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Re per ventiquattrore. Storia d'un giorno della mia vita
In cerca di morte


RE


PER VENTIQUATTRORE


STORIA


D’UN GIORNO DELLA MIA VITA




Perchè la sola storia di un giorno?

E se voi credete che gli avvenimenti della vostra vita possano formare soggetto d’una storia curiosa e dilettevole, perchè non tessere il racconto intero della vostra esistenza?

Io ho supposto nello scrivere la prima linea di queste pagine che qualche lettore mi avrebbe indirizzata una simile domanda.

Devo giustificarmi.

Anzi tutto se la vita vuolsi misurare dagli anni piuttosto che dalle passioni, io non ho fatto finora che un primo passo nella vita. Sappiano le mie lettrici — ed è ad esse specialmente che io rivolgo questa osservazione — che io non ho che ventisette anni, e sono in tutto il vigore della gioventù e della salute: Oltre a ciò la mia esistenza scorse finora sempre uguale, sempre modesta e ignorata, fu una vita come tutte le altre, una lotta del bisogno coll’impotenza, dell’aspirazione col nulla, dell’ideale col fango; — e in mezzo a tutto ciò qualche punto nero e qualche raggio di sole, qualche virtù, qualche vizio, alcune colpe, molti affetti, molte lacrime e molte delusioni — tale è la storia sintetica della mia esistenza.

Ma pure in questo povero dramma della mia vita fuvvi un giorno così splendido, così ricco di avvenimenti bizzarri e insperati, così fertile di piaceri sommi come di sommi dolori, che mi parrebbe non poter essere più in pace con me stesso, se dappoichè mi sono dato al mestiere del letterato, e mi sono proposto di destare nell’anima degli altri un eco delle sensazioni della mia, frodassi l’umanità di un racconto così meraviglioso.

E sento nel cuore una voce che mi dice: non ti si presterà fede, ti si accuserà di menzogna... No miei lettori, no che voi non mi potreste smentire: io vi esporrò il mio racconto con tutta la coscienziosa veracità di uno storico, io non esagererò menomamente l’importanza delle mie avventure, e se queste vi parranno da principio o un poco strane o impossibili, esitate nondimeno a giudicare della loro veracità fino a che non avrete letto compiutamente il mio racconto.

La grande isola di Potikoros giace nell’Oceano equinoziale, al trentesimo grado di latitudine, non molto lontana dal piccolo arcipelago dei Navigatori.

È uno dei punti più meravigliosi della terra: tutte le delizie favolose dell’Eden, i paesaggi incantevoli del Bosforo, le rive stupende del Reno, la vegetazione rigogliosa dell’Asia, le mille meraviglie della natura disseminate qua e colà sulla vasta superficie del globo — tutto ciò riunito e disposto in un punto solo dalla mano maestra del Creatore, potrebbe offrire un’idea ancora assai debole delle bellezze di quel piccolo paradiso sconosciuto che è l’isola di Potikoros.

Ebbene, nel mattino memorabile del ventisette aprile milleottocentosessantadue, io giungeva a quell’isola — il trono di quell’isola era vacante, ed io era l’erede di quel trono.

Premetto uno schiarimento.

Venti anni prima di quell’epoca, mio padre onesto commerciante di cotone, nel recarsi a Caledonia, aveva naufragato sulle coste di Taiti. Dodici viaggiatori si erano salvati con lui sopra una zattera di tavole, e avevano approdato a Potikoros. Erano essi i primi europei che ponessero piede in quell’isola: gli indigeni erano in parte selvaggi, ma umani, la civiltà americana aveva ingentiliti in qualche modo i loro costumi, un trattato di commercio colla piccola repubblica di Tongia li aveva pressochè educati alla vita sociale, e ammaestrati nelle arti e nelle costumanze delle altre nazioni; ma la vanità che è sentimento istintivo nell’uomo li rendeva tenaci nei loro pregiudizii e nelle strane esigenze della loro toeletta — portavano infisso attraverso al naso un osso bianco di balena; e quando mio padre co’ suoi dodici compagni di naufragi chiese loro l’ospitalità e la vita,

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essi, pure annuendo alle loro preghiere, presentarono a ciascuno di loro uno di quegli ornamenti, perchè dessero così la prima prova di sottomissione nell’usarlo.

Vanitosi e timorosi ad un tempo, gli altri europei esitarono, vacillarono, rifiutarono, e gli indigeni li trafissero colle loro freccie; ma mio padre che era uno spirito forte, brandì in aria il suo osso di balena, e gridando! viva l’isola di Potikoros, se lo infisse eroicamente nel naso. Le tribù indigene meravigliate a quell’atto, lo portarono in trionfo sui loro archi e lo elessero a Presidente della repubblica. Un anno dopo mio padre faceva un colpo di stato, e assicurava una corona alla sua dinastia. Quella corona gli era costata il naso, ma non tutti i re si conquistarono un trono a questo prezzo.

Io stava scrivendo un giorno una dissertazione sull’influenza del debito nell’equilibrio sociale, quando fui avvertito che una deputazione d’ambasciatori Potikoresi veniva ad annunciarmi la morte di mio padre e la mia successione al trono di Potikoros,

Tutti coloro che, come l’autore di questa storia, furono condannati al mestiere del letterato, — il pessimo dei mestieri — e giova sperare pel bene dell’umanità che sieno pochi — potranno immaginare la mia contentezza febbrile, mortale, e i trasporti forsennati della mia gioia. Io che aveva disperato sì spesso di me, che aveva sognato come la più gran meta possibile nella mia fortuna quello stato d’imbecillità di mente e di coscienza che sola può recare fama e agiatezza ai letterati in Italia, io che aveva lottato sì a lungo con quell’istinto ribelle di dignità che mi aveva preclusa ogni via, e indarno sempre.... ora ero figlio di un re, e re io stesso, ed erede di un trono.

Non poteva prestar fede a tanta felicità, durai fatica ad accertarmene: affrettai la mia partenza, diedi un ultimo addio ad Elettra!..... (povera creatura!.... Elettra.... essa che mi aveva soccorso sì spesso di pane e di amore) e dopo tre mesi di navigazione, nel mattino del ventisette aprile milleottocentosessantadue, giungeva finalmente all’isola di Potikoros.

Alla distanza di alcune miglia, mi appariva come una vasta conca di fiori emergente dalle acque; alcune isolette disposte qua e là, attorno al mio regno, somigliavano a quelle foglie gigantesche di ninfe che si cullano sulla placida superficie dei nostri laghi: il cielo era alto, sereno, limpidissimo, e si tingeva curvandosi verso l’orizzonte, d’un colore abbagliante di croco e di cinabro: il mare giaceva calmo e maestoso; uno zeffiro profumato ne increspava leggermente la superficie come l’alito che appanna il velo d’una vergine. Innumerevoli stuoli di lire e di uccelli di paradiso s’inseguivano a volo nei punti più luminosi del cielo, e riflettevano i primi raggi del sole colle loro code di argento. Alcune rondini di mare, posatesi sulle gomene della nostra nave festeggiavano il mattino con un trillo vivace e armonioso. Nulla di più incantevole di quella scena, nulla di più celeste di quella musica: i sogni del fanciullo e della vergine non possono immaginare un eden più delizioso, nè i poeti un idillio più puro e più divino.

Quando io potrei rammentare ora delle impressioni di quel mattino non formerebbe che un quadro tanto imperfetto, tanto lontano dal vero, che io temerei quasi di nuocere alla mia descrizione tentando di palesarle, e non lasciandole piuttosto indovinare al lettore. Ma il tumulto che v’era nell’anima mia sarebbe ancora più inesplicabile. Chi potrebbe esprimere le mille sensazioni soavissime che agitavano il mio petto, le mille lusinghe che venivano a blandire la mia vanità; i miei progetti, i miei sogni, tutto ciò che ha accompagnato questa meravigliosa trasformazione di uno scrittorimo povero e conosciuto in un re dovizioso e potente?

Strano prestigio di una corona! Strano potere di far supporre delle virtù sovrumane nella testa spesso insensata che la sostiene! Più volte ho desiderato conoscere se tra gli evviva del popolo, in mezzo alle ovazioni delle folle, allo spettacolo degli archi trionfali e delle moltitudini accorse da lontano per bearsi della loro vista, qualcuno di essi abbia sentito risvegliarglisi in cuore la coscienza della propria nullità, ed abbia o disprezzato, o compianto il suo popolo, e si sia sdegnato di quella stupida e vile ammirazione. E pure, io stesso, io che m’era più volte inacerbito per ciò cogli uomini, non poteva contemplare senza un sentimento di compiacenza il gran cordone dell’ordine dell’Annunziata che mi pendeva sul petto, e che trasfondendo qualche stilla di sangue reale nelle mie vene plebee, mi aveva reso a un tratto cugino di Sua Maestà!... Cugino di Sua Maestà!... Dio, quale onore! Ma io stesso era re, e la prospettiva di una corona rendeva debole e lieve la gioia di quella parentela reale.

Pochi istanti prima di approdare, chiamai a me il mio primo ministro, che pure faceva parte della Commissione Potikorese, e volli essere informato sulle condizioni finanziarie, sull’esercito, sull’indole del mio popolo e sulle costituzioni del mio Stato.

— In quanto alla popolazione che il cielo vi ha chiamato a governare, mi diceva il mio primo ministro, facendosi scorrere tra l’indice e il pollice il suo osso di balena, essa non si divide che in due tribù numerosissime, separate l’una dall’altra per una distinzione speciale della natura, e sono la tribù dei Denti bianchi, e la tribù dei Denti neri.

— Denti neri! io dissi, ma ciò è orribile, i loro denti non saranno tutti assolutamente neri.

— Tutti, rispose il ministro con quella dignitosa impassibilità che gli conferiva l’abitudine della sua carica; e tolga il cielo che io voglia esaltare la tribù cui appartengo — e in ciò dire mi fece osservare con una specie di orgoglio i suoi trentadue denti nerissimi — per deprimere l’altra che pure ha dato dei sudditi valenti a vostro padre; ma i Denti neri sono la metà migliore del vostro Stato.
— E le femmine, aggiunsi, esse pure....

— Sí, ancor esse, toltene le donne del vostro harem che la compianta Serenità di vostro padre scelse tutte esclusivamente dalla nostra tribù dei Denti bianchi.

Io confesso che quest’ultima notizia del mio ministro mi riempì l’animo d’una gioia straordinaria Ah! l’idea di avere un harem inebbriava tutti i miei sensi. È là, io diceva, che mi solleverò dalle cure del mio stato, che mi rifarò ad usura della mia gioventù avvizzita senza piaceri, che mi vendicherò di questa simulata virtù delle nostre donne europee.

Un harem! Cento fanciulle che vi adorano, le bellezze più abbaglianti dell’Asia, le più vezzose creature del mondo che cadranno ad un cenno ai vostri piedi. Sì io dissi, tenterò di risolvere il problema se Sardanapalo sia stato più grande di Alessandro, e se il Sultano sia il più saggio e il più morale di tutti i re della terra.

Dal momento che mi conobbi possessore di un harem mi abbandonai totalmente a questo pensiero, e tentai di richiamarmi alla memoria quanto aveva letto di straordinario e di favoloso su questi ritiri di piacere — la sicura vigilanza degli enunchi, i ventagli di penne di pavone, il molle costume orientale, i tappeti vellutati di Persia, i profumi inebrianti delle Indie, tutto ciò che desta la voluttà e la spinge alla sua massima azione, e al suo massimo sviluppo compatibile colla vita.

Il ministro vedendomi assorto profondamente ne’ miei pensieri, non osava interrompermi; ed io temendo che egli comprendesse il motivo del mio silenzio, e che io vi perdessi non poco della mia dignità reale, mi affrettai a soggiungere con gravità:

— E l’esercito? Quale è l’ordinamento dell’esercito?

— Ottimo in sè, disse il ministro, un poco imbarazzato da questa domanda, ma, veramente, le disparità di tribù, costituiscono un motivo incessante di dissensioni tra l’esercito dei Denti bianchi, e quello dei Denti neri. Perocchè è bene che Vostra Maestà sappia (io mi era rialzato di due pollici nel sentirmi chiamare Maestà) che vi sono due eserciti, come vi sono due tribù, e che la mancanza di un’altra nazione nell’isola colla quale vi sia possibilità di guerreggiare, fa sì che i due eserciti dello stato vengano spesso alle armi tra di loro. È a deplorarsi che la posizione geografica di Potikoros renda assai difficile e assai fortunosa una guerra colle popolazioni del continente, ciò che accrescerebbe di gran lunga il prestigio della corona, e distogliendo il vostro popolo dal desiderio di costituzioni più libere e più progressiste, gioverebbe non poco a consolidare il trono di vostra Maestà.

— Come sarebbe a dire?

— Che la popolazione vuol essere sgomentata dalla coscienza della vostra forza, cioè dalla forza dell’esercito che è tutt’uno; e distolta in altro modo dal desiderio di miglioramenti interni, compromettendone, cioè, gli interessi e i destini colla fortuna d’una guerra.

— Ma sarebbe dunque necessario... le condizioni della monarchia sarebbero tali da.....

— Non dico ciò, riprese il mio ministro visibilmente turbato, ma.... ma veramente.... la sicurezza della corona richiede molte cure, molti provvedimenti, la cui necessità vi sarà nota assai presto. Non vi parlerò di alcune tendenze rivoluzionarie che vostro padre ha dovuto soffocare con molto sangue, e che questa vacanza del trono ha potuto sviluppare sensibilmente.... già le idee repubblicane hanno messo radice in molte teste, ma non sarà difficile il divellerle.

— Le teste? esclamai io inorridito.

— Come piace a vostra Maestà, disse il mio primo ministro, le idee colle teste.

Io confesso che la mia anima, per quanta violenza le abbia fatta in ogni tempo la mia ragione, non ha potuto mai perdere un atomo di quella mitezza imbecille dell’agnello di cui l’ha dotata la natura; ond’è che per dare una diversione a quel discorso sì poco uniforme alle mie inclinazioni benigne, soggiunsi: E quale è il costume dell’esercito?

— Il più semplice, ed il più economico ad un tempo, la nudità: i vostri sudditi non temono in ciò il confronto della razza del continente; ammirerete sopratutto lo sviluppo dei fianchi e del torace nelle femmine, le quali hanno pure adottato in gran parte la semplicità primitiva di questo costume.

— In un paese così economico, io dissi, le finanze dello Stato e dei privati saranno dunque in floride condizioni.

— Tristissime! rispose il mio ministro con accento mortificato; e poichè da questo mio viaggio in Europa, ho desunte alcune cognizioni circa i mezzi di rimediare al dissesto economico dello Stato, ho in animo di proporre quanto prima alla vostra approvazione un progetto per remissione di alcuni miliardi di carta monetata che i vostri sudditi accetteranno con gratitudine.

— E a quanto ascendono le rendite di mio padre?

— Ad una somma considerevole, a parecchie centinaia di milioni, escluso l’appannaggio che vi è assegnato dalla nazione, e che viene pagato puntualmente dalle casse dello Stato.

— E ciò non sembra gravoso al mio popolo?

— Vostra Maestà è novizia nell’arte del governare: basterà visitare uno stabilimento pubblico, un ospedale, un asilo, un istituto qualunque, e assegnargli una volta ogni tanto qualche centinaio di franchi sulla vostra cassetta privata, perchè voi siate creduto il più generoso di tutti i monarchi. Nè ciò potrà diminuire i vostri redditi: i tesori di vostro padre sono i più ricchi di quanti ve ne siano nei reami che noi conosciamo.

— I più ricchi?

— Li ammirerete fra poco: vedrete nella sala dei carboncini, un diamante della grossezza di un uovo d’aquila, che è reputato da noi il più prezioso di quanti sieno sulla terra.

Io non potei contenere a questa notizia un sorriso di compiacenza che non isfuggì all’occhio penetrante del mio degno ministro dai denti neri.

— E quali sono, io chiesi, i doveri principali del re, le sue occupazioni pubbliche?... Voi sapete che io non sono stato educato alla Corte e che il governo d’un regno mi giunge alquanto inaspettato.

Il mio ministro sorrise a questa domanda che gli parve improntata d’una ingenuità affatto puerile, e disse; Le occupazioni di Vostra Maestà sono pressochè insussistenti; il consiglio dei vostri ministri s’incarica della politica interna — poichè la politica estera non ci crea combinazioni di molta importanza, stante i rapporti amichevoli che conserviamo colle nazioni vicine: le vostre attribuzioni si ridurranno alla firma dei decreti concepiti dal Consiglio, a mostrarvi al popolo nelle circostanze solenni, a procreare principi del sangue allo Stato, a recitare al presidente di qualche deputazione un discorso di circostanza che vi sarà composto dal vostro segretario particolare; e finalmente a vigilare sull’ordine, sulla varietà, sul buon andamento del vostro harem ciò che costituisce una delle vostre attribuzioni esclusive.

— Spero, io dissi, di soddisfare a tutti questi mandati, e all’ultimo in ispecial modo, con quello zelo che varrà a meritarmi la simpatia e la gratitudine del mio popolo.

Il mio ministro s’inchinò fino a terra.

Aveva appunto posto termine a questa conversazione nell’istante in cui il bastimento reale gettava l’àncora nel porto di Potikoros che è la capitale dell’isola di questo nome.

Salii allora sulla coperta della nave per ammirare con un più vasto colpo d’occhio le meraviglie naturali del mio regno. Ma la mia attenzione fu distolta da questo esame dalla vista dei preparativi che s’erano fatti pel mio ricevimento solenne. E d’altronde non m’era mostrato ancora a’ miei sudditi, che delle ovazioni fragorose partirono dalla riva che era assiepata tutta di popolo; e centinaia di barche ornate di stoffe a vivi colori e di penne preziose di marabù vennero ad attorniare la mia nave. Mi fu forza discendere in una di essa, ove si trovavano riuniti i miei ministri, e che per essere ornata dello stemma monarchico, conobbi che era destinata alla mia persona. Lo stemma reale (poichè quello della repubblica era stato atterrato da mio padre) consisteva in un elissi diviso da un fusto di palmizio in due campi, come da una sbarra; nell’uno di essi era rappresentato un braccio che brandiva uno di quegli ossi di balena già nominati a memoria dell’atto ardimentoso che aveva procurato il trono a mio padre; nell’altro vi era un merlo nero che, come seppi più tardi dal mio ufficiale araldico, vi era stato posto in onore di un uccello di questa famiglia, che il re defunto aveva fatto venire dall’Europa, e che aveva formato la meravi-glia de’ suoi sudditi, non essendovi in tutta l’isola di Potikoros che dei merli bianchi come la giuncata.

Non starò a parlare dell’imbarazzo in cui mi sono trovato per rispondere alle numerose domande che mi venivano fatte da’ miei ministri e dalle deputazioni delle città secondarie del mio regno. Si era bensì pensato a mettere nel mio seguito alcuni interpreti, ma il concetto di queste domande era sì oscuro, e mi erano formulate in modo sì singolare, che io mi trovava sulle spine a rispondervi. Aveva appena posto piede nella mia lancia, che un grido prolungato del popolo e dell’esercito salutò il mio arrivo, e avendo io interrogato uno de’ miei interpreti sul significato di quel grido, seppi che esso voleva dire; «ben venga il nostro re che è arrivato dal paese dei merli neri.»

Io m’inchinai rispettosamente dinanzi alla folla assembrata sulle zattere e lungo la spiaggia, e vi fu un momento in cui mi sentii il prurito di arringare la moltitudine e di guadagnarmene la simpatia facendo l’elogio dei merli bianchi, ma il bisogno di servirmi degli interpreti che avrebbero ammorzato colla loro lentezza tutto il mio fuoco oratorio, me ne distolse. E d’altronde la folla era tanta e il baccano sì assordante, che la mia voce vi si sarebbe perduta senza frutto.

Di mano in mano, che aprendoci a stento una via tra le barche, ci andavamo avvicinando alla riva, lo spettacolo diventava più imponente, ed il fragore cresceva per modo che le mie povere orecchie ne erano letteralmente assordate. Il grido di: «viva il re che viene dal paese dei merli neri!» era ripetuto da tutte le bocche; e le dame Potikoresi specialmente lo strillavano con certe voci da soprano in modo da farmi rizzare sulla testa ad uno ad uno tutti i miei capelli reali.

Come Dio volle, noi giungemmo finalmente alla riva, ove mi soffermai un istante ad osservare gli apparecchi della mia incoronazione e i due eserciti schierati lungo la spiaggia. E qui non potrei dire l’impressione inattesa che provai alla vista del mio esercito. I Denti neri pei quali mi era sembrato che avrei dovuto provare un orrore insuperabile, avevano aspetto sì dolce, sì mite, sì affettuoso che mi sentii subito attratto verso di essi da una forza di simpatia irresistibile, mentre i Denti bianchi mi parvero d’indole sì ribelle, sì feroce, sì fiera che ne fui quasi atterrito.

Quei denti lunghi, affilati, bianchi, orribilmente bianchi, scoperti fino alla radice dal labbro un po’ rovesciato, acuminati e curvi verso la punta come i canini, parevano fatti per afferrare, per mordere, per lacerare la carne viva, palpitante — davano ai loro visi un’apparenza orribilmente ferina. I denti neri, pel contrario, tozzi, brevi, quadrati, bene incassati e coperti dalla gengiva, promettevano indole e tendenze sì mansuete, che avrei dato metà l’isola di Potikoros perchè il mio regno non fosse stato popolato che di quella razza.

Più tardi, quando rientrai nella vita privata, ho fatto delle numerose esperienze sul colorito dei denti, e sulla natura dei caratteri relativi. Non so se Lavater e Gall abbiano esteso anche a ciò i loro studi, ma io credo di non essermi mai ingannato sui rapporti che ho fatti e sulle deduzioni che ho tratte in proposito. Diffidate di quelle persone che hanno i denti bianchi e regolari, ma sopratutto bianchi. Difficilmente una donna munita di denti piccolissimi, ben fatti, candidi di quella candidezza abbagliante che esse ambiscono tanto, è una donna saggia e fedele. Le bellezze più famigerate, le cortigiane più celebri, le donne più note per grandi vizii o per grandi delitti ebbero, tutte indistintamente, un pregio siffatto.

I denti neri o ingialliti, mal collocati, indicano quasi sempre mitezza d’animo, sofferenza, virtù, rassegnazione. Una donna dai denti neri sarà ributtante, ma mai cattiva: si può essere sicuri della virtù di una donna munita di tali denti.

Ma forse l’aver io perduto un regno per causa d’uomini muniti di denti bianchi mi ha tratto a queste convinzioni e a questo ostinato assolutismo nell’affermarle — desidero di essere smentito. Certo è però che appena io vidi quella metà del mio esercito, conobbi che non sarei rimasto sicuro sul mio trono; e pensai con dolore a quelle parole che mi aveva detto il mio primo ministro, che, cioè, i Denti neri costituivano la migliore metà del mio regno.

E stava meditando appunto su questo pensiero, quando mi parve di scorgere che il mio primo ministro e gli altri onorevoli membri componenti la commissione gettassero sguardi inquieti sulla riva e specialmente sulle file dell’esercito dei Denti bianchi, interrogandosi e parlandosi a vicenda con qualche inquietudine.

Per altro lato le file di quell’esercito apparivano sì diradate, e il contegno dei soldati sì provocante e sì fiero che io, sospettando di qualche disordine, domandai le ragioni di quel contegno dell’armata e di quel discorrere caloroso de’ miei ministri.

— Sono dolente, disse uno de’ miei ufficiali, di dover comunicare a Vostra Maestà una notizia alquanto spiacevole. Sono scoppiati dei torbidi in alcune provincie dello Stato, e una buona metà dell’esercito dei Denti bianchi si è ribellata al governo. L’altra metà che voi vedete, pende esitante tra il favorire la vostra installazione sul trono o congiungersi ai ribelli. I soli Denti neri rimangono fedeli a Vostra Maestà, ma il loro valore non è pari a quello dell’altra metà dell’esercito. Bisognerà affrettare la vostra incoronazione. Questa solennità acquieterà tutti i tumulti, questo fatto compiuto troncherà le esitanze di tutti quelli che non sanno tuttora se darsi alla monarchia, o secondare le idee repubblicane delle provincie sollevate. Ci giunge anche notizia che in alcuni luoghi siano stati abbattuti gli stemmi reali, e deturpato il sacro merlo nero che ne formava l’impresa, ma si è provveduto a che sieno presto ricollocati. Allorchè, appena compiuta la vostra incoronazione, Vostra Maestà sarà entrata nella sala del Tribunale solenne, come richiede l’usanza, e avrà pronunciato giudizio sui delitti consumati nella giornata, l’esercito e la popolazione, compresi dalla vostra saggezza, non opporranno altro ostacolo alla vostra ascensione sul trono.

— Mio Dio! io dissi, sotto quali tristi auspici incomincia il mio regno! Ancora non ho posto piede sulle rive de’ miei dominii che una fiera ribellione ne agita metà le provincie, e la parte più valorosa dell’esercito mi abbandona per appoggiarne la rivolta.... Ma andiamo, io proseguii con voce più ferma andiamo a compiere — se ciò s’ha a far subito — questa formalità dell’incoronazione; e quindi se il prode esercito dei Denti neri presterà il suo braccio alla monarchia, non dispero con esso solo di sottomettere i ribelli, di consolidare il mio trono, e di conservare intatte le sacre costituzioni del paese.

— Andiamo, ripeterono in coro i miei ministri facendo atto di adesione alle mie parole.

E uno degli ufficiali aggiunse; l’incoronazione potrà compiersi sul momento: tutto è preparato, il paludamento reale, la corona, il sacro osso nasale....

— Il sacro osso nasale!... interruppi io trasalendo, come sarebbe a dire?

— L’osso di balena che Vostra Maestà introdurrà nelle sue narici reali.

— Nelle mie narici!

— È la consuetudine del paese, è l’obbligo essenziale del re. Vostro padre....

— Lo so, lo so, io interruppi, non proseguite.... ma quale orrore! esclamai fra me stesso e io non ci aveva pensato... ma ciò è impossibile... il mio naso.... il mio naso greco! il più puro naso greco che io abbia mai veduto.... ah! io mi ribellerò a questa abitudine crudele, a questa tortura terribile. Se io tornassi in Europa! Se la ribellione mi privasse del mio regno.... tornarci col naso forato, trapassato da un osso di balena... no, no, ciò non può essere

E rivoltomi a’ miei ministri dissi loro, dissimulando quanto poteva il mio spavento: illustrissimi signori, io sono felice di procedere sull’istante alla mia incoronazione, ma è occorsa credo una cattiva intelligenza in proposito... desidererei... bramerei, se ciò è possibile, che si indugiasse alcuni giorni per ciò che riguarda la formalità dell’osso nasale: una fiera costipazione, un potente raffreddore che mi sono buscato lungo il viaggio, l’infiammazione delle pareti interne delle narici rendono senza dubbio questa operazione alquanto pericolosa; pregherei l’eccellentissimo ministro che mi ha accompagnato fino a Potikoros a voler far conoscere a’ miei sudditi questo desiderio, e disporli all’indugio che è mia intenzione di frapporre al compimento di una formalità, di cui per altro mi tengo altamente onorato.

A queste parole i miei ministri si guardarono nel bianco degli occhi esterrefatti, e il ministro della Guerra in ispecial modo diede non dubbii segni della sua meraviglia e della sua disapprovazione.

Io ammutoliva per vergogna.

Dopo un istante di silenzio il mio primo ministro rispose: noi siamo profondamente convinti della verità delle giustificazioni addotte da Vostra Maestà, ma non sarà molto agevole il convincerne l’armata ed il popolo. La solennità che doveva compiersi oggi, ha radunato qui una buona metà della popolazione di Potikoros, nè credo che essa vorrà partirne senza avervi assistito. Cotesto rifiuto può essere interpretato in un senso poco favorevole ed essere causa di disordini non lievi nel regno. In quanto a me, non mi attento a sfidare il furore del popolo, esponendogli il desiderio reale che Vostra Maestà mi ha fatto ora l’onore di manifestare.

A questo diniego inatteso io mi sentii venir meno, e trovai appena la forza di aggiungere: se io stesso devo mostrarmi a’ miei sudditi.... se posso arringarli io in persona, non dispero di convincerli della verità delle mie asserzioni.... Perchè il mio naso.... la mia mucosa.... E in quell’istante essendomi balenata alla mente un’idea stupenda, mi avvicinai al mio primo ministro e gli mormorai all’orecchio: persuadetene la popolazione, disponetela ad attendere, ed io vi affiderò il comando della più florida provincia del regno, vi decorerò del gran Cordone del Merlo nero.... E aggiunsi fra me stesso: se posso uscirne col naso intatto dimetterò sull’istante questi ministri, rifarò il mio gabinetto, allontanerò da me questi sudditi ribelli e corruttibili.

Il mio ministro cedette di fatto, come mi era lusingato, a quel tentativo. Rivoltosi al mio seguito disse; veramente.... l’interesse, la quiete dello stato ci impongono di accordare a sua Maestà l’indugio di cui ci richiede. Il momento è grave. Disposto al sacrificio della mia popolarità pel bene del paese, io sono deciso ad arringare il popolo circa i motivi che impediscono temporariamente l’attuazione di questa operazione importante: piaccia al cielo che le mie parole siano ben accolte e credute!

Quindi rivoltosi a me che in quel frattempo era salito sopra una specie di carro destinato a recarmi sul luogo dell’incoronazione, aggiunse: andiamo. E ci riponemmo in viaggio.

Attraversammo un buon tratto di strada tra le ovazioni vivissime della folla; e giungemmo in breve tempo ad un piccolo rialzo di terra sul quale era innalzato il mio padiglione. Tutta la campagna circostante era gremita di popolo; le dame Potikoresi vestite di un costume assai semplice, spesso di un costume affatto adamitico, stavano raccolte a gruppi sotto i padiglioni naturali che formavano le palme e i banani. Alberi giganteschi di paradiso attorniavano il recinto del luogo destinato alla mia incoronazione, e sovr’essi frotte di fanciulli a cavalcioni qua e là lungo i rami suonavano certi loro strumenti di cocco che producevano un rumore indiavolato. Da quel rialzo di terra si aprivano allo sguardo orizzonti stupendi; da un lato, il mare seminato in ogni punto di isolette quasi impercettibili e tutte verdi per la vegetazione più rigogliosa; dall’altro, campagne sterminate, pianure solcate da fiumi, colli ricoperti di boschi, montagne rivestite di eriche gigantesche; e sovra tutto ciò, il cielo stupendo del tropico, il cielo alto, sereno, sempre infuocato di quella terra prediletta dal sole.

Ma io era in preda ad impressioni che moveano da cause ben diverse. Il timore che i miei sudditi volessero esigere sull’istante il compimento di tutte le formalità richieste per la mia incoronazione, il pensiero che, ove pure mi fosse stato accordato tale indugio, io non avrei potuto sottrarmi col tempo all’esigenza di quella moda crudele; e poi la ribellione delle mie provincie, la rivolta dell’esercito, le diserzioni, la poca devozione dei miei ministri, tutto ciò veniva ad amareggiare la mia gioia per modo che fui più volte in procinto di rimpiangere la mia vita modesta, ma libera, di letterato.

E per altro lato, ove avessi potuto superare questi ostacoli, quanti piaceri mi aspettavano! La mia stupenda posizione anzitutto; e poi quel lusso, quello sfarzo, quello spensierirsi continuo; e l’harem, l’harem più d’ogni altra cosa; e quel costume sì grazioso, sì semplice, sì stuzzicante delle dame Potikoresi.... tutto ciò era pur preferibile all’oscura aridità della mia gioventù trascorsa.

In preda a questi pensieri io era entrato nel ricco padiglione, ove doveva essere incoronato, e donde sarei stato condotto alla reggia.

Le soprese più grate mi attendevano in quel luogo. Oltre i doni ricchissimi in verghe d’oro e d’argento, e in grosse pietre preziose che mi erano state inviate dalle provinci e fedeli del regno, le fanciulle del mio serraglio mi avevano mandato un’ambasciata di dodici delle più belle tra loro, incaricate di ricevermi e prestarmi ogni sorta di servigi nel padiglione. Io non aveva veduto mai bellezze più abbaglianti, nè è possibile che possa manifestare l’emozione che provai a quella vista.

Il loro abito orientale era tutto ornato di lanugine di cigno e di perle, i loro calzoncini di seta azzurra erano stretti alla caviglia piccola e asciutta da un laccio magnifico a fiocchi d’oro, i loro piedini chiusi in scarpette a ricami erano sì piccini che potevano essere contenuti nella mia mano; tutte le loro forme erano ad un tempo sì piene e sì delicate, e spiravano tanta voluttà che io non aveva mai veduto, o immaginato soltanto, creature più graziose e più seducenti.

Ma una ve n’era sovra tutte che colpì in ispecial modo la mia immaginazione. È impossibile il dire quanto ella fosse bella, forse anche impossibile lo immaginarlo: la bianchezza del suo viso era quasi luminosa — abbagliava: le sue fattezze, i suoi profili si perdevano in una specie di vaporosità leggermente rosata; i suoi capelli erano sì sottili, sì neri e sì lucenti che ondeggiavano sotto l’azione della luce come un drappo serico; e mentre io stava contemplando quel prodigio di avvenenza, essa mi si appressò timida e sorridente, e dopo aver pronunciato alcune parole in lingua Potikorese che mi riuscirono per ciò inintelligibili, asciugò il sudore che mi stillava dalla fronte con un suo fazzolettino che non era più voluminoso di una tela di ragno, ed esalava tutti i profumi più inebbrianti. Animato da tanta affabilità, e più ancora dal pensiero che io era re e che quella divina creatura era mia, trovai il coraggio di dirle: Come vi chiamate?

— Opala, diss’ella, la più affezionata e la più fedele delle vostre schiave.

E pronunciò questa parole nella mia lingua.

— Voi non siete nativa del mio regno? le chiesi io meravigliato.

— No, disse la fanciulla. La defunta Serenità di vostro padre mi portò seco bambina dall’Oriente, e mi apprese la lingua e i costumi della vostra nazione. Egli mi onorava particolarmente della sua affezione, e mi ha conferito una speciale autorità sulle donne del vostro serraglio.

— Mio padre, esclamai tra me stesso, non aveva gusti depravati, non aveva deficienza di senso estetico... una così bella creatura! Ma egli doveva aver passato i sessant’anni... è impossibile... E rivoltomi ad Opala le dissi: Mio padre vi amava?

— Molto.

— Di che affetto?

Il volto di Opala si coprì d’un vivace rossore. Io che capiva a stento in me stesso, non seppi trattenermi dall’abbracciarla, esclamando: io pure vi amerò molto, io vi lascierò intatta l’autorità conferitavi da mio padre. Dio mio! voi siete sì bella!... voi sarete la mia prediletta e la mia regina.

— È egli vero? disse Opala.

— Quante è vero l’affetto che sente già il mio cuore per voi.

— Per me! la vostra schiava....

— Non dite così, interruppi io — e in quell’istante osservai che le altre donne si ritiravano inchinandosi e ci lasciavano soli — dite la vostra amante, la vostra sposa; trovate, se potete, una parola sì dolce che valga ad esprimere ciò che voi sarete per me.

Opala si gittò alle mie ginocchia, e abbracciandole disse: Grazie, grazie, io pure vi amerò; io languiva qui così sola, così abbandonata... perchè vostro padre.... era sì vecchio vostro padre... e sì stizzoso! Voi siete tutt’altra cosa. Perchè io non era stata educata qui, in quest’isola... oh! sì, io vi amerò molto, non vivrò che per voi; e dormirò sul vostro tappeto, vi darò a bere il sorbetto colla mia bocca, vi solleticherò colle penne del mio ventaglio, vi farò riposare la testa sulle ginocchia, vedrete, vedrete!

— Oh buona creatura! io dissi tra me stesso, sarei pur felice con te. E pensai: se fosse possibile abbandonare il mio regno, fuggire con questa fanciulla, portar meco i tesori di mio padre, quel diamante favoloso, queste verghe d’oro... e non veder più questi Denti bianchi, questi Denti neri... questi odiosi ministri... sottrarmi ad un supplizio spietato.... E mosso da un trasporto di affetto sincero, aggiunsi abbracciandola e sollevandola: sì, mia diletta fanciulla, se io potessi fuggire con te, portarti meco nella mia patria!... perchè devi sapere che mi si vuole già ritogliere il regno, che si pretende deturparmi il viso, forarmi il naso, il mio naso greco, il naso caratteristico della mia famiglia... E poi...

Ma in quell’istante un fracasso terribile venne a troncare le mie parole. Io mi rivolsi e vidi il primo ministro che entrava ansante impallidito nel padiglione, e dietro ad esso alcuni ufficiali di Corte, uno dei quali mi disse: avvengono dei gravi disordini; è necessario che Vostra Maestà si affretti ad installarsi nella reggia; alla sua incoronazione si penserà dopo... Il popolo non ha prestato fede alle parole dell’onorevole ministro che voleva giustificare il diniego di Vostra Maestà a subire tutte le formalità di questa incoronazione. Indarno egli ha asserito che ella ne è impedita da un raffreddore potente, che ha inteso egli stesso lungo il viaggio dei fragorosi starnuti reali.... non gli si è creduto: il sentimento nazionale è scosso profondamente da questa notizia, e il rimanente dell’esercito dei Denti bianchi ha abbandonato senz’altro le sue bandiere per congiungersi alle file dei ribelli. Bisogna affrettare l’entrata nella capitale finchè la reazione non si è organizzata, e non si è posta in grado d’impedirlo. I Denti neri sono per noi; ove il giudizio pubblico che vostra maestà presiederà oggi, incontri il favore popolare, le sorti della monarchia possono essere ancora rassicurate.

— Io ho potuto, dissi allora, sollevandomi di tutta la persona, animato da non so qual forza interna, io ho potuto forse mostrarmi debole d’innanzi ad un’esigenza cui le abitudini contratte nella mia patria mi rendevano un poco ripugnante, ma non lo sarò mai d’innanzi agli uomini che vogliono spogliarmi del regno, privarmi dei sacri diritti che mi sono stati trasmessi da mio padre. Se non potrò sedere sul trono di Potikoros, saprò almeno morire difendendolo,

E affacciandomi all’uscio del padiglione, e guardando con occhi torvi la folla, esclamai con voce più alta; recatemi le mie armi e il mio cavallo, che io indossi il mio paludamento reale, tutti i miei distintivi di re, e la corona, aggiunsi prendendomela e posandomela sul capo; saprò ben io difenderla da chi si attentasse a tormela.

I miei ministri e i miei ufficiali meravigliati da tanto ardimento mi fecero recare in fretta il mio cavallo, e mi aiutarono ad indossare i miei distintivi. Dopo che, fiero del mio coraggio, balzai in sella colla spigliatezza d’un giocoliere e mi avviai in mezzo ad essi alla capitale del regno, e alla reggia.

Ma il coraggio veníami meno lungo la via,

L’accoglienza poco lusinghiera della popolazione, il freddo contegno de’ miei ministri, le urla selvaggie dei ribelli, quei crocchi di Denti bianchi che incontravamo ad ogni istante sul nostro passaggio mi facevano venire la pelle anserina, o ciò che si dice più comunemente la pelle di oca, come se la mia sacra epidermide reale fosse stata l’epidermide del più volgare e del più ignobile de’ miei sudditi. E tentando di dare come poteva meglio una diversione qualunque alle mie idee, immaginava come le ocche debbano trovarsi in uno stato di spavento incessante se quel fenomeno della loro pelle è continuo, e mi sentiva tratto da un sentimento di pietà, a commiserarle. Che se così non fosse, come potremmo noi esprimere, volendo attenerci strettamente alla medesima frase, lo stato di spavento in un’oca? Potremmo forse dire che l’oca ha la pelle di oca?

Io comprendo ora come il quesito che andava formulando in quel doloroso viaggio a me stesso, fosse meno ancora che puerile e non consentaneo alla mia dignità di monarca; pure confesso che me ne trovava imbarazzato, e che fu in virtù di quell’imbarazzo che giunsi alla reggia senza che i motivi di terrore che mi circondavano, avessero potuto cagionare in me dei fenomeni più sensibili e più complicati.

La reggia era un edificio stupendo; tutte le meraviglie, tutte le delizie, tutte le ricchezze dell’Oriente vi erano state accumulate a larga mano.

Mio padre aveva saputo conciliare fastosamente la mollezza dei costumi orientali colla severa grandiosità dell’architettura europea. Non credo vi sieno in Europa reggie o palazzi di privati più eleganti; certo io non aveva nè veduto, nè immaginato mai edificio più sontuoso e più splendido. Quantunque le pareti fossero tutte in legno di noce d’India, gli intagli erano sì stupendi, e le decorazioni in oro, in avorio e in argento eseguite sì maestrevolmente, e con tanta grandiosità di dimensioni, che le proporzioni del fabbricato e l’eleganza di quegli ornati non erano inferiori a quelli di qualunque casa europea.

Il mio appartamento speciale era uno di quei ritiri incantevoli che si sognano a quattordici anni, di cui spesso non si ha neppure la facoltà di concepire un’idea, uno di quegli edifici che l’architettura nostra costretta nei limiti inesorabili dell’arte e delle sue tradizioni, non avrebbe mai lo slancio e l’ardimento necessario a creare. Io vi rimasi sventuratamente sì poco che non potrei darne una descrizione dettagliata. Non ho serbato memoria che delle stelle mobili che si perdevano nell’azzurro del soffitto di cui non si vedeva il fine, e che gettavano onde di luce abbagliante del colore dello smeraldo. Forse in quel cielo artificiale era rappresentato un intero sistema planetario, co’ suoi fenomeni, colle sue orbite, con tutte le sue leggi di evoluzioni. Ricordo il pavimento elastico e semovente, tutto tempestato di rubini, la cui azione di elasticità era combinata per modo, che cedendo dolcemente sotto la pressione del piede e rialzandolo tosto per forza propria, rendeva affatto nulla la fatica del camminare, in guisa che vi si avrebbe potuto passeggiare delle intere giornate senza provare il menomo sintomo di stanchezza.

Mi sovvengono pure alla memoria alcune specie di incensieri che appesi a certi arpioni d’oro massiccio sporgenti dalle pareti, si dondolavano per moto proprio; ed emettevano un vapore profumato, in mezzo alle cui spire volteggiavano delle figurine nude, le quali cambiavano forma e colore ad ogni istante, e giunte ad una certa altezza, si assottigliavano e si scioglievano in fumo. Le esalazioni di quei turiboli agivano sì potentemente sui sensi che io mi sentiva come preso da ebbrezza, nè poteva prestare attenzione al canto soavissimo di certi uccelli che non vedeva, ma che pensai dovessero essere rinchiusi in una gabbia sospesa nell’azzurro del soffitto.

Non parlerò del mio letto, del mio trono, di tutti i mobili delle mie stanze; sarebbe impossibile dirne la foggia, l’uso, i dettagli; erano pelliccie sovrapposte a pellicce, tramezzate di strati di petali di rosa che si mutavano ogni giorno: le sedie si cullavano da sè, volendo ristavano: e le dame di corte — le più attraenti beltà di Potikoros — avvolte in un semplice velo color di rosa, andavano e venivano per le stanze, ansiose di sorprendere ogni mio più piccolo desiderio, ogni mio bisogno più insussistente, e soddisfarlo colla rapidità del pensiero.

Appena posto piede nel mio gabinetto particolare, alcune di queste dame mi presentarono il mio nuovo costume di monarca, e si accinsero a spogliarmi del mio abito di borghese (sotto il mantello reale che avea indossato nel padiglione, io vestiva ancora in quell’istante un abito a coda di rondine, di cui non avevo per anco soddisfatto il conto al mio sarto) per mettermi in grado di presiedere al giudizio popolare in tutta l’imponenza, e in tutto lo splendore della mia carica.

Ma il mio pudore non mi permetteva di cedere all’invito di quelle dame rispettabili; io mi sentivo salire il rossore fino alla punta del naso; e mi provai a far loro conoscere la mia ripugnanza con un discorso di questo genere:

— Egregie signore... compitissime signore... le mie abitudini di toeletta;... il rispetto che io nutro per le loro persone... non mi permettono di mostrarmi qui in tutta la semplicità del mio costume naturale... e oltre ciò, i miei arnesi di biancheria, le mie mutande... in un viaggio sì lungo... senza la risorsa del bucato... esse capiranno....

E stava per aggiungere peggio, ma mi avvidi che nessuna di esse intendeva la lingua del mio paese; e non potendo far di meglio, lasciai fare, con quanta confusione da mia parte, permetto a’ miei lettori di immaginarlo.

Quando mi trovai vestito, attilato, serrato, come in una morsa, dalle cinture di quell’abito tutto ornato di lamine di metallo e di perle, avendo chiesto dell’ora fissata pel giudizio pubblico, e avendo osservato nel mio orologio, (un vecchio orologio di Ginevra che aveva avuto cura di regolare sul meridiano di Potikoros) che vi mancava una buona mezz’ora, chiesi di essere condotto al mio serraglio; e mi vi avviai in mezzo alle persone del mio seguito, parte delle quali mi precedevano agitando dei grossi ventagli di piume, e parte recando con sè alcuni di quegli incensieri che aveva già veduto nelle mie stanze.

Dio! dove troverò io espressioni sì eloquenti che bastino a manifestare la sorpresa, la meraviglia che provai alla vista del mio serraglio! Io era rimasto muto ed estatico. Appena ebbi la forza di pronunciare alcune parole per accomiatare gli onorevoli ufficiali della mia casa che mi vi avevano accompagnato.

Non farò una descrizione di quel luogo: sarebbe impossibile. L’eleganza, la mollezza, il lusso del mio apartamento erano uno sfarzo meschino a confronto della magnificenza di quello, tutto si confondeva in un’onda immensa di luce: era una di quelle illusioni ottiche che si provano nei sogni da fanciullo; qualche cosa di simile a quelle visioni che si ottengono a quell’età, vellicando le pupille col rovescio della mano.

Qua e là negli interstizii d’un lungo colonnato erano appese delle reticelle di seta ripiene di veli e di pizzi, dentro le quali alcune delle mie fanciulle vestite in quel semplice e delizioso costume di Potikoros, si dondolavano agitando i loro piccoli ventagli. Altre stavano sedute su certi divani di raso azzurro, raccontandosi novelle di fate e di genii; altre mangiucchiavano confetti o coccole profumate, di cui mordevano la buccia coi loro dentini (credo aver detto che le donne del serraglio erano tolte tutte dalla tribù dei Denti bianchi) altre infine giuocavano con dei veli, con delle piume; o imbeccavano delle tortorelle che erano grandi quanto uno dei nostri scriccioli, e dei piccoli colibrì che non erano più grossi d’una farfalla.

Opala (io l’aveva cercata collo sguardo appena posto piede in quel santuario) Opala già mutata d’abbigliamento e raggiante della bellezza più attraente, era seduta sopra un seggio più elevato, una specie di trono che occupava per segno di distinzione.

La sua testa graziosa si riposava in attitudine di pensiero sopra un soffice guancialetto di velluto; i suoi piedini rinchiusi in una pianella impercettibile d’un tessuto serico quasi trasparente, posavano riuniti e composti sopra uno sgabellino d’oro e di avorio, le sue mani piene di una tacita voluttà le pendevano giù pei fianchi in atteggiamento di abbandono, e le sue lunghe palpebre mezzo socchiuse non lasciavano ben indovinare s’ella dormisse o sonnecchiasse per vezzo fantasticando.

Al rumore de’ miei passi (nessuna pianella del mio guardaroba reale avendo potuto calzare al mio piede, io portava tuttora il mio unico pajo di mezzi stivali a doppia suola), Opala si scosse, e vedutomi, scivolò giù dal suo trono, e venne ad inginocchiarsi a miei piedi.

A quella vista tutte le reticelle sospese si abbassarono, non so come, fino al pavimento; le fanciulle ne uscirono così abbigliate come erano, e si prostrarono esse pure ad una breve distanza da noi. Una musica divina e sommessa incominciò in quel momento a farsi udire nel serraglio, e ad elettrizzarmi colle sue note.

— Nobili dame, io dissi rialzando Opala, e rivolgendomi alle altre, cui accennai di fare altrettanto, prego.... insisto perchè esse si alzino; qui non vi è etichetta di Corte, non vi sono leggi di convenienze... Prego a voler considerare la mia persona reale come la persona di un semplice amico, come una persona di famiglia... già; intendo introdurre delle modificazioni nel regime interno di questa nostra società... voglio dire delle leggi d’uguaglianza una parità di diritti, un equa ripartizione di....

E non venendomi al balzo la parola che calzasse a dovere, temendo di prometter troppo, e desiderando per altro lato di trovarmi qualche istante solo con Opala, aggiunsi: già... so ben io quel che intendo di fare... Le prego intanto di risalire nelle loro reticelle, nei loro nidi... le prego a rioccupare i loro divani... io mi farò un dovere di venire più tardi.... col tempo... appena lo permetteranno le gravose esigenze della mia carica, a rendere a ciascuna di esse l’omaggio del mio rispetto e della mia ammirazione.

Fui grato alla Serenità di mio padre di aver introdotto nel sistema educativo del serraglio l’insegnamento della lingua del mio paese, poichè tutte quelle mie fanciulle, risalirono all’istante nelle loro reticelle; e Opala, prevenendo i miei desiderii, mi prese per mano e mi condusse nel suo gabinetto particolare.

Ci sedemmo sopra un soffice tappeto di Persia. Io era sì stanco per le fatiche della giornata, e sì turbato da tutte quelle apprensioni d’ogni genere, che quello stato di prostrazione m’induceva quasi per bisogno alla tenerezza e ad una espansione confidente e sincera.

— Quanto siete buona! io dissi ad Opala abbracciandola, quanto siete bella! Divina creatura! Voi mi avete preceduto in questa reggia, dove io non rimarrò forse molto tempo, e d’onde non mi sarebbe doloroso l’allontanarmi, se non fosse pel pensiero della vostra perdita. Non credeva di trovarvi subito qui, ve ne ringrazio; aveva proprio bisogno di sollevarmi un poco con voi dalle cure dolorose del mio Stato.

— Io posso tanto sul vostro cuore? — disse la fanciulla — quanto ve ne sono grata! Oh, voi siete sì diverso da vostro... era sì nojoso vostro padre. Non amava che di farsi raccontare delle novelle, di passeggiare su e giù per le nostre sale, di regalarci qualche balocco, di farsi accompagnare a braccetto fino alla soglia del suo appartamento, di farsi reggere da noi la coda dell’abito.... Era insoffribile, perdonate, ma era insoffribile.... Già, credo che avesse settant’anni.

— Pressapoco.

— Ecco! Ma voi siete sì giovine, sì bello, sì vivace. Non sapete... io tremava vedendovi nel padiglione... temeva che vi si volesse costringere a subire quella barbara usanza del nostro paese. Non che mi impaurisse il pensiero che aveste a perdere il vostro trono, giacchè vi avrei amato lo stesso, e voi mi avreste amata ancora di più; ma tremava per me medesima.. mi avrebbe fatto ripugnanza vedervi col naso forato, vi avrei abbracciato con dispiacere. Se aveste veduto vostro padre... che figura faceva vostro padre col naso così trapassato da quell’osso! Ma... ora come farete a sottrarvi a quel supplizio? Vi siete rifiutato di acconsentirvi?

— Sì.

— E credete di poter sfuggire all’adempimento di quest’obbligo crudele?

— Non so, diss’io, ma per fermo sono risoluto a niegarmivi. Tanto più che voi mi preferite così, che non mi amereste altrimenti....

— Oh sì, sì, disse la fanciulla abbracciandomi con innocente civetteria, non voglio, io, che vi si guasti il naso, questo naso greco, questo naso così grazioso.... Ma del resto io vi amerei in tutti i modi. E se voi doveste abbandonare quest’isola io vi seguirei lo stesso. Non è vero che voi mi permettereste di seguirvi?

— Son io, dissi, che vi seguirei, che perdendo il mio regno, troverei un compenso adeguato nell’acquisto che potrei fare del vostro amore. Perchè.. soltanto che voi mi amiate, che siate disposta a rifuggirvi meco nel mio paese, io avrò la forza di oppormi a tutte le torture che mi minacciano. Credo che i tesori di mio padre superino di gran lunga le più ricche fortune che ci sono in Europa e in quanto ai mezzi di rimpatriare, i miei ministri sono abbastanza corruttibili — come tutti i ministri che ho conosciuto nel mio paese — per lusingarmi che vorranno accordarmeli.

— Quanto sarei contenta di venire con voi nel vostro paese! Non crediate già che noi siamo felici qui dentro. Non amiamo nessuno, noi; non siamo amate da nessuno: io per esempio mi reputava assai sventurata prima di vedervi; ed ora... sento bene che sarò felicissima con voi, tanto più se lungi di qui, perchè... queste dame... ve ne sono delle graziose, delle più avvenenti di me....

— Non è possibile, io dissi con asseveranza.

— Oh, sì, diss’ella ve ne sono delle più graziose... e voi le amereste.

— Mai.

— Voi le amereste.

— E via, diss’io abbracciandola, non pensate a queste cose.

— Una scena di gelosia, a quest’ora, ruminava intanto tra me stesso; e vedendo che Opala aveva gli occhi inumiditi di lacrime, pensai di dare una diversione più lieta al nostro discorso. Ma non trovava argomento di una diversione che tornasse anche acconcia a’ miei disegni. Cambiai argomentazioni di sbalzo.

— Che occhi furbi che avete, le dissi affissandola con aria che stava tra l’ammirazione e l’insolenza.

— Non è vero.

— Sì, è vero, avete degli occhi meravigliosi veramente! E che capelli! Lasciatemi toccare.... che trecce piene, abbondanti! Ma non avete freddo ai vostri piedini, così, con quelle pianelle sì trasparenti? — No.

— È impossibile. Che piccoli piedi! scommetto che sono più brevi della mia mano. Vediamo, lasciatemi misurare.

— Ecco.

— Vedete: avanza tutta l’unghia del dito, tanto così.... Siete pur graziosa! Come non amarvi? Bellissima creatura!

— Via, via, voi mi adulate....

— No, non è vero.

— Sì.

— No, ve lo giuro.

— Giurate soltanto di amarmi.

— Lo giurerò dopo. Datemi un bacio.

— Ecco.

Ma Opala aveva detto troppo presto questa parola.

Mentre che ella curvava il suo volto sul mio si arrestò a mezzo dell’atto: la fanciulla aveva ascoltato un rumore improvviso all’uscio del gabinetto.

— Affrettatevi, diceva dal di fuori colla sua voce stentorea, il mio primo ministro, l’ora del giudizio è già trascorsa, e la folla vi attende con impazienza; un indugio maggiore potrebbe peggiorare le gravi complicazioni politiche in cui versiamo, non fatevi aspettare più oltre.

— Mio Dio! io dissi, interrogando di nuovo il mio vecchio orologio di Ginevra, è vero, l’ora fissata è trascorsa di qualche minuto. Ma è un abuso cotesto.... ho o non ho un’autorità sovrana, assoluta? Disturbarmi, sorprendermi così nelle mie stanze, interrompermi durante le espansioni più doverose delle mie tenerezze domestiche? Se giungo a consolidarmi sul trono, rifarò da capo il regolamento interno della mia casa.

E ricordandomi che il ministro attendeva fuori dell’uscio — vengo, soggiunsi a voce più alta, sono da voi, avvertitene il popolo.

Quindi abbracciai la fanciulla che mi diceva: è un vero dispetto, venirvi ad importunare a questa ora. Che orrore! Ma ci rivedremo stassera.

Mi avviai alla sala del giudizio: era mia intenzione di tenere un contegno severo, di impormi, di farmi temere; ciò che pareami sarebbe tornato assai più efficace di un’indulgenza che i miei sudditi erano ben lungi dal meritare.

Oltre a ciò aveva in animo d’introdurre nelle leggi dello Stato alcune disposizioni, la cui saggezza avrebbe potuto dare il concetto più lusinghiero della mia sapienza governativa. — Sarò severo, diceva tra me stesso, ponendo il piede sul limitare della sala, sarò inflessibile: e debbo confessare che in quel momento la mia anima macchinava tristi progetti a danno del mio popolo. Se io riesco a consolidarmi sul trono; se coi tesori di mio padre potrò formare un partito numeroso alla mia causa, muterò sull’istante i vecchi statuti del Regno — ruminava tra me medesimo — e cambierò il governo costituzionale che mi tiene legate le mani in un governo dispotico. Farò, come mio padre, un colpo di Stato. Che cosa è questo governo costituzionale? Una derisione per la mia persona, per la mia qualità, per le tradizioni gloriose della mia casa. Il popolo fa ciò che gli aggrada, e io debbo accennare della testa come un fantoccio snodato di Norimberga quando gli si tira il filo che lo fa gestire. Aveva appreso nel mio paese come si debba governare una nazione: allora era suddito, adesso era re, ma non si trattava che di invertire le parti. — Guai a quel capo dello Stato, ripeteva a me stesso, che non sa fare del suo popolo tanti tipi perfetti di cretino, che invece di pensare a fruire di tutte le risorse della sua posizione, e a dare al paese buon numero di sudditi di sangue reale e plebeo incrociato, si occupa coscienziosamente dell’avvenire e della dignità della nazione che gli ha affidato i suoi destini. Questa testa coronata è una testa già distaccata dal collo. La civiltà è una mannaja che taglia le teste coronate.

Io confesso che il mio orgoglio non lasciava più alcun limite alla mia fantasia. In quell’istante di entusiasmo, la teocrazia stessa era ancora poco per la mia ambizione.

Entrai nella sala, e presi posto sul trono: a’ miei fianchi stavano i ministri, d’innanzi a me i colpevoli, all’intorno la folla.

I Denti neri si alzarono e mi fecero un’ovazione fragorosa; ma quegli scellerati Denti, bianchi coi loro orribili denti bianchi, armati dai piedi alla testa, mi guardarono torvi e sdegnosi tacendo. Feci allora un piccolo discorso di occasione che provocò qualche applauso dalla tribuna dei giornalisti stipendiati; dopo di che tentai il mio colpo d’effetto; domandai che mi si portasse la raccolta delle leggi dello Stato, e pregai il mio segretario particolare a dar lettura dei nuovi regolamenti che io aveva raffazzonati a questo scopo lungo il viaggio, e che intendeva inserire in quegli Statuti.

Consistevano in una serie di articoli relativi all’abolizione del melodramma dal teatro Potikorese, basati su queste ragioni: essere il dramma musicale il non-senso più enorme, l’assurdo più mostruoso e più ridicolo di cui la scienza si sia resa colpevole. A questo progetto ne andava annesso un altro relativo ai mimi, ai ballerini, ai tenori e ai baritoni dalla trachea più o meno dilatata; ai primi dei quali doveva essere inflitta una pena di ridicolo pel diritto di esercitare il loro mestiere, e ai secondi s’imponeva l’obbligo di ricordarsi consistere tutto il loro merito nella forma e nella dimensione della trachea.

Un secondo progetto di legge regolava i diritti degli autori e degli editori. Cinquanta articoli si riferivano esclusivamente a questi ultimi, ed erano sì severi e ad un’ora sì giusti, che mi sento addoloratissimo di doverli ora tacere in causa della loro prolissità. Mi limito a rammentare che in uno di essi, per un caso di pirateria libraria, era proposta la pena della sospensione pei piedi fino a totale estinzione di vita, — e credo che fosse poco.

Altri articoli stabilivano pene pei delitti letterari. V’erano severamente puniti i lavori di collezione e di circostanza; quei lavori di schiena che si atteggiano a lavori di testa, ec. ec.

Un’appendice a questa disposizione interdiceva alla classe dei professori di credersi letterati, e li chiamava responsali d’innanzi alla posterità della istruzione eunuca e della catalessi intellettuale che è condannata a subire la giovine generazione dei tempi nostri.

Un’altra disposizione legislativa toccava delle fame imposte e delle fame usurpate; proponeva pene pei letterati funamboli; condannava a perpetuo bando dall’isola i poeti che si fossero attentati a dar lettura dei loro versi a qualche infelice costretto a subire questa violenza, e vietava finalmente la rappresentazione del dramma e della tragedia — considerate come le più ridicole parodie del dolore e delle sciagure umane.

Erano, in una parola, un complesso di leggi inspirate dalla più alta saggezza, e la mia mortificazione non fu sì grande come la mia meraviglia quando intesi che esse erano già state introdotte nel Codice di Potikoros, fino dal tempo in cui quest’isola si reggeva a repubblica.

La repubblica aveva dunque giovato a qualche cosa? Per la prima volta io compresi che il Due dicembre di mio padre aveva avuto in sè tutto il carattere di un tradimento indegno, e mi sentii tratto a fare un apprezzamento più benigno di quegli onesti Denti bianchi che coi loro atteggiamenti minacciosi, e coi loro terribili incisivi foggiati ad uncino, reclamavano la ricostituzione del primo sistema governativo dello Stato.

Ma in quel momento non poteva, come avrei voluto, soffermarmi su queste considerazioni; e d’altronde il mio interesse personale mi avrebbe reso ingiusto nell’apprezzarle. Credete voi che tutti coloro che sedettero — come io ho seduto — su un trono, non abbiano fatte le stesse considerazioni, benchè le abbiano poi soffocate nel fondo della coscienza collo stesso spirito di egoismo?

Un fatto meraviglioso si presenta, fino dalle prime epoche della storia dei popoli, agli occhi dell’osservatore e del filosofo. Cinque o sei furbi matricolati regolano a bacchetta i destini di tutta questa massa sterminata di pecore che è l’umanità. Ho letto, non so più dove: mala bestia esser l’uomo, divina cosa la umanità. Non è vero! Per me ho dovuto sempre guardare all’uomo, all’individuo, alla creatura isolata per sapermi trovare meno in disagio colla massa degli uomini; mi sono riconciliato alla meglio, dacchè vivo, con tre o quattro di loro, ma credo che non mi riconcilierò mai col resto dell’umanità. D’altronde questa credenza ha cessato di addolorarmi.

Ma bando alle digressioni.

Era tempo d’incominciare il giudizio, e feci perciò avanzare il primo colpevole. Fu data lettura dell’atto d’accusa.

Io era tutto orecchi nell’ascoltare, anzi per servirmi d’una frase inglese, era tutto un orecchio, poichè non ignorava che il mio destino dipendeva totalmente dall’esito di quel giudizio. L’atto di accusa era concepito press’a poco in queste parole:

«Akriundaz, della provincia di Pikliya-pokenos, di anni trentadue — della tribù dei Denti neri, di professione incettatore di merli bianchi, è imputato del furto di due pani rubati nella bottega Srikis Tenariasbikeloz esistente sul corso principale della nostra città di Potikoros, con rottura d’un vetro, e senza circostanze attenuanti».

Benchè la lettura di quell’atto scritto in lingua Potikorese avesse fatto poco meno che spezzarmi i timpani delle orecchie, riordinai come sapeva meglio le mie idee, e invitai l’imputato ad esporre le sue difese.

— L’incetta dei merli bianchi, disse egli, essendo diventata più difficile e meno lucrosa per l’introduzione del merlo nero operata dalla Serenità di vostro padre nella nostra isola, e in causa dell’omaggio che vien reso ad esso dal popolo, essendo caduti in dispregio i merli dell’altro colore, io mi sono trovato da qualche tempo fuori della possibilità di vivere dei frutti del mio commercio. Ho chiesto stamane all’onorevole fornaio Tenariasbikeloz che mi fossero dati ad imprestito alcuni pani. Rifiutandomeli egli io ho spezzato un cristallo della vetrina e ne ho tolti due. Io sono un onesto Dente nero. Causa essenziale di questa violenza, fu l’intenzione che aveva di festeggiare, come mi permettevano i miei mezzi, l’assunzione di Vostra Maestà al trono di Potikoros.

Questa difesa cui non mancava l’intingolo dell’adulazione, mi dispose in favore dell’imputato.

— Avreste dovuto, io dissi, far conoscere alle autorità del vostro paese — parmi, se non erro, Pikliya-pokenos — che vi trovavate nelle circostanze che avete esposte; quel solerte questore di polizia vi avrebbe autorizzato a chiedere l’elemosina senza violare le leggi dell’onestà con una appropriazione sì violenta.

— A chiedere l’elemosina! disse meravigliato il mio ministro.

E vide che gli uditori avevano sbarrato tanto d’occhi nell’udire quelle parole.

— Sì, ripresi io, a voce più alta, lo si sarebbe autorizzato alla mendicità, lo si sarebbe munito di apposita placca, come corre l’uso nei paesi civili dell’Europa.

Un bisbiglio immenso si sollevò dalla folla, un bisbiglio di disapprovazione universale. Io sentii salirmi il sangue dai piedi alla testa, e subito precipitare dalla testa ai piedi, e rimontare di nuovo alla testa.

— Ignoro, aggiunsi con coraggio, quali sieno le leggi di polizia di questo paese, ed è evidente che non possa sull’istante conformarvimi. Sarà mia premura di prenderne subito cognizione.

— Tra noi, interruppe il mio segretario particolare, non è ammessa in alcun modo la mendicità; appena conosciamo il significato di questa parola per le notizie che abbiamo avuto delle usanze invalse in Europa. Nell’isola di Potikoros ogni suddito ha diritto al lavoro; e in caso d’impotenza, ha diritto al mantenimento a spese dello Stato.

— Sono leggi veramente saggie, io dissi, veramente apprezzabili. Ringrazio il mio degno segretario particolare di avermene reso informato; ma.... riprendiamo il corso del nostro processo: L’onorevole fornaio....

— Tenariasbikeloz, suggerì uno dei ministri.

— Tenariasbikeloz.... si trova egli presente all’udienza? In questo caso deponga se è vero che l’imputato gli abbia chiesto ad imprestito i due pani prima di rubarglieli.

Il fornaio si avvicinò al tavolo della presidenza e depose esser vero.

— Quando è così, io ripresi, atteggiandomi a severità, udite le giustificazioni dell’accusato, visto la necessità di mantenere inviolate le leggi fondamentali d’ogni diritto civile, tenuto conto dell’asserzione del derubato, e delle altre cause attenuanti, condanno il nominato Akriundaz — credo Akriundaz, incettatore di merli bianchi, alla pena di quattro anni di lavori forzati.

Non avessi mai pronunciata quella sentenza! Un urlo di disapprovazione si sollevò dalla folla, un urlo così fragoroso e feroce che i miei stessi ministri se ne sentirono impauriti I capelli mi si drizzarono sì rigidamente sul cranio, che m’accorsi che la mia corona doveva essersi sollevata due buoni pollici dalla testa. I Denti bianchi, digrignando i loro terribili incisivi, domandavano che ne andasse libero l’accusato, e che si sottoponesse invece a processo l’onorevole fornaio Tenariasbikeloz: adducevano a pretesto il diritto che egli aveva di appropriarsi quei pani che aveva chiesti, e che gli erano stati rifiutati; e citavano non so qual articolo di legge, nel quale era detto che ogni cittadino resosi, per qualsifosse ragione, impotente al lavoro, poteva esigere il mantenimento gratuito a spesa dei privati ricchi e dello Stato.

Io non so come giungessi a sedare quel tumulto. La fermezza del mio contegno e quella de’ miei ministri — sento il dovere di rendere loro questa giustizia — riuscirono a poco a poco a ristabilire un po’ d’ordine nella adunanza.

La minaccia di far sgombrare la sala da un mezzo pelottone di Denti neri ottenne il suo effetto.

Quando la calma fu ristabilita, ordinai che si facesse avanzare il secondo colpevole.

Era il direttore del giornale. Il Giudizio Universale (il giornale ufficiale di Potikoros) accusato di aver recato il disonore in una onesta famiglia con alcune taccie infamanti, destituite d’ogni verità.

L’onorevole direttore parevami una persona seria e meritevole d’ogni riguardo, oltre di che io mi trovava in certo qual modo legato a lui da una vecchia intimità di famiglia, e sentiva il dovere di difenderlo e di pronunciare per esso una sentenza assai mite.

— Ove è il gerente? io chiesi: se l’accusato non è direttore responsabile, si conduca qui il gerente e si lasci libero il giornalista.

— Il gerente! esclamò il mio giudice istruttore, che cosa è il gerente? Può egli darsi che una persona qualunque si faccia responsabile dei reati di un’altra? Puniamo i reati, o puniamo le coscienze?

— Un tale sistema, io dissi, è invalso in tutte le nazioni d’Europa, nè io posso giudicare di questa accusa senza conoscere le leggi speciali che regolano la stampa Potikorese. D’altronde.... parmi che questo sia un fallo assai mite; una semplice riprensione.... un semplice ammonimento — Indugierò, ad ogni modo, a pronunciare la mia sentenza fino a che non avrò presa cognizione delle leggi che ho ora accennate. Prego l’onorevole magistrato a fare avanzare il terzo colpevole.

Uscitone in tal guisa pel rotto della cuffia, gettai gli occhi sulla folla per conoscere l’impressione che vi avevano prodotto le mie parole. Il disordine si era in parte rinnovato; non era precisamente lo stesso scompiglio, la stessa disapprovazione plateale di prima; ma poco meno. Si vedeva chiaro che la impazienza dell’uditorio stava per prorompere in una dimostrazione più energica e più difficile a reprimere. L’interesse che destava il terzo accusato ebbe virtù di distogliere in tempo i loro animi da questa disposizione.

Era egli un alto funzionario governativo, imputato di grave prevaricazione per una somma di molti milioni sottratti alle casse dello Stato. Come suole avvenire in simili casi, le prove erano bensì manifeste, ma confutabili in mille maniere, e facili ad essere ritorte a danno di altri funzionarii. Io diressi ed illuminai in alcuni punti lo svolgimento del processo; ma benchè fosse universale la convinzione che si aveva del suo reato, le prove volute dalla legge non avevano tutti i dati necessarii per autorizzarmi a pronunciare un verdetto di colpabilità.

Io mi trovava posto in una titubanza terribile — era il caso dell’incudine e del martello — e considerando che l’accusato era un Dente bianco, e faceva parte di quella tribù di cui doveva starmi specialmente a cuore il favore; che egli apparteneva alle alte sfere governative, nelle quali è stabilito il principio che una mano lava l’altra, che questa appropriazione sarebbe stata considerata nel mio paese come una bagattella di nessuna importanza, come uno spostamento di cifre (è la parola addottata da alcuni governi costituzionali per definire i furti governativi) credetti mostrarmi abbastanza severo nel pronunciare una sentenza che lo spogliava semplicemente della sua qualità, e lo esonerava dalla sua carica.

Fu la scintilla che cagionò l’incendio: il furore del popolo proruppe sì vivo, sì unanime, sì violento che io mi avvidi subito che non vi era più mezzo a contenerlo. I miei stessi ministri erano rimasti meravigliati della stoltezza del mio giudizio; e temendo che i rivoltosi non li considerassero come facienti causa comune col re, si affrettarono a ritirarsi prudentemente nelle anticamere. Io rimasi come paralizzato, come pietrificato sul trono; e solamente alcuni istanti dopo, quando mi avvidi che la folla gridando «abbasso il re, si destituisca il re,» ed altre graziosità di questo genere, si accingeva a superare lo steccato per impadronirsi della mia persona, pensai a mettermi in salvo nell’interno della reggia.

Non dirò quali fossero i pensieri che mi passavano allora pel capo, — rapidi, vari tumultuosi, inutili tutti....

Fu però un’incertezza di un istante. Quando vidi che le persone della mia casa cercavano di rifuggirsi nei gabinetti segreti, e non solo non avevano a cuore la salvezza della mia maestà reale, ma era molto se non attentavano essi medesimi alla mia vita; quando intesi che il tumulto popolare andava orribilmente crescendo, e che i Denti bianchi erano già penetrati in alcune sale della reggia, deliberai di cercare salvezza nella fuga.

Mi precipitai verso il mio serraglio, poichè non sentiami la forza di abbandonare il mio regno senza portarne meco la fanciulla che mi aveva affascinato, e abbracciando Opala, le dissi:

— La rivolta sta per spogliarmi del regno e della vita.... fuggiamo, vieni meco: io sarò ancora il monarca più felice, il più ricco, il più fortunato se potrò trascorrere il resto della mia esistenza con te.... se tu sarai mia, mia cara Opala, mia dolce fanciulla! Sì, sì, fuggiamo nella mia patria, dove la dignità e la coscienza popolare assicurano la monarchia da questi pericoli, dove i re non sono costretti ad infiggersi un osso di balena nel naso, ma menano essi stessi pel naso i sudditi devotissimi.... vieni, vieni.... Ma lascia prima che io prenda i tesori di mio padre.... Ove sono i tesori di mio padre? quel diamante favoloso, quegli smeraldi....

Opala allacciandomi il collo colle sue braccia bianche e delicate, mi diceva colla voce interrotta dal singulto:

— Non uscire, non uscire di qui; forse i Denti bianchi non entreranno in questo tempio, rispetteranno il culto che queste vergini rendono all’amore, forse....

— Ma è impossibile, io interruppi, fuggiamo, fuggiamo, ripariamo verso il mare; se possiamo attraversare la capitale senza essere conosciuti, se...

Ma in quel momento si spalancò l’uscio del serraglio, e una turba di Denti bianchi apparve minacciosa sul limitare. Io non vidi che una cosa, i loro denti, tanto essi erano orribili, tanto erano bianchi, lunghi, aguzzi, scoperti dalle labbra che l’avidità del mordere aveva rovesciate e contratte in una smorfia feroce. Lo ripeto, io non vidi che i loro denti; e in questo stesso momento in cui scrivo, quelle orribili rastrelliere che si digrignavano da sè, come segregate dal resto della persona, come attaccate a qualche cosa d’impercettibile, mi balenano dinanzi agli occhi simili alle dentiere artificiali d’un cavadenti collocate per mostra sopra un fondo di velluto nero in una vetrina. Vederli e rabbrividire, e rimanere là immobile e paralizzato sul luogo, come se vi avessi messo radici, fu un punto solo. Un Dente bianco si spiccò allora dal limitare dell’uscio, e venne verso di me, avventandomi una specie di giavellotto che teneva fra le mani. Fu un istante. Opala lo vide, si rivolse, si interpose, e... oh mio Dio!... ricevette ella stessa il colpo mortale che mi era stato diretto.

Non tenterò qui di evocare quella memoria terribile. Io vedo ancora il suo candido seno lacerato da una ferita profonda, vedo i suoi grandi occhi nuotanti nella morte e nelle lacrime, e ascolto le sue ultime parole interrotte dall’anelito: «io muoio per te... io ti ho amato.... ricordami.»

Commosso, tratto di senno, inferocito a quella vista, volli allora avventarmi, inerme come era, contro i ribelli... ma quelle orribili rastrelliere mi balenavano ancora dinanzi agli occhi; io le vedeva ancora là, lunghe, bianche, isolate come le dentiere del cavadenti; e sentiva quel rumore sordo, quello scricchiolio freddo e secco che producevano digrignandosi. Mi arrestai a mezzo dell’atto; qualche cosa di nero mi passava dinnanzi alla vista; sentii che le mie forze mi abbandonavano... vacillai e caddi privo di sensi.

Quando rinvenni mi trovai carico di catene, e circondato da alcuni vecchi denti bianchi, i quali avevano costituito un apposito Consiglio di guerra per giudicarmi.

Mi fu letto l’atto di accusa, nel quale mi si imputava di aver voluto sovvertire gli ordinamenti dello Stato con una interpretazione falsa e speciosa delle leggi che lo governavano: di aver fatto atto di disprezzo verso le usanze del paese — usanze che avevano forza di legge — rifiutandomi a trafiggere il mio naso greco con quell’ornamento grazioso di balena: di aver poste in grave pericolo la quiete e la sicurezza della nazione, costringendola, in seguito alla mia decadenza dal potere, a riadottare la forma primitiva di governo, il regime repubblicano, o ad eleggersi un re nazionale. In causa dei quali reati io veniva considerato come decaduto dal trono di Potikoros, e condannato alla pena della morte per sospensione.

Fui invitato ad esporre le mie difese.

— Anzi tutto, io dissi non posso ammettere in questo onorevole Consiglio di Denti bianchi il diritto di giudicarmi. Io vedo qui rappresentata una sola metà della nazione. Ove è l’altra metà? Ove sono i degni rappresentanti dei Denti neri? Ma ove pure essi facessero parte di questo consesso, i diritti di un re non posson essere discussi da suoi sudditi, e le sue colpe — se un re può commettere delle colpe — non possono essere nè giudicate, nè punite da essi. Io venni qui, in un paese i cui ordinamenti si erano rilassati per un lungo interregno, nel quale la demagogia incominciava a difondere le sue dottrine rivoluzionarie, le cui leggi erano violate da un’anarchia impossibile ad arrestarsi. Io vi venni chiamato dal suffragio popolare, invitato da una rappresentanza della nazione, eletto dal voto di tutti i governi d’Europa. Io venni a governare questo popolo cieco e traviato che aveva bisogno di essere ricondotto sotto il regime della monarchia: vi venni per un puro istinto di umanità, per un semplice spirito di abnegazione. Affetti e interessi mi trattenevano in Europa. Il mio sangue, il sangue di mio padre, è uno dei più antichi e dei più nobili tra tutte le dinastie di quel gran continente incivilito. Io ho avuto pietà di voi; io era venuto ad apportarvi l’ordine e la felicità che regnano in molte capitali di quegli stati; mi era sacrificato a mutare il mio berretto di cotone europeo in un turbante di penne, a ricevere quaranta milioni di appannaggio, a comandare a quaranta milioni di sudditi, a vivere da monarca in questa reggia... aveva fatto tutto questo per voi; quale è la ricompensa che mi avete accordata? Sdegno giustificarmi più oltre: la razza dei re è una razza speciale, e ogni re che si rispetti non può ammettere in voi il diritto di giudicarlo. Gli storiografi stipendiati, i sudditi devotissimi di cui non vi sarà mai deficienza nelle generazioni future mi giudicheranno. Ho detto.

Uno scroscio di risa feroci accolse le mie parole, e delle voci si sollevarono dalla folla che gridavano: alla corda, alla corda.

Fui condotto al luogo destinato ai supplizii. Quivi un abisso profondo, immenso, si apriva nel seno di una montagna: in fondo alla voragine, sulle punte di granito e di metallo taglienti come lame, roteavano stormi di astori e di aquile.

Fui legato ad una corda annodata alla punta di un albero, il quale inclinandosi sull’abisso, ne guardava il mezzo colla cima. Prima che la corda abbandonata a sè, mi sospendesse perpendicolarmente sulla voragine, io diressi ancora alcune parole ai Denti bianchi:

— Domando, io dissi, che la salma reale sia trasportata in Europa, per ricevere sepoltura nelle tombe de’ miei padri. Che, ove non ottemperaste a questo desiderio, la mia nazione invierebbe immediatamente la sua flotta a bombardare i porti di Potikoros, e impadronirsi dell’isola.

Nè io pensava in quel momento che era impossibile tornar da quell’abisso, e che mi sarei fatto a brani cadendo sulle punte di granito che formavano il fondo. E comprendeva benissimo che la mia salma doveva aver nulla di più sacro della salma d’un zoccolante; poichè il corpo d’un re e quello d’un mendico producono la stessa specie di vermi; e, come aveva letto nel Amleto, si può gettar l’amo ad un pesce col verme che mangiò di un re, e un mendico può mangiare di quel pesce, per modo che il corpo di un re entri nelle viscere di un mendico. Nondimeno la mia vanità mi spinse a proferire quelle parole.

Vanità inutile, poichè i Denti bianchi tornarono a sorridere di quel sorriso feroce che mi aveva poc’anzi agghiacciato il sangue nelle vene, e a contrarre le labbra a quella smorfia infernale, di cui non saprei darvi un’idea se non richiamandovi alla mente quello scoprirsi delle mandibole che osserviamo nei mastini e nelle fiere quando stanno per avventarsi, e che noi soliamo indicare col dire: mostrano i denti. Non si frappose più indugio alcuno al mio supplizio.

Fui condotto sull’orlo della voragine, e spintovi in guisa che, essendo stato annodato alla corda, mi trovai sospeso perpendicolarmente sopra l’abisso. I cavalieri dei Denti bianchi, i miei stessi ministri, le persone più autorevoli dello Stato disposti in circolo sull’orlo della voragine, tentavano di tagliare a colpi di freccia la corda che mi teneva sospeso.

Era un supplizio lungo, lento, crudele, atrocissimo. Ogni trecciolino della corda tagliato si arricciava da una parte e dall’altra, assottigliando sempre più il centro di essa, su cui erano dirette le freccie. Dopo due ore di patimenti infiniti, la corda rotta in più luoghi, non reggeva più che per un semplice filo al mio peso.

Curvandomi e guardando sotto di me, io vedeva l’abisso nero e profondo che mi attendeva, gli uccelli di rapina che aspettavano il mio cadavere per divorarlo, e qua e là le ossa imbiancate degli infelici che avevano subito prima di me quel supplizio tremendo....

Un solo filo reggeva ancora la corda, le freccie passavano fischiando da tutte le parti e non la colpivano: io guardava la corda e l’abisso, poi la corda, poi ancora l’abisso, e mi contraeva, mi arricciava, mi aggomitolava, come avessi potuto con ciò sollevarmi dal fondo della voragine.

Non so quanto durasse quell’agonia. A un tratto una freccia colpì nella corda, la ruppe, precipitai, innalzai un grido di orrore e... oh mio Dio!.... mi svegliai, e mi trovai nel mio letto.




— Che vergogna! mi disse Elettra appoggiata col gomito ai mio capezzale, è da jeri sera che tu dormi; sono ora ventiquattro ore....

— Ventiquattro ore!

— Si cotesta tua abitudine di bere... io ti vegliava inquieta...

— Ventiquattro ore! ripetei tra me stesso stordito: un sogno di un giorno, perocchè adesso...

— Siamo di sera. Hai, dormito un giorno intero.

— Un giorno!


Ed ora, miei lettori, dubiterete ancora che non sia questa la storia di un giorno della mia vita?




Fine.

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