasia! — Silenzio. Scorsi parecchi minuti, ecco apparire due figure da servitore: un uomo ed una donna, veri ceffi da galera. È in casa il signor Lanfranconi? domando io. I due domestici mi guardano dall'alto in basso. — Io domando parlare al signor Lanfranconi, ripeto. Allora la donna: «il signor presidente è occupato a redigere il discorso per l'inaugurazione della società democratica-italo-latina, e non credo vorrà incomodarsi per parlare ad un soldato.» «Presidente! rifletto io... Che il signor Lanfranconi abbia mutato di casa...! Infatti questi non sono i suoi vecchi domestici: sul tavolo dell'anticamera veggo un cumulo di giornali e di opuscoli politici... Un fabbricatore di stracchini non può essere il fondatore, di un circolo politico!» Mentre io mi abbandono a siffatte considerazioni, la porta della sala si apre, ed ecco apparire un uomo abbigliato di nero, in cravatta bianca e guanti bianchi. All'occhiello del suo soprabito fiorisce una immensa coccarda tricolore. Sotto il braccio egli stringe un fascio di carte; tiene in pugno quattro o cinque giornali. A prima giunta io credo esser dinanzi ad un ministro di stato o ad un consigliere in caricatura. I due domestici si inchinano profondamente. Io esito alquanto... lo guardo... lo esamino attentamente. È ben desso! Il fabbricatore di stracchini! In vedermi, il signor Lanfranconi sembrò alquanto imbarazzato, ma ricomponendosi tosto ad una serietà dottorale che lo rendeva grottesco, «signor Eugenio, — mi disse, — godo vedervi in buono stato di salute. Pare che il mestiere del soldato vi convenga! Bravo giovinotto! In che posso servirvi?» «In che potete servirmi? — risposi tosto dando libero sfogo alla indignazione, — in che potete servirmi? Che razza di linguaggio è codesto? Io sono venuto per rivedere Ifigenia, per rammentare a lei ed a voi una sacra promessa, per raccogliere la sola mercede a cui credevo aver diritto, dopo i tanti dolori sofferti, dopo tanti sacrifizi.» «Mercede! — risponde il signor Lanfranconi, — mio bravo giovinotto, non ista bene parlar di mercede a chi ha combattuto per la causa comune. Voi prendeste le armi per redimere la patria; la patria è redenta, ecco la vostra mercede.» «Ma Ifigenia! ma le promesse...?» «Figliuolo! I tempi (non è duopo ch'io vel dica) sono cangiati. Sei mesi di guerra, di lotte politiche, hanno rinnovata la faccia dell'Europa. Gli avvenimenti corrono e si succedono con tale rapidità che oggi non è possibile prevedere il dimani. Figliuolo, io vi consiglio di rinunziare ad Ifigenia. Mia figlia... non può più appartenervi. Ella è promessa ad un altro.» A tali parole la mia ira non ebbe più freno; proruppi in minaccie, in imprecazioni sì violente, che l'antico fabbricatore di stracchini ne rimase sgomentato. Ifigenia udì la mia voce; ella accorse nell'anticamera; appena mi vide, si fe' pallida in volto, tremò, tentò invano di proferir parola. «Ifigenia, — le dissi, mitigando il tono della voce, — è dunque vero quanto ho inteso dalla bocca di tuo padre? E tu consentiresti all'amore di un altro, mentre pochi mesi fa avevi giurato d'essermi sposa?» Io m'accorsi che una lotta tremenda si agitava nel cuore della fanciulla; nei suoi sguardi era dipinta l'angoscia. «Eugenio, — mi disse, — io non sono libera della mia volontà... io posso disporre del mio cuore, non della mia mano.» E la voce le si ruppe in un singhiozzo. A tal vista il signor Lanfranconi aggrottò le sopracciglia, e con un gesto da presidente intimò ad Ifigenia di allontanarsi. Quella scena più che afflitto mi aveva istupidito. Quand'io mi riscossi, m'accorsi che tutti erano usciti, e m'avean lasciato là come un cane, come un mendicante!
— E tu te ne sei andato! e in luogo di ricorrere alla strategia amorosa, con cui d'ordinario si vince ogni battaglia di tal genere, partisti da Gorgonzola declamando la tua passione agli astri della notte! Tu sei timido come un soldato! Tutti dell'ugual pasta, voi seguaci di Marte! Sul campo di battaglia arditi come leoni; in faccia ad una donna, o ad un imbecille borghese, mansueti e tremanti come agnelletti!
— Che vuoi? l'eccesso del dolore qualche volta istupidisce. Io uscii infatti dalla casa del signor Lanfranconi svolgendo nell'anima disperati progetti. E nondimeno io non sapevo risolvermi a lasciare quel paese, e mi aggiravo come un matto per le strade più solitarie, usciva fuori all'aperta campagna, poi mi riavvicinava all'abitazione della mia fidanzata, sperando vederla, o incontrarla, o ricevere da lei qualche messaggio segreto. Passeggiando incontrai l'antica cameriera di Ifigenia; ella mi salutò con affettuose parole, poi mi narrò d'essere stata licenziata dal signor Lanfranconi dopo vent'anni di servizio. «Oh! io vi giuro che quel povero uomo non ci ha colpa, — mi diceva la buona vecchia colle lagrime agli occhi, — non è lui che commette di tali ingiustizie... sono i due birbaccioni matricolati ch'ei si tiene d'attorno... due furbi che finiranno col rovinarlo. Figuratevi che gli hanno messo in capo un cumulo tale di sciocchezze, l'hanno sì bene abbindolato colle loro parolone, ch'egli non è più libero di mettere una busca al fuoco senza averli prima consultati. Se sapeste quanto ha pianto la povera padroncina! Ella non può vederli que' due ceffi da pianta-carote, ed il padre pretende ad ogni costo ch'ella scelga l'un d'essi per marito.» Queste ed altre notizie io raccolsi dalla buona vecchia. La certezza che Ifigenia non aveva cessato di pensare a me durante la mia assenza, mi riuscì di non leggiero conforto. Ma come rivederla? in qual modo scongiurare l'ostinazione del padre? Con qual animo presentarmi di bel nuovo nella casa dove era stato accolto in sì mala guisa, dove io aveva subito la più grande delle umiliazioni? Eccoti il pensiero che mi tormenta da più giorni! Eccoti l'idea terribile che mi logora il cervello, il male a cui non trovo rimedio!
— Il rimedio è trovato, mio buon Eugenio.
— Tu dici...?
— Dico che non più tardi di domani tu entrerai nella casa del signor Lanfranconi: dico che fra tre giorni Ifigenia sarà di bel nuovo la tua fidanzata, e fra un mese tua sposa!
Gli occhi di Eugenio sfavillano. Io gli ho parlato coll'accento della convinzione, e l'anima sua giovanile si riapre alla speranza.
— Ma come? in qual guisa credi tu riuscire...?
— Non occorre tu il sappia; mentre tu narravi la tua odissèa, io studiavo le forze nemiche, e meditavo il piano di battaglia. Credilo, amico, la vittoria è per noi. Abbiamo a combattere un imbecille, il signor Lanfranconi; due furbi, e già immagino a qual specie essi appartengano. La vecchia Anastasia a maraviglia li ha designati col titolo di pianta-carote. Pianta-carote! ecco una parola che per me equivale ad un poema! Oh! io li conosco per bene codesti messeri! La rivoluzione del 1848 ne produsse a migliaia; non è a far le meraviglie che la guerra del 1859 ne generi altrettanti. Esseri parassiti che nell'ora del pericolo fuggono o rimangono celati, nel giorno della vittoria svolazzano sul campo seminato di cadaveri per dividersi le spoglie dei vinti e la gloria dei vincitori. E sai tu come costoro riescano all'intento? L'uno assume la maschera del martire, del cospiratore, dell'antico emigrato, del prigioniero politico; un altro si fa banditore di sonori proclami, propugnatore di un liberalismo condiscendente, e adesca di tal guisa le sciocche moltitudini. Credilo, Eugenio, i due furbi che noi abbiamo a combattere sono, per certo, animali di tal specie. Oh! noi sapremo smascherarli, te lo giuro. Sarebbe delitto il permettere che la tua Ifigenia cadesse nell'unghie di codesti ciurmatori! Ella sarebbe perduta! —
Eugenio mi stringe la mano con entusiasmo; io godo d'aver trasfuso in lui la speranza e la gioia; e per non dargli tempo di ricadere nella tristezza, mi propongo di accompagnarlo immediatamente a Gorgonzola, e di ricondurlo fra le braccia della sua fidanzata. A un innamorato di venticinque anni, a un innamorato che poco dianzi stava per lanciarsi nel navilio, poteva io fare una migliore proposta? Un'ora dopo noi partivamo per Gorgonzola.
CAPITOLO II.
La vittima.
Il viaggio da Milano a Gorgonzola tanto a me che all'amico Eugenio
parve brevissimo. Io meditavo il mio piano di attacco; l'amico si
beava nei sogni d'amore: entrambi in apparenza muti, sebbene un dialogo
animatissimo succedesse ne' nostri cervelli fra i varii personaggi o
immaginati o evocati dalla nostra fantasia.
Entrammo in Gorgonzola ad un'ora di notte. Raccomandate all'oste le magre rozze che colà ci avevano trascinato, noi ci avviammo verso la casa del signor Lanfranconi.
A un tratto due colpi di gran cassa, e l'accordo straziante di un bombardone e di quattro clarini ci ferisce l'orecchio. — Che diavolo vuol dire questa musica? — È la banda del paese, — risponde un dabben uomo che camminava a piè pari; — questa sera ha luogo una grande serenata sotto le finestre del signor Lanfranconi, il quale fu eletto capitano della guardia nazionale. Vedete? la casa è illuminata, la folla si aduna; senza dubbio vi saranno dei discorsi. —
«Tanto meglio! — esclamo io, — una tale circostanza è favorevolissima ai nostri disegni.»
Ecco infatti la casa del signor Lanfranconi: la folla è tanto compatta che io e l'amico Eugenio stimiamo prudenza l'arrestarci a trenta passi di distanza. I piedi e, meglio che i piedi, le scarpe ferrate dei villici mi incutono rispetto più che non le manovre di un uffiziale della guardia civica, il quale, per mantenere l'ordine, rincalza a spintoni i curiosi insubordinati. Eugenio si apposta dietro un albero, e par che col guardo pretenda magnetizzare le finestre. Frattanto la gran cassa e i bombardoni destano tutti gli echi delle montagne di Bergamo; le case oscillano come per terremoto; io porto le mani alle tempia per difenderle da quell'assalto violento di note: e nondimeno, al cessare dello strepito, batto le mani con trasporto onde conciliarmi le simpatie degli astanti. — Eh! non ci sono tutti, — mi dice un vicino, — se la banda fosse completa.... «A quest'ora sarei sordo, rispondo mentalmente.»
Ma il chiasso non è finito. Al fragore degli strumenti succede il baccano delle voci umane.
— Viva il signor presidente!
— Viva!
— Viva il signor Lanfranconi!
— Viva!
— Viva il capitano della guardia nazionale!
— Viva!
— Viva il protettore della società democratica-italo-latina!
— Viva!
— Fuori! Al balcone! Viva!!! —
Le grida raddoppiano, l'impazienza della folla assume un carattere minaccioso. È tempo di cedere al pubblico entusiasmo.
Le imposte del balcone si aprono, ed il signor Lanfranconi preceduto da due figuri con la torcia alla mano, presenta finalmente il suo rispettabile individuo.
— È desso! — mormora Eugenio. — E quell'altra che ora comparisce è la sorella nubile... Là in fondo, non ti par di vedere un'altra donna...?
— È uno zuavo...! — rispondo io.
— E chi saranno quei due figuri che portano la torcia?
Senza dubbio i tuoi rivali; l'incarico che stasera si sono assunti, mi è di buon augurio.
Queste parole io scambio coll'amico, mentre la folla muggisce. Frattanto il signor Lanfranconi, vestito della completa uniforme da capitano, risponde agitando il fazzoletto bianco alle dimostrazioni popolari, e straluna gli occhi come un buffo comico.
Uno de' miei vicini mormora a mezza voce: — oggi soltanto l'hanno nominato, ed eccolo completamente vestito colla uniforme del grado! Comincio a credere ch'egli l'avesse già in pronto.
— Eh! conosciamo ben altri che s'erano preparati l'uniforme, — risponde dalla folla una voce.
— Silenzio! — gridano ad un punto cento gole. Il primo che aveva mormorato si allontana quatto quatto, e va a celarsi nell'ombre.
Il signor Lanfranconi accenna colla mano alla moltitudine di moderare i suoi trasporti di entusiasmo; i due, che portano il cero, ripetono lo stesso gesto; al baccano succede un silenzio solenne.
Il presidente della società democratica-italo-latina, rassicurato da quella calma, apre la bocca per proferire un discorso; ma non appena egli ha lanciate le prime parole: valorosi concittadini... nuove grida di entusiasmo lo interrompono. — Viva! bravo! — Silenzio! — urlano di bel nuovo gli astanti. Il signor Lanfranconi sorride, straluna gli occhi, improvvisa varie smorfie, si inchina. La gioia di quel primo trionfo gli irradia la faccia.
— Valorosi concittadini, — ripetè egli dopo un lungo intervallo di attesa. — Valorosi concittadini... — Ma a queste parole eloquentissime la folla prorompe a nuove acclamazioni.
Tre volte l'oratore riprende l'esordio, tre volte viene interrotto dagli applausi. «Sì pronti e sì efficaci trionfi, — pensavo io, — ottiene la parola, quando i cuori bollono di entusiasmo, quando il popolo, commosso da generosi affetti, non attende che un breve impulso per correre a grandi imprese, per sacrificarsi ad una santa aspirazione. Guai a chi non profitta di tali entusiasmi!»
Sventuratamente il signor Lanfranconi non aveva che l'eloquenza delle intenzioni. Il discorso ch'ei doveva recitare era stato redatto da' suoi segretari; era un impasto di frasi comuni, vuote di senso, sterili di affetto; insomma, uno di que' discorsi che paiono sublimi ai.... citrulli.
«Valorosi concittadini!
«Austria è sconfitta, ma non domata; Lombardia ride, Venezia piange, Toscana si redime, Bologna ci stende la mano, Roma freme, Napoli attende. Su dunque, o valorosi! Armiamoci dall'unghie ai capelli; la lotta non è finita; al primo grido d'allarme fate che il nemico ci trovi tutti al nostro posto! Dio è con noi... Inghilterra è per noi, Francia lascia fare... Spagna è minacciata dal Marocco, China dà a pensare alle potenze, Russia attende al Caucaso, Turchia vacilla, Prussia ha dolori intestini, Ungheria si prepara, Russia aspetta. Valorosi cittadini: profittiamo della occasione. Quanto a me, chiamato dall'onorevole incarico di capitanare le file dell'armata cittadina, morrò con voi e per voi nell'ora del cimento. Sia un solo il nostro grido: Viva la razza italo-latina!»
Quest'ultime parole non sono troppo ben comprese dalla folla. Nondimeno, poichè ha cessato di parlare, l'oratore è di nuovo acclamato dalla moltitudine.
— So con qual uomo abbiamo a fare — dico io ad Eugenio. — Ora mi pare che l'uno de' suoi segretari voglia prendere la parola. Ascoltiamo anche costui; a me basteranno poche frasi per conoscere la forza del nemico. —
Il nuovo oratore senza scomporsi della persona scioglie la voce di tal guisa:
«Il grave e lento sviluppo della letteratura germanica, la civiltà del nord meditata e guardinga, con sintesi procedente, non clamorosa ma schietta, non balda ma fidente, matura in segreto i provvidenziali destini dell'Europa tutta; non accelera ma conferma, non spinge ma assoda il progresso delle generazioni avvenire. Meditando la dotta Alemagna, svolgendo le pagine di quegli operosi ma prudenti elaboratori del pensiero, io sento vie più assicurate le sorti del bel paese, che Apennin parte e il mar circonda e l'Alpe; e grido: Viva tutta la famiglia dell'Europa civilizzata! Viva la sapienza civile che informa la nuova êra dei p opoli!»
La folla ripete il Viva, ma con voci già languide e fiacche. La monotona cantilena dell'oratore ha agghiacciato l'entusiasmo del pubblico.
— Anche quest'altro s'è dato a conoscere, — mormorai di bel nuovo all'orecchio dell'amico. — Ora ascoltiamo l'ultimo.
«Cittadini! Dallo Spilbergo, dalle carceri di Josephstadt, dall'eculeo, sui gradini del patibolo, sulle vie tribolate dell'esiglio, torturato, battuto, straziato, lacero nelle vesti, affranto dalle catene, io non ebbi, non ho e non avrò che un solo grido: Morte ai tiranni! morte ai nemici della libertà! Morte ai ladri! Morte agli assassini! Morte! Morte!... e dannazione!»
— Morte! Morte! — rispondono alcune voci. Ma un colpo di gran cassa e lo squillo dei bombardoni ridestano ne' cuori l'ilarità perduta; gli oratori si ritirano dal balcone, le faci si spengono, si chiudono l'invetriate: la guardia civica e i suonatori si allontanano seguíti dalla folla, che seconda la musica con cantici lieti.
— Ora a noi, signor Lanfranconi!
— Povera Ifigenia! — esclama Eugenio. — Ella non s'è lasciata vedere.... Ella non prese veruna parte alla cerimonia. Senza dubbio la poveretta è rimasta in qualche angolo solitario della casa a piangere in segreto la dabbenaggine del padre.
— Ciò che ella pensi saprò fra pochi minuti. Tu, mio buon amico, vattene all'albergo e mettiti a letto; domattina verrò a svegliarti, e ti condurrò fra le braccia della tua fidanzata.
— Che? tu non vieni con me all'albergo?
— Io dormirò questa notte in casa del signor Lanfranconi. Io amo andar per le spiccie nelle faccende mie.
— Ma come?... in qual modo?...
— Lasciane a me la cura.
Eugenio si allontana di alcuni passi, poi si volge per vedere se io mandi ad effetto il mio disegno. Vedendomi entrare a passo di carica nella casa della sua fidanzata, che a lui pareva una fortezza inaccessibile, il mio povero amico rimane pietrificato dallo stupore.
Io salgo le scale, penetro nella anticamera, e scuoto a gran forza il cordone del campanello.
Un servo viene ad aprirmi.
— Il presidente della società democratica-italo-latina, capitano della guardia nazionale, eccetera, eccetera, signor Egidio Lanfranconi, è egli visibile?
— Signore, — risponde il domestico, — il mio onorevole padrone si è recato in giardino, ove stassera ha luogo una cena.
— Tanto meglio! richiamalo tosto, e digli che una persona giunta testè da Pietroburgo deve parlargli di un importantissimo affare. — Così parlando, io entro nella sala, e mi getto sovra un divano.
— E non potrebbe la signoria vostra tornare domattina?...
— E tu credi, o imbecille, che un uomo il quale giunge dalla Russia, incaricato di una segreta missione, possa aspettare i comodi altrui? Questa sera istessa io debbo spedire un dispaccio telegrafico al signor Gorciacoff primo ministro, il quale, mentre io sto qui parlandoti, passeggia forse nel suo gabinetto, attendendo la risposta del signor Lanfranconi. E questa risposta dev'essere comunicata prima di mezzanotte all'imperatore; e prima che l'alba sorga, il mio dispaccio avrà fatto il giro dei principali gabinetti d'Europa!... Imbecille! —
Il servo si inchina profondamente e si affretta a portare l'ambasciata. Pochi minuti dopo, il signor Lanfranconi entra nella sala borbottando: «Qui certo v'è un malinteso. Che diavolo mi parli tu, imbecille, di Russia e di gabinetti?»
— Signor presidente della società democratica-italo-latina, — dico io con aria di mistero, — vorrei parlarvi da solo a solo. Favorite di licenziare il vostro domestico. —
A un cenno del signor Lanfranconi, il servo si ritira.
— Perdonate, o signore, se il desiderio vivissimo di conoscere davvicino un uomo pel quale nutro la più grande ammirazione, mi fece ricorrere ad uno stratagemma forse un po' bizzarro. Io non sono venuto per recarvi i dispacci del gabinetto russo, come poco dianzi ho annunziato al vostro domestico; sibbene per stringervi la mano e per manifestarvi quei sentimenti di stima...
— Che?... Voi dunque assumeste un carattere diplomatico al solo scopo di entrare nella mia casa e di....
— E di ossequiare il grande politico, da cui dipendono i destini dell'Italia tutta, fors'anco i destini d'Europa. —
La fisonomia del signor Lanfranconi comincia a rasserenarsi. Egli era entrato nella sala con un cipiglio da dannato; ma le nubi della sua fronte si diradano, il suo labbro si atteggia ad un gentile sorriso.
— A dir vero... io non meritava tanto onore.,.. Se in cosa veruna ho contribuito al bene del paese, ciò deve ascriversi piuttosto alla mia posizione che mi dà i mezzi... di fare qualche sacrificio, anzichè...
— Signore: vi hanno persone che potrebbero fare assai più di voi quanto ai mezzi di fortuna, eppure non fanno. Voi avete istituita una società democratica-italo-latina, a cui un giorno tutta l'Italia andrà debitrice della sua redenzione. Non aveva torto il signor Gorciacoff, allorchè parlandomi di voi a Pietroburgo...,
— Che? voi parlaste col signor Gorciacoff?... Voi davvero venite da Pietroburgo? favorite di sedere...
— No... no... signor presidente; per voi i minuti sono preziosi; io non voglio intrattenervi più a lungo... Ringrazio la sorte d'avermi accordato il favore della vostra vista. Ora, se mai tornerò a Pietroburgo, potrò dire al signor Gorciacoff e a quanti già fecero le meraviglie perchè io non conoscessi il più dotto politico d'Italia, che non solo ho veduto, ma ho udito parlare il signor Lanfranconi, sono entrato nella sua casa, e ho stretta la mano, che potrebbe con un tratto di penna mutare le sorti dell'Europa.
Ciò detto, io m'inchino profondamente e muovo per andarmene; ma il signor Lanfranconi mi afferra per un braccio e mi obbliga a rimanere.
— Signore... io non permetto che voi partiate in tal guisa... Un bicchiere di vino... una tazza di caffè... un punch! Vi prego di sedere un momento....
— Poichè voi... desiderate...
— Non solo desidero, ma pretendo.... Dalla mia casa non è mai uscito verun galantuomo senza prima aver gustato il mio barbéra...
— Signore! qual degnazione da parte vostra!... Ma non è a far le maraviglie... Il conte Valeschi a Parigi nelle sale della marchesa Orleanoff ha detto che l'Italia non possiede che un solo vero democratico... e quello siete voi. —
Il signor Lanfranconi ha gli occhi scintillanti. Mentre io stempero la mia eloquenza in complimenti di tal genere, il servo reca due bottiglie, e subito si allontana per cenno del padrone.
— È strano che in Russia, in Inghilterra e in Francia sia noto il mio nome, — dice il dabben uomo riempiendomi il bicchiere. — Che ho fatto io per procacciarmi tanta fama? Non sono uscito mai da Gorgonzola... Le mie idee politiche sono subordinate alla volontà di pochi buoni amici che onorano la mia casa della loro presenza... Nel circolo da me istituito non parlai che due volte... e non credo aver proferite più di venti parole....
— Venti parole del signor Lanfranconi valgono assai più che non venti volumi di codesti politicanti accozzatori, gonfi di ciarle e vuoti di idee. Non v'ho forse udito poco fa predicare dal vostro balcone? Qual fuoco, quale eloquenza in sì breve arringa! Qual concisione e al tempo istesso quale esattezza nel dipingere lo condizioni presenti dell'Europa, le passioni politiche de' vari stati, le nuove idee dei popoli! Il signor Albacioff, parlando di voi al conte Adrianoff, uscì fuori con questa sentenza: «L'Italia possiede due geni politici, che nella presente situazione potrebbero condurla a buon fine: l'uno è il conte Cavour, il quale fatalmente si è ritirato dalla cosa pubblica; l'altro è il signor Lanfranconi presidente del circolo di Gorgonzola, troppo modesto o troppo altero per accettare la prima carica dello stato.»
— Oh sì! troppo altero! — grida il mio interlocutore dopo aver vuotato il bicchiere sino all'ultima stilla.... Ma se mai gli attuali ministri intendessero abusare più oltre del loro potere... uscirei forse del mio coviglio... e volerei a Torino... per salvare la patria!
Povero Lanfranconi! L'ingenuità delle sue parole mi commuove, mi intenerisce. Io comprendo fino a qual punto le adulazioni di due raggiratori gli hanno guasto il cervello.
— Voi dicevate, — prosegue egli coll'entusiasmo del credenzone, — voi dicevate che lord Russel, lord Gorciacoff e Valeschi si sono degnati di pronunziare il mio nome. Potreste ora dirmi in qual modo que' grandi diplomatici hanno potuto aver nuova de' fatti miei... e in quale occasione si compiacquero rammentarmi...?
— Signore: la sarebbe una istoria troppo lunga e, per dir vero, io sono aspettato da un mio compagno di viaggio all'albergo del Sole, nè posso per ora intrattenermi più a lungo.
Il signor Lanfranconi scuote il campanello per richiamare il domestico, il quale subitamente comparisce.
— Va all'albergo del Sole, e dì all'amico di questo signore... che noi lo attendiamo qui...
— No... no, — interrompo io. — Asdrubale non consentirebbe di metter piede in questa casa, mentre per certe ragioni politiche egli viaggia l'Italia nel più stretto incognito. —
Poi volgendomi al domestico: — poichè il signore desidera ch'io mi trattenga qualche tempo con lui, dirai alla padrona dell'albergo che in caso il mio amico rientrasse prima di me, vada pure a coricarsi, che io sto bene ove mi trovo...
— E aggiungi, — proseguì il signor Lanfranconi, — aggiungi che il signore passerà la notte in casa mia, perchè deve parlarmi di gravi affari di stato... Ah! ah! —
Il servo si inchina e parte. Il colpo è fatto... eccomi padrone della fortezza. A suo tempo aprirò la breccia per introdurre l'amico; gran scena di passione, gran quadro finale, e buona notte... Il signor Lanfranconi brucia d'impazienza: conviene alimentare la fiamma perchè non si spenga sul più bello.
— Io era a Pietroburgo due mesi sono e, come vi dissi, fui presentato in casa del signor Gorciacoff, il quale ebbe la cortesia d'introdurmi presso la marchesa Albanoff, amica del principe Adrianoff, il cui segretario, signor Anstracoff...
— Che bei nomi! che nomi diplomatici! È duopo confessarlo, noi in Italia di tali nomi non ne abbiamo...
— Il signor Gorciacoff, leggeva una sera il Somarroff, giornale russo. A un tratto egli sospende la lettura, e volgendosi a me con aria sorridente: «Di grazia, mi chiese, quanti anni credete voi possa avere il signor Egidio Lanfranconi?»
— Sessantaquattro anni, cinque mesi e sei giorni...
— Sventuratamente io non conosceva questi particolari e, lo dico a mia vergogna, ignorava perfino... che in Italia esistesse un personaggio così chiamato...
— Ah! Ah!... lo credo. Da cinque mesi soltanto io ho cominciato ad agire nel campo della politica. Ebbene? qual fu la vostra risposta al signor Anstracoff?...
— Risposi schiettamente ch'io per nulla conosceva il signor Lanfranconi. Peccato che voi non foste presente a quella scena! Il signor Gorciacoff fece un atto di meraviglia: tutti gli astanti si guardarono in viso, e la marchesa Albanoff mormorò a mezza voce: «Ecco l'Italia! io non spero che quel paese possa redimersi infino a che mostrerà tanta indifferenza verso i suoi grandi.» Rimasi confuso, annichilito: balbettai qualche parola di scusa, e il signor Anstracoff, vedendo il mio turbamento, mi si accostò, mi battè leggermente sulla spalla, dicendomi all'orecchio: «Temo che un tal peccato d'ignoranza vi abbia a chiudere d'ora innanzi le sale della marchesa.»
— Povero giovane! mi spiace che il mio nome vi sia stato occasione di dispiaceri....
— Non importa: pochi giorni dopo esso mi procurò molti vantaggi. Io mi recai a Londra: il mio compagno di viaggio aveva una lettera commendatizia per lord Russel.
— Lord Russel! lord Russel si sarebbe degnato parlare di me? Oh!... davvero io non credo d'essermi meritato un tanto onore... e quantunque, come dice il signor Nebbia, gli occhi dell'Inghilterra sieno rivolti con benevolenza all'Italia... non so comprendere come il celebre ministro siasi occupato del povero presidente del circolo di Gorgonzola....
— L'Inghilterra ha in Italia molti emissari, incaricati di studiare i progressi del paese, di conoscere il voto delle popolazioni. Lord Russel, parlandomi di voi, che stavolta finsi di conoscere, mi diceva in presenza di lord Palmerston: «Quel signor Lanfranconi la sa più lunga di tutti; l'Italia ha trovato il suo Pitt.»
— Pitt!... Che diavolo di nome? però.. bel nome... Un nome spiccio...! E dite un po': lord Palmerston non ha presa la parola...? non ha detto anch'egli qualche cosa a proposito del signor... Pitt...?
— A proposito di Pitt, lord Palmerston ha esclamato: «Voglia il cielo che il signor Lanfranconi sia il Pitt e non il Robespierre dello sventurato paese!»
— No... no! caro collega Palmerston... io non sarò il Robespierre dell'Italia: se mai venisse giorno in cui gli avvenimenti, come dice il signor Trigambi, esigessero una ghigliottina... io darei la mia formale dimissione. —
In proferire queste parole, il signor Lanfranconi si asciuga due grosse lacrime che gli gocciolano sulle guance. L'ingenuo trasporto del dabben uomo mi toglie il coraggio di continuare la finzione. Vorrei stringergli la mano, vorrei senza indugio aprirgli candidamente il mio cuore, dirgli le vere ragioni perchè io sono venuto in casa sua; ma forse di tal modo guasterei il mio piano di battaglia. Per buona sorte un terzo personaggio entra nelle sala... una giovanetta di circa diciott'anni, bella e mestissima nel volto: Ifigenia.
«Oh! la gentile creatura! — penso io, — dessa è ben tale da destare l'entusiasmo dell'amore in un cuore di ventisei anni, bollente, poetico qual è il cuore dell'amico mio.»
Ella si arresta... non osa aprir labbro. Si direbbe ch'ella tremi della severità paterna: forse l'aspetto d'uno sconosciuto la rende più esitante.
— Che vuoi tu, figliuola mia? — chiede il signor Lanfranconi con piglio alquanto brusco.
— Io veniva per ricordarti... che i convitati... ti aspettano in giardino... e si maravigliano della tua assenza.
— Oh! sì!... vero!... — esclama il signor Lanfranconi, levandosi in piedi. — Vedete s'io sono smemorato...! La politica mi faceva dimenticare la cena! Figliuola mia, ti prego di dar di braccio al signore, di condurlo in giardino e di presentarlo ai nostri amici, mentre io corro a vedere se quella lumaca di Stefania ha preparate le camere... Il signore è amico di Palmerston, di lord Russel, di Gorciacoff... e d'altri pesci grossi... di tal fatta. Basta!... fra poco verrò io. Voglio un po' vedere lo stupore di mia sorella quando udrà che lord Palmerston... e quegli altri signori parlano di me in Inghilterra ed in Russia... come si trattasse d'un loro fratello.
Ifigenia manda dal petto un sospiro, e mi volge una occhiata di rimprovero, quasi intendesse dirmi: «Anche voi abusate della credulità d'un vecchio dabbene, del povero padre mio!»
Ma appena il signor Lanfranconi è uscito, io prendo con dolce violenza il braccio della fanciulla e le mormoro all'orecchio: — Eccellente fanciulla: io sono venuto qui per darvi una buona notizia. Eugenio è giunto stassera a Gorgonzola, e scommetto che in questo momento egli è ancor là abbasso inchiodato sotto il balcone... nella speranza di vedere la sua Ifigenia. —
Gli occhi della fanciulla sono rasserenati. Il suo braccio trema nel mio... Ella si affretta ad accompagnarmi in giardino, e nello scendere le scale mi fa cento domande sul conto del suo innamorato. Io le dipingo co' più vivi colori la passione di Eugenio e il suo dolore nel vedersi tolta la donna che era per lui oggetto di adorazione; le dichiaro che non per altro scopo io mi sono introdotto in casa del padre di lei, se non per favorire i disegni di Eugenio, per ricongiungerlo alla sua innamorata. Ad ogni mia parola Ifigenia cerca rianimarsi: in breve io riesco ad ispirarle tanta confidenza, quanta dapprima le avea ispirato avversione.
Eccoci in giardino; sotto il pergolato è disposta una mensa obblunga, in capo alla quale è un posto vacante.
— Vedete! — mi dice Ifigenia sotto voce, — mio padre vorrebbe ch'io sposassi uno di que' lumaconi là in fondo, che seggono ai lati del posto riservato a mio padre.
— Voi sposerete Eugenio, a dispetto di tutti i lumaconi politici e scientifici d'Europa! —
Prima che noi ci avanziamo verso la mensa, il signor Lanfranconi ci raggiunge. Egli sembra molto soddisfatto di potermi presentare a' suoi commensali. Mi prende per mano, mi conduce sotto il pergolato, e con voce solenne: — signori, — dice, — ho l'onore di presentarvi il signor Palmerston... cioè.., voleva dire... l'amico di lord Palmerston... di lord Russel... di Gorciacoff... di Adrianoff... della marchesa... Andreoff... il quale si è degnato di recarmi alcuni importanti messaggi di que' bravi signori di laggiù.,. Signor Nebbia... signor Trigambi... e voi tutti, onorevoli fratelli e correligionari politici, perdonate se stassera io cedo il mio posto d'onore al nuovo ospite, all'amico di lord Palmerston, del conte Valeschi, del ministro Gorciacoff... —
Io mi assido senz'altra cerimonia al posto che mi viene indicato. Il signor Nebbia e il signor Trigambi impallidiscono, e si scambiano una occhiata obliqua e dispettosa. Il Lanfranconi va a sedere all'altro capo della tavola, intercettando colla protuberanza del suo addome una comunicazione di gesti e di parole piuttosto interessanti fra sua sorella nubile ed uno zuavo. Frattanto Ifigenia si è allontanata sotto pretesto di volersi recare a contemplare la luna. Ch'ella invece sia corsa al balcone per iscambiare con Eugenio qualche segno telegrafico? Davvero ne sarei contentissimo: l'amico vedrà ch'io ho ben impiegato il mio tempo.
Le bottiglie si sturano: i commensali paiono tutti d'ottimo umore, ad eccezione dei miei due vicini, che sono d'una taciturnità desolante. Il signor Lanfranconi propone vari brindisi in onore della guardia nazionale e della società democratica-italo-latina; da ultimo leva il bicchiere, e volgendosi a me con aria solenne si fa ad esclamare: — Viva i miei onorevoli colleghi lord Palmerston e lord Russel, viva il conte Orlanoff, la marchesa Adrianoff e tutti gli Off amici dell'Italia! —
Il signor Lanfranconi morrebbe di congestione cerebrale se io non mi affrettassi a ripetere innanzi alla numerosa assemblea che tutte le sommità ministeriali e politiche di Europa si occupano di lui. Il momento decisivo è venuto. Io mi levo in piedi; i commensali sospendono le loro funzioni gastronomiche, e mi salutano di applausi prolungati. Alla fine io prendo la parola:
— L'onorevole signor Palmerston, col quale poche settimane sono io mi trattenni in lunga conferenza, m'incaricò di significare al dotto accademico signor Lanfranconi, di cui onora gli alti intendimenti politici e lo sviscerato patriottismo, essere oggimai le sorti dell'Italia assicurate, purchè si rimuovano i pochi ostacoli interni, che tuttora si oppongono od almeno ritardano il nostro progresso civile. E quali sono codesti ostacoli? lord Palmerston osava rispondere. Lord Russel prese animosamente la parola: «Voi avete in Italia due sêtte nemiche del vostro bene, diss'egli laconicamente, la setta dei dottrinari, e la setta degli esaltati. Dite al signor Lanfranconi che si tenga bene in guardia contro le mene di costoro; in caso diverso il paese sarebbe rovinato!»
Il mio discorso è accolto con applausi frenetici; ma il signor Nebbia ed il Trigambi, cui forse non garba troppo la conclusione, si levano dalla mensa, e si allontanano pei viali del giardino, parlando fra loro sommessamente. Il Lanfranconi, inebriato di vanità, non s'accorge della improvvisa disparizione de' suoi due segretari. Egli si leva dal suo posto, con piena soddisfazione della sorella nubile, la quale tosto si riavvicina allo zuavo, e viene a collocarsi presso di me in uno dei posti vacanti.
— Io mi accorgo, — dic'egli sottovoce, — che voi non siete quel dabben uomo che vorreste sembrare. Scommetto che lord Palmerston vi ha incaricato di qualche missione segreta.... Giurerei che non a caso vi siete introdotto nella mia famiglia.... Basta! domani non vi lascierò partire.... Io voglio che mi onoriate d'una seconda conferenza da solo a solo....
— Sta bene, — rispondo io, — rimarrò domani presso di voi, a patto che ora mi permettiate di andarmi tosto a coricare.
— Ehi! Tebaldo! Stefania! — grida il Lanfranconi; — accompagnate il signore al suo appartamento. Ma dove sono andati il signor Nebbia e il signor Trigambi?....
— Probabilmente a meditare sulle parole di lord Palmerston.
Io prendo commiato dalla società, e, condotto da Tebaldo, salgo ai miei appartamenti. Attraversando la sala mi accorgo che il balcone è aperto... e che Ifigenia, immobile come una statua, sta tuttora in contemplazione della.... luna. — Buona notte, signorina, — le dico passando, — domani contemplerete la luna senza aprire le imposte del balcone.
CAPITOLO III.
Buffoni e uomini seri.
Io non chiusi gli occhi durante la notte. Il Nebbia e il Trigambi
probabilmente ignoravano che la camera a me destinata fosse attigua
alla loro. Verso undici ore io li udii conversare di tal guisa:
— Qui bisogna prendere una seria determinazione.
— Senza dubbio....
— O l'uno o l'altro di noi deve sposare Ifigenia....
— E buscarsi la dote....
— Dugento mila franchi! davvero è un bel colpo! saremmo imbecilli se ci lasciassimo sfuggire una tanta fortuna....!
— Eppure l'uno o l'altro di noi dovrà sacrificarsi.... Ifigenia non può sposarci tutti e due... Finora ella ci ha date prove non dubbie di... avversio ne. Se noi non affrettiamo le nozze, un terzo potrebbe entrare di mezzo e rapirci il frutto delle nostre fatiche.... Ora abbiamo dalla nostra il papà imbecille....
— E il papà imbecille, se più s'indugia, potrebbe lasciarsi raggirare da qualcuno più scaltro di noi....
— Quel ciarlatano che stassera s'è introdotto in casa nostra mi dà molto a temere....
— Non v'è più un momento da perdere...,
— Dunque?
— Dunque!
I due colleghi stettero per pochi minuti silenziosi. Il Nebbia con voce melliflua e insinuante riprese la parola:
— Amico dolcissimo: per quanto scarsa sia in me la conoscenza di quell'inesplicabile labirinto che si appella il cuore umano, ho dovuto non di meno accorgermi che alla gentile Ifigenia meglio che le tue risolute e talvolta un po' brusche maniere, le mie più moderate e più leni si confanno. Però sono d'avviso che all'intento desiderato, più agevole a me si apra la via che non a te, soavissimo fra' miei più cari. Ove ciò non fosse, di leggieri avrei rinunziato a qualsivoglia pretesa sulla giovinetta pudica, del cui amore entrambi siam presi: felice in vederla unita di indissolubile nodo a te, amatissimo ed amantissimo. Spero dunque che tu, mosso più che da generosa condiscendenza, da assennato e prudente consiglio, a me vorrai lasciar libero il campo per una impresa a te forse malagevole, per me piana e feconda.
— Onorevole collega! — risponde il Trigambi. — Queste tue ciarle nè punto nè poco mi persuadono. Io non credo che Ifigenia t'abbia mostrato mai della preferenza. I miei modi bruschi, il mio carattere disinvolto le vanno più a genio che non le tue moine. Le donne giovani preferiscono gli uomini d'azione agli uomini di scienza. Se Ifigenia verrà posta nel bivio di dover scegliere fra noi due, io non dubito ch'ella mi accordi la preferenza.
— Presupponiamo....
— Amico: non tante parole.... Io voglio che Ifigenia mi appartenga.... Già più volte abbiamo p arlato su tale proposito senza mai riuscire a metterci d'accordo. Dunque.... da galeotto a marinaro.... Il più scaltro avrà la vittoria.... Piuttosto che cederla a te.... vorrei che la andasse in mano.... del primo venuto!
Il Trigambi esce dalla stanza brontolando. Il Nebbia, appena il collega è partito, mormora colla sua pacatezza abituale: «Vorrei vederla morta, anzichè nelle mani di quel furfante!»
All'indomani, tutti gli abitatori di casa Lanfranconi sono in piedi di buon mattino; io prima degli altri. Risoluto di condurre a termine la mia impresa in quella giornata, corro dapprima all'albergo in traccia di Eugenio.
— Ebbene! — esclama egli, — ho veduto Ifigenia al balcone! ebbi da lei un biglietto....! Oh amico! tu davvero sei il mio angelo tutelare! lascia che io ti baci. —
Eugenio mi getta le braccia al collo, e piange di consolazione. — Tempo non è di lacrime, — rispondo io cantarellando; — convien affrettare lo scioglimento del dramma. Ascoltami bene: l'ultimo colpo di scena, il colpo decisivo che ricondurrà Romeo nelle braccia di Giulietta, che farà morire di rabbia il rivale abborrito, che placherà la ferocia del padre tiranno, è serbato a stassera verso le ore otto. Ma, perchè il dramma riesca di maggiore effetto, ci vuol della polvere, ci vogliono schioppettate, grida di popolo e fuochi di bengála. Ecco dunque quanto devi fare per concorrere efficacemente a tale scopo. Fa di procurarti dei razzi o girasoli a polvere, e vieni alle otto della sera sotto le finestre del signor Lanfranconi, accompagnato da cinque o sei contadini. Appena vedi aprirsi le imposte del balcone, tu metti fuoco alla batteria, e fa che i tuoi contadini mandino un grido d'allarmi... Mi hai tu ben inteso...?
— Sì... ma in qual modo...?
— A me la cura del resto... Addio... il tempo è prezioso; io vado a disporre gli altri personaggi del dramma, onde la catastrofe riesca secondo i miei voti. —
Io mi stacco da Eugenio, e mi affretto a rientrare nella casa del signor Lanfranconi. Il grottesco presidente della Società democratica-italo-latina è in istretto colloquio col Trigambi e col Nebbia. Ifigenia sta in un canto della sala, pallida in volto e abbattuta più dell'usato. La poveretta, in vedermi entrare, riprende coraggio. Si direbbe ch'ella attendesse con impazienza il mio ritorno.
— Signore, — mi dice il Lanfranconi. — voi giungete a proposito onde suggerirci qualche espediente per sciogliere una questione intricatissima. —
Il Nebbia e il Trigambi vorrebbero troncare il discorso, ma l'altro non bada all'evidente malumore dei due colleghi, e tira innanzi di tal guisa:
— Voi dovete sapere, in primo luogo, che io sono un gran imbecille... cioè... un uomo... che fuori della politica... mi trovo propriamente... come si suol dire... un pesce fuori dell'acqua. Io accolsi in mia casa questi due bravi signori, sapendoli due caldi patrioti, due uomini di polso... che potevano, non dirò consigliarmi... ma aiutarmi ne' miei studi politici, economici e democratici... Ma siccome, quando si tratta dei miei interessi particolari, io sono... o fingo d'essere un imbecille, così, senza riflettere alle difficoltà che potevano insorgere, ho promesso a tutti e due la mano di mia figlia. Ora: come si scioglie questa faccenda? Il progresso della democrazia non giunse finora a tanto da permettere alle fanciulle la comunione dei mariti... Io vorrei favorire sì l'uno che l'altro... perocchè nell'avvocato Nebbia, collaboratore del giornale il Chiaro-oscuro, ammiro la profonda dottrina; nel dottor Trigambi rispetto le impronte venerande del martirio e la devozione illimitata al bene del paese... L'uno non vuol cedere all'altro... i suoi diritti. Io non ho ragioni per dar la preferenza a questo piuttosto che a quello. Come sì fa? Sfido lo stesso Palmerston a trovare in tal caso una transazione soddisfacente.
— Mio caro signor Lanfranconi, — rispondo io, volgendo uno sguardo alla povera Ifigenia, che non osa levar gli occhi per eccesso di timidezza, — l'espediente è presto trovato. Si consulti il voto di Ifigenia. Scelga essa fra i due pretendenti..... ed ecco troncata ogni lite.
Il Lanfranconi aggrotta le sopracciglia, poi dice a bassa voce: — essa ha scelto... la cattivella...
— Ebbene?
— Essa pretenderebbe rifiutare sì l'uno che l'altro dei suoi due pretendenti. Ifigenia è giovane troppo per comprendere il bene ed il male: io, uomo di esperienza, debbo imporle la mia volontà. Un giorno ella si chiamerà contenta di avermi obbedito. —
Ifigenia, in udire tali parole, non può trattenere le lacrime, e si allontana. Dopo breve silenzio io prendo di bel nuovo la parola:
— Lanfranconi! mi accorgo che la questione è assai più difficile a sbrogliarsi di quanto in sulle prime mi appariva. Nondimeno, se mi concedete pochi minuti per parlarvi da solo a solo, spero venire a capo d'uno scioglimento felice. In presenza di questi signori non oserei esporvi apertamente il mio pensiero. —
Il Nebbia ed il Trigambi si ritirano, e nell'uscire dalla sala sospingono la porta con un urto sì violento da far crollare le muraglie. Io piglio pel braccio il mio ospite, e scendo con lui nel giardino.
Il giardino del signor Lanfranconi, veduto alla luce del giorno, presenta allo sguardo un quadro di devastazione. Si direbbe che un violento uragano abbia abbattuto gli alberi, sfrondate le siepi, scomposte le zolle. Io non posso a meno di esprimere la mia meraviglia all'ospite che mi dà di braccio: ma questi non curandosi tampoco di volgere intorno una occhiata, mi risponde asciutto: — chi può occuparsi di giardino e di fiori, mentre le questioni politiche assorbono tutta la nostra attenzione? I miei servitori da mane a sera hanno i giornali nelle mani. Ciò reca qualche inciampo al disimpegno de' loro affari: l'ordine della casa non cammina colla usata regolarità; ma io preferisco aspettare alla mattina il mio caffè e panna e mettermi a tavola una o due ore più tardi, anzichè porre ostacolo alla educazione politica del popolo. —
Così parlando, noi ci inoltriamo in un viale. Volgendo gli occhi per caso verso la serra dei limoni, mi vien veduto lo zuavo della sera precedente, il quale con energica famigliarità abbraccia la sorella del mio rispettabile amico.
— Allontaniamoci, — mi dice il Lanfranconi all'orecchio....
— Come? voi permettete che in vostra casa....?
— Bazzecole, mio buon amico. Le razze latine si fondono...
— Il nostro nobile collega signor John Russel è d'avviso che assai meglio ci troveremmo se incominciassimo a fonderci un po' meglio fra noi della razza italiana.
— Il signor Russel... avrà forse ragione. Ma lasciamo pure che il progresso precipiti al suo ultimo scopo, e parliamo di ciò che per ora più davvicino ci interessa. Voi dicevate di avere un utile suggerimento a comunicarmi riguardo al matrimonio di mia figlia....
— Certamente; un ripiego basato sulla giustizia, o che voi senza dubbio approverete. Voi dite voler maritare vostra figliuola ad un uomo il quale abbia ben meritato della patria, ad un uomo, che per la sua devozione alla causa della libertà sia degno della pubblica stima. Un tale proposito assai vi onora, signor Lanfranconi, ed io non posso a meno di incoraggiarvi a persistere in esso. Il signor Nebbia ed il signor Trigambi, come voi dite, sono due martiri della patria. Ebbene facciano entrambi l'enumerazione dei loro meriti dinanzi ad un giudice imparziale, e quegli che avrà più titoli alla riconoscenza della patria, s'abbia in moglie la bella Ifigenia.
— Signore! la vostra idea mi va a sangue...! Accettereste voi il posto di giudice?
— Ove ciò vi aggradi... sono pronto a favorirvi.
— Ebbene... stassera, dopo il pranzo, metteremo sul tappeto la questione, udremo gli oratori, e voi proferirete la sentenza. —
Ciò convenuto, io trovo un pretesto per allontanarmi dal signor Lanfranconi, e corro in traccia d'Ifigenia per prevenirla di quanto sta per accadere. La buona figliuola promette assecondare i miei disegni, e attende con impazienza lo scioglimento della catastrofe.
L'ora del pranzo è suonata. Il signor Lanfranconi per dare maggior apparato alla conferenza, si è messo la toga di presidente e un enorme berretto da cui pendono due larghe stole a pelo di coniglio. Il Nebbia e il Trigambi non aprono labbro. Ifigenia non ha voglia di mangiare; io cerco intrattenere il Lanfranconi con una lunga sequela di aneddoti politici, fino all'ora del dessert.
La pendola della sala segna le sette ore. Il momento è solenne e decisivo. Il signor Lanfranconi, dietro mio cenno, espone al Nebbia ed al Trigambi il suo disegno.
I due colleghi sembrano esitare. Sì l'uno come l'altro mostrano poca fiducia nel giudice innanzi a cui debbono perorare la loro causa. Io mi faccio ad incoraggiarli con buone parole e con un sorriso misto di ingenuità e di cortesia. Alla fine l'avvocato Nebbia incoraggiato da una furtiva occhiata di Ifigenia, che si giova d'un tale artificio per accelerare la catastrofe, prende a parlare di tal guisa:
— Se all'onorevole signor Lanfranconi od alla amabile di lei figliuola spettasse il giudicarmi, crederei inutile e forse inopportuno io accennare quanto io m'abbia fatto a pro della patria comune, di questa carissima e santissima Italia, cui da più anni ho consacrate tutte le forze dello ingegno. Pure, trattandosi di dovermi subordinare al giudizio di chi non mi conosce, in vista del sommo guiderdone a cui aspiro, non per vanità o per boria, dirò brievemente la ragione mia. Mentre Italia gemeva sotto l'oppressione dei suoi tiranni, mentre il sospiro, la parola, perfino l'aspirazione segreta ad un miglior avvenire erano delitti, io dettai sul Chiaro-oscuro venticinque articoli, cui senza dubbio l'Italia va debitrice dell'attuale suo risorgimento. Questo è il maggiore de' miei vanti, nè io lo rammenterei, se una tale contribuzione forzata alla mia naturale modestia non fosse imposta da un affetto gentile.
— Sta bene, — rispondo io. — E dopo avere scritti i venticinque articoli, al momento in cui l'Italia agitata dalla vostra efficace eloquenza si armava per combattere i duecentomila stranieri, che non eran fuggiti dinanzi alle vostre ciarle... come vi comportaste voi?
— Io spinsi tutti i miei conoscenti ed amici a prendere le armi.
— E voi li seguiste... senza dubbio sul campo di battaglia...
— Spingere gli altri al combattimento è molto più utile alla patria...
— Ed anche più comodo. Signor Trigambi: ora la parola è a voi.
— Sarò breve, sarò energico qual si conviene al figliuolo della rivoluzione. Io non scrissi articoli, non feci vana pompa di utopie, non imbrattai i giornali di ciancia e fanfalucche, ma corsi di terra in terra, di nazione in nazione, a risvegliare i popoli addormentati. Dal 1831 infino ad oggi, io cospirai contro i tiranni, ed ebbi l'onore d'essere per ben quattro volte appiccato in effigie!
— Senza dubbio nel 1848 voi prendeste parte ai combattimenti delle cinque giornate...
— Durante la rivoluzione io mi trovava a Parigi. Corsi a Milano, ma non ebbi la fortuna di giungere in tempo.
— Più tardi vi sarete arruolato nelle schiere di Garibaldi che movevano al campo...
— A quell'epoca io era già partito per sollevare la Toscana.
— Foste a Roma nel 1849... a difendere l'ultimo asilo della libertà italiana?
— Nel 1849 io mi recai a... Parigi... per soffocare i primi moti della reazione.
— E negli ultimi mesi decorsi... senza dubbio avrete preso parte alle battaglie di Magenta e di Solferino...
— Il mio posto non era a Solferino... ma sibbene a Londra, ove ho contribuito potentemente alla caduta del ministero Derby. Ma che razza di esame è codesto? Perchè tante domande suggestive ad un uomo che vi ha detto sul bel principio d'essere stato quattro volte appiccato in effigie?
— La vostra effigie deve aver molto sofferto a pro della patria... ed io deciderei la questione in favore di essa... Ma quanto a voi, signori...
— Quanto a me, — ripiglia il Nebbia, — oramai vedo d'aver compiuta la mia missione morale. Al primo grido d'allarmi, io correrò sotto il vessillo della patria, beato di morire per essa.
— E tale è anche il mio proposito, — soggiunge il Trigambi. — Al primo colpo di cannone io sarò tra le file dei combattenti...
— Io non desidero che la morte sul campo di battaglia, — prosegue il Nebbia, levandosi in piedi.
— Il mio petto anela ad una palla, come l'assetato alle fresche sorgenti.
— Morte ai tiranni!
— Morte ai nemici d'Italia! —
I due colleghi brandiscono le forchette, e paiono sul punto di scagliarsi contro le orde create dalla loro immaginazione. La pendola suona otto ore.... Io mi levo, fingendomi commosso di entusiasmo, vado a dischiudere le imposte del balcone, e immediatamente uno... due... tre... spari s'odono al piè della casa.
— Corpo di mille diavoli! — esclama il Lanfranconi — Questo è un combattimento a fuoco vivo...! —
Io mi ritraggo dal balcone. Il Nebbia ed il Trigambi han deposte le forchette... e sono ripiombati sulle loro scranne, col pallore nel volto.
— Presto! qualcuno scenda abbasso! — grida il Lanfranconi. — Che diavolo sarà accaduto...? —
Nessuno si muove.
Ifigenia finge cadere svenuta, il padre si affretta a soccorrerla, e intanto ripete con voce alterata:
— Signor Nebbia... signor Trigambi... a voi!... Correte là abbasso... Non vorrei che qualche male intenzionato... Ohimè! la mia povera Ifigenia si muore dalla paura! —
Io afferro per le falde dell'abito il domestico del Lanfranconi, il quale tenta invano di schermirsi, e lo obbligo ad accompagnarmi col lume in fondo alla scala. Il Nebbia ed il Trigambi sembrano impiombati sulla seggiola.
Il domestico, giunto a piè della scala, si arresta riparandosi dietro l'uscio; io corro fuori, scambio con Eugenio poche parole, indi torno con aria affannata presso il signor Lanfranconi.
— Ebbene? quali notizie? che c'è di nuovo laggiù?
— Presto! — rispondo io... — Avete degli schioppi?... Una banda di reazionari capitanati da un ex-pol iziotto austriaco sono entrati in Gorgonzola, e minacciano di saccheggiare le case dei liberali.
— Misericordia! — grida il Lanfranconi. — Io non tengo che quattro fucili... Signor Nebbia... signor Trigambi... profittatene voi...! Oh! la mia povera Ifigenia! Su... dunque!... Che fate voi lì inchiodati sulla scranna...? I fucili sono nella stanza vicina. —
Io prendo un lume, e corro in cerca dell'armi. I due amici non che di muoversi han perduto la lena di parlare. Frattanto sotto le finestre tuonano i razzi... e cinque o sei contadini, adunati da Eugenio, gridano: All'armi!
— Signor Nebbia... signor Trigambi... eccovi il fucile — dico io rientrando nella sala. — Corriamo tosto... a disperdere quella ciurma di scellerati. —
Il Nebbia si leva in piedi, e stringe l'arma nella mano tremante.
— Chi combatterà meglio, — dice il Lanfranconi, — chi farà prove di maggior coraggio, avrà la mia figliuola per moglie! Animo dunque! Che più s'indugia?...
— Avete inteso? Ifigenia sarà del più prode... Andiamo. —
Il Nebbia muove alcuni passi, ma giunto presso la scala, depone l'arma, esclamando eroicamente: — no... no... io non posso risolvermi a combattere contro i miei concittadini... a lordarmi di sangue italiano! Io rifuggo dalla guerra civile!
— Ebbene... Ifigenia apparterrà al signor Trigambi, — grida il Lanfranconi. — Ma dov'è il signor Trigambi?
— Egli è sceso per di là... — dice il domestico, additando la scala che mette alla cantina. —
— Ah! scellerato! — grida il Lanfranconi levandosi in piedi. — Toccherà dunque a me, vecchio... malaticcio... impotente... a dare agli altri esempi di coraggio...?
— Arrestatevi, signor Lanfranconi; voi non dovete scostarvi da Ifigenia... che troppo ha bisogno de' vostri soccorsi. Gli schioppi destinati al signor Nebbia ed al signor Trigambi serviranno ad altre braccia. —
Ciò detto, m'affaccio al balcone, e indirizzo la parola ai congiurati.
— Figliuoli! il signor Lanfranconi può disporre di alcuni fucili. Chi di voi ha intenzione di combattere contro i nemici della patria, salga le scale e venga ad armarsi. —
Poco dopo s'ode uno strepito sulle scale. Il Lanfranconi muove incontro ai generosi che accorrono all'appello... e, nell'eccesso del suo entusiasmo, stringe fra le braccia Eugenio che primo si è precipitato nella sala.
Ifigenia si è riavuta dallo svenimento. La voce di un amante è il miglior farmaco per le fanciulle svenute. Eugenio si arresta.. trepidante... confuso. Egli si vergogna di dover rappresentare nella commedia un falso personaggio. Il generoso soldato di Montebello, di Palestro e di Solferino arrossisce di simulare coraggio in un pericolo immaginario.
Per togliere l'amico da una situazione imbarazzante, io dirigo al signor Lanfranconi le seguenti parole: — Voi l'avete abbracciato il bravo, il degno cittadino, il valoroso soldato che mai non mancò all'appello della patria. La reazione, la congiura dell'ex-poliziotto, gli spari che poco dianzi avete uditi, non furono che stratagemmi da me immaginati per riuscire ad un utile scopo. Dove sono in questo momento i Nebbia ed i Trigambi, cui volevate affidare la vostra unica figliuola? Lo sparo d'un girasole bastò a metterli in fuga. Eugenio e i giovani della sua tempra, ecco a cui dovete, o signore, e l'affetto e la stima. Ifigenia non avrà a temere di nulla, quand'ella sia la moglie d'un generoso, pronto a difenderla nell'ora del pericolo col sacrifizio della propria vita. Eugenio s'è battuto nel 48, Eugenio riprese le armi nel 59, Eugenio questa sera istessa, ove la vostra casa fosse davvero minacciata, affronterebbe nuovi pericoli. Ciò che poco dianzi prometteste al signor Nebbia ed al Trigambi in premio del loro coraggio, non lo merita forse l'eroe di Solferino, che può mostrarvi la cicatrice d'una ferita onorevole? —
Il signor Lanfranconi rimane alquanto perplesso. — Voi mi avete giocato un brutto tiro, — esclama egli, — pure non sono malcontento d'aver aperto gli occhi... su certe verità... Basta! scommetto che lord Palmerston e lord Russel... non sono del tutto estranei a questa vostra congiura...
— Lord Palmerston e lord Russel, Gorciacoff e Valeschi, attendono in questo momento un mio dispaccio che loro annunzii: «Il signor Lanfranconi si è liberato dai dottrinari e dagli esaltati, ed ha stretto alleanza coi veri patrioti.»
— Mandate tosto il dispaccio. E se mia figlia è tuttora disposta a sposare... l'eroe di Solferino...
— Ma non vedete che Ifigenia gli ha già stretta la mano, e mostra di intendersela con lui a meraviglia...?
— Figliuoli, — dice con solennità il Lanfranconi, avvicinandosi ad Eugenio ed alla figliuola. — Cedendo alle istanze delle potenze straniere, e mosso altresì da gravi ragioni politiche note a me solamente, benedico al vostro imeneo.
— Eugenio! — esclama Ifigenia, — mio diletto Eugenio! io ti ho sempre amato... ma il giorno in cui ti seppi ferito per la difesa della patria, cominciai ad adorarti...
— Amici, io vi lascio all'ebrezza de' vostri piaceri. Signor Lanfranconi, corro a spedire il dispaccio... a lord Russel, che s'incaricherà di comunicarlo a tutte le corti d'Europa...
— E voi credete che le corti d'Europa ammireranno la mia condotta?
— Sì... purchè a quanto avete fatto stassera aggiungiate un ultimo sacrifizio...
— Dite.... parlate.... Io mi rimetto interamente al consiglio de' miei onorevoli colleghi...
— Ebbene. Quando avrete affidata la vostra Ifigenia alla tutela dell'ottimo Eugenio, ed ella avrà uno sposo pronto a difenderla in ogni cimento, voi provvedete a riordinare di bel nuovo la vostra cascina, ripigliate il commercio degli stracchini, che vi dà un prodotto di lire ventimila ogni anno. Ad Ifigenia ed all'amico Eugenio non nuocerà d'essere ricchi...
— Ma la patria... o signore...!
— La patria ha bisogno di soldati..... e di danari. Credetelo: anche il commercio degli stracchini le gioverà. Così imprendessero a fabbricare stracchini tanti politici ch'io conosco! —
FINE.