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II.
Sui due marciapiedi della strada la gente era fitta come all’uscita d’un teatro, e non si vedevan crocchi, nè brigatene, nè alcuno che gridasse e gesticolasse; andavan tutti in fretta e in silenzio, ciascuno approfittando d’ogni piccolo spiraglio che si facesse nella calca, per cacciarsi innanzi a chi lo precedeva; e urtandosi gli uni e gli altri, senza voltarsi. Nel mezzo della strada passava una fila lunghissima di grandi omnibus variopinti come carri da carnevale, con una specie di gradinata di sedili sul davanti, che si allarga di sotto in su, e porta così in aria la gente in forma di ventaglio, i più bassi quasi a terra, i più alti che arrivan col capo al primo piano delle case, e sporgon fuori come se fossero sospesi. Fra l’uno e l’altro omnibus, e dalle due parti, una confusione indescrivibile di carri, di carrozze, di cabs, di barrocci, di calessi, di carrette, di carrozzoni coperti d’annunzi, di trabicoli d’ogni forma, a tre, a cinque, fino a otto di fronte, i cavalli degli uni col muso contro la parte posteriore degli altri, i mozzi delle ruote che si toccano, e un continuo scansarsi a furia di serpeggiamenti, e un formarsi e disfarsi a stento di gruppi intricati di decine di veicoli da far temere ad ogni momento che scricchiolino e si spezzino tutti insieme come una sola gran macchina scomposta da un urto violento. Tra carro e carro, lungo i marciapiedi, facchini carichi, ragazzi con carrettine a mano, lunghe file di uomini con cartelloni d’annunzi appesi al collo, affaccendati a salvarsi la vita. A ogni cantonata, quel torrente immenso d’uomini e di cose trabocca in larghi canali, riceve affluenti, si spande e ristagna in piazze e cortili, filtra nei vicoli e nei chiassuoli in torti rigagnoli che si perdono fra le case. Mentre vado innanzi così, trascinato dalla corrente, sento un fischio acuto sopra il mio capo, alzo gli occhi e vedo passare un treno di strada ferrata sopra un altro ponte che accavalcia la strada. Quel treno è appena passato, odo un altro fischio da un’altra parte; e vedo trasvolare un altro treno sopra i comignoli delle case laterali. Nello stesso momento, dalla parte opposta, esce un nuvolo di fumo da una larga apertura della terra: è un terzo treno della strada ferrata sotterranea che passando un istante all’aperto, fischia un saluto alla luce. Arrivo all’imboccatura d’una larga strada; vedo in lontananza il Tamigi, i ponti; su quei ponti altri treni che si seguono e s’incontrano sotto gli archi, battelli a vapore che passano inchinando i tubi come grandi alberi curvati dal vento, lunghe file di barconi rimorchiati da piroscafi, sciami di zattere e di barchette; e lungo le spallette dei ponti processioni di gente che spariscono sulla riva opposta. Andando innanzi, altre strade di cui non si vede la fine, fiancheggiate da edifizii enormi, corse da altri torrenti di gente. E da per tutto il fracasso di ponti di ferro tremanti sotto il peso di lunghissimi treni, fischi, sbuffi di fumo, soffi affannosi sopra il mio capo, sotto i miei piedi, vicino e lontano, per terra, per aria e per acqua, una gara, una furia di cose che partono e di cose che arrivano, una continuità di fughe, d’incontri, e d’inseguimenti accompagnati da uno strepito di schiocchi, di cigolii, di scalpitii, di rimbombi; lo sparpagliamento di una grande battaglia e l’ordine d’una smisurata officina; e poi l’oscurità del cielo, la tetraggine degli edifizi, il silenzio della folla, la gravità dei volti, che dà allo spettacolo non so che aspetto misterioso e doloroso, come se quell’immenso moto fosse una necessità fatale e quell’immenso lavoro una dannazione. Stanco e sbalordito, mi cacciai in una birreria, e tirando un gran respiro: — Ma che Somerset-Haus (Palazzo Somerset). mondo è questo? — mi dimandai; — ma come si può vivere in questa maniera?
Poco dopo, mi rimisi in cammino e arrivai sulla piazza di Trafalgar, ch’è nel centro del quartiere più frequentato dai forestieri. Mi piacque l’altissima colonna che sostien ritta nella nebbia la statua del bravo Nelson, e ammirai i quattro enormi leoni che le fanno corona; ma lo square, forse perchè lo paragonai alla piazza della Concordia di Parigi, mi riuscì al disotto di quello che m’aspettavo. Là è il punto d’incontro di tutti gli omnibus di Londra occidentale, e ognuno può immaginare che trambusto. Basti dire che mi venne da ridere pensando a ciò che nel Corso a Roma, in via Toledo a Napoli e in certe strade di Genova, noi chiamiamo un gran movimento, e che appetto a quello non è che il tranquillo via vai di un villaggio in un giorno di festa. Infilai la gran strada di Vithehall e andai a riuscire sulla piazza del palazzo del Parlamento, e di qui mi diressi sul ponte di Westminster.
Il colpo d’occhio che sì gode di là è il più bello di Londra, e rivende tutte le vedute dei ponti della Senna. Da una parte si vede il grande e delicato palazzo gotico del Parlamento, incoronato d’innumerevoli torricine, e decorato di mille statue di regine e di re, di là dal quale s’alzano le torri della gloriosa abbazia di Westminster, il Panteon dell’Inghilterra, sull’altra sponda, gli otto graziosi edifizii dell’ospedale di San Giacomo, dipinti di vivi colori; a monte del fiume, un orizzonte aperto ed allegro. In quel punto par di essere in un’altra Londra; v’è non so quale maestà serena di città meridionale. Il Tamigi, percorso da pochi piroscafi e da poche barche, passa in silenzio dinanzi al monumento che rappresenta la gloria e la potenza dell’Inghilterra, come un esercito infinito che sfili dinanzi al suo principe; e da quell’ampiezza chiara e queta si vede in fondo, lontano, come traverso a un velo, gli edifizi neri e confusi, i ponti che formicolano di gente, e il fumo denso della vecchia Londra che s’agita e lavora.
Osservai per la prima volta, stando su quel ponte, che a Londra quando c’è un po’ di moto per le strade, moltissimi, anche signori, si rimboccano i calzoni come i contadini; e che altri moltissimi portano dei vistosi mazzetti di fiori all’occhiello. E confesso che non potevo trattenermi dal ridere vedendo, come vidi spesso, un viso straordinariamente grave, il mazzetto, e la rimboccatura, sur una sola persona.
Ritornato sulla sinistra del Tamigi, girai per le strade principali, colla mia brava pianta in mano senza aver bisogno di chieder nulla a nessuno.
L’aspetto generale delle strade di Londra non si può propriamente dire quale sia. Nessuna città presenta una così disordinata varietà di forme, una così capricciosa mescolanza di bello, di brutto, di magnifico, di povero, di triste, di strano, di grande, di uggioso. Vi pare come una città, nel suo complesso, nuova per voi, ma composta di tante altre città già vedute, alle quali abbian dato una tinta comune per nasconderne l’origine diversa. Le architetture di tutti i paesi e di tutti i tempi vi sono raccolte, sovrapposte, intrecciate. In una stessa strada, si alternano l’araba, la bizantina, la gotica e la greco-romana, e i vari ordini inglesi; uno stesso edifizio ha finestre ad arco acuto e peristilio greco, colonnette moresche e cariatidi del Rinascimento, tetto d’un pagode indiano e mura di un tempio egizio. Ad ogni cantonata, si vede qualcosa che trasporta la immaginazione a mille miglia lontano dal luogo dove uno si trova. In un punto è una reminiscenza confusa di Venezia, altrove è un’aria vaga di Roma, qui balena alla mente Siviglia, là vien pensato a Colonia, un po’ più oltre sembra d’essere in una strada di Parigi. Tutte quelle forme che si son viste altrove, così annerite come si ritrovan là dal fumo e dalla nebbia, paiono divenute più austere, paiono come intristite del trovarsi lontane dal loro paese nativo, uggite da quell’atmosfera densa, da quello strepito, dallo spettacolo di quella vita faticosa. Di più quella profusione eccessiva di colonne, di frontoni, di torricine, di ricaschi, di rilievi, d’ornamenti, di forme monumentali, riesce ostentata e stanca. Tutta quell’arte ha l’aria d’una cosa importata, e che stia là a disagio. È un ricolmo, uno spreco di ricchezza e di lusso, uno sforzo di parere. Si vede la città opulenta che s’è comprata la bellezza a peso d’oro; si sente un po’ la mercantessa rifatta e rinfronzolita.
A queste strade fiancheggiate da palazzi principeschi, fanno contrasto altre strade lunghissime fiancheggiate da innumerevoli case tutte d’un colore, tutte d’un’altezza, tutte d’una forma, col tetto nascosto dietro i muri, in modo che paiono scoperchiate, senza terrazzini, senza persiane, nude come muraglie di bastioni, in alcune strade, nere come la gola del camino, colle porte e le finestre contornate da righinette bianche, che dan loro l’aspetto di enormi catafalchi; in altre parti, d’un rosso cupo, d’un giallastro viscoso, da parer case fatte di fango e di filiggine; e si va innanzi fra questi colori e queste mura per miglia e miglia, senza incontrar un sol edifizio che rompa quella uniformità melanconica, una sola casa che rammenti la città ricca e magnifica.
Ma per contro la ricchezza e la magnificenza dei quartieri signorili sbalordiscono. A ogni passo vi trovate dinanzi a un palazzo immenso, straricco di bassorilievi e di ornati, e pensate che sia un palazzo reale; è invece una stazione della strada ferrata, un albergo, una casa di commercio. Strade intere sono fiancheggiate dalle due parti da questi splendidi colossi, ciascuno dei quali, visto dall’estremità opposta di quello accanto, sembra già molto lontano, e mostra vagamente la sua nera mole a traverso la nebbia come una enorme rupe tagliata a picco. Il grandioso che in altre città è sparpagliato e bisogna cercarlo, là vi circonda; e quello che in altra città vi par tale, portato là coll’immaginazione, si perde nell’immenso. Attraversate dei quartieri monumentali, passate da una città di palazzi, silenziosa come se fosse disabitata, in una città di officine, nella quale udite mille rumori, senza vedere nessuno; e da questa in un vasto sobborgo dove formicola un popolo immenso, e non si ode quasi strepito; e uscendo da questo sobborgo, rientrate in una città di palazzi. Non errate per una città, viaggiate per un paese.
Chi può dire le mille impressioni sfuggevoli che si provano girando soli per una città come Londra? La meraviglia si fa sentire come a scatti; ma tra scatto e scatto, per lo più, non si prova che noia e stanchezza. Dieci volte all’ora uno si domanda: — Ma forse che mi diverto io? E non è altro che questo il piacere che si prova viaggiando? — A volte vi assale un timore improvviso di cader malati nel mezzo della strada, d’esser toccati chi sa da chi, portati chi sa dove. In certi punti, si trovano analogie misteriose di luoghi, di circostanze, di persone, da parervi d’esser stato un’altra volta in quel punto stesso, a quell’ora medesima, con quella stessa luce di sole, e quel medesimo odore dell’aria, in un tempo remoto. A momenti, vi piglia un’allegria senza cagione, un amore subitaneo del paese dove siete, che vi fa guardar tutti quei che passano con un occhio benevolo, come se fossero tutti amici. In altri momenti un’occhiata sospettosa, una risposta sgarbata d’uno sconosciuto, vi cangia l’animo, vi fa veder tutto nero, vi rende il paese odioso. Il suono lamentevole di un organetto, in certe strade cupe e popolose, vi fa pensare confusamente agi’ infiniti misteri di miserie e di delitti che si nascondono in quegli immensi formicai umani; e vi fa desiderare ardentemente di esser fuori di là, all’aria aperta, in una villa solitaria che avrete visto di sfuggita dieci anni prima dal finestrino d’una diligenza.
A una cert’ora, trovandomi vicino a una stazione, volli fare una corsa per la strada ferrata sotterranea. Scendo due o tre strade, e mi trovo tutt’a un tratto sbalzato dal giorno alla notte: lumi, gente, strepito, treni che giungono e che spariscono nel buio. Giunge il mio, si ferma, gente che precipita giù, gente salta nei vagoni; mentre domando dove sono le seconde classi, il treno è partito. — Ma che maniera è questa? — dico a un impiegato. — Non si confonda, mi risponde, — eccone un altro. Là i treni non si succedono, s’inseguono. L’altro treno giunge, salgo, e via come una saetta. Allora comincia uno spettacolo nuovo. Si corre fra le fondamenta della città, nell’ignoto. Prima ci si sprofonda nel buio fitto, poi si vede per un momento la luce fioca del giorno, poi daccapo nell’oscurità, rotta qua e là da bagliori strani; poi in mezzo ai mille lumi d’una stazione che appare e scompare in un punto; treni che passano e non si vedono; una fermata improvvisa, le mille faccie d’una folla che aspetta, illuminate come dal riflesso d’un incendio; e poi via daccapo in mezzo a un rumore assordante di sportelli sbattuti, di campanelli, di soffi di macchine; altre oscurità, altri treni, altri barlumi di giorno, altre stazioni illuminate, altre folle che passano, che giungono, che si allontanano, fin che s’arriva all’ultima stazione; mi precipito, il treno dispare, sono spinto in una porta, son mezzo portato su per una scala, mi ritrovo alla luce del giorno.... Ma dove? Che città è questa? come uscirò di qui? Adagino; andiamo un po’ in una birreria a studiare la pianta.
Stazione di una ferrovia sotterranea.
Dopo un profondo studio, riuscii a trovar la via d’andare al British Museum, di tutti i musei di Londra quello che mi stimolava di più la curiosità. Attraversai in fretta le immense sale della scultura, le sale egiziane, le sale assire, e mi arrestai nella sala dei manoscritti, a considerare il contratto di pigione di Shakspeare e il contratto di vendita del Paradiso perduto, e gli altri innumerevoli autografi dei più grandi artisti e dei più gran monarchi del mondo. Ma di tutti questi autografi, due soli mi colpirono profondamente, e non ne potei staccar gli occhi per un pezzo. Son due piccoli fogli, sull’uno dei quali è scritta una somma, e sull’altro tracciati alcuni circoletti, parte disposti in linea retta nel mezzo, parte ammucchiati in un angolo; e così la somma come i circoli paiono fatti in fretta da una mano un po’ agitata. Questi due fogli di carta sono sicuramente, fra i moltissimi nel museo, quelli sui quali fu scritto e disegnato in un momento più solenne. Chi avesse potuto veder nell’anima di quei due uomini, nell’atto che segnavano quei numeri e quei circoli, la tempesta che ci fremeva! I numeri rappresentano le forze dell’esercito inglese, e furono scritti poco prima della battaglia di Waterloo; i circoli rappresentano le navi della flotta inglese e della francese, e furono fatti poco prima della battaglia di Aboukir; la somma è del Wellington, lo schizzo è del Nelson. Manoscritti del Galileo, del Newton, di Michelangelo, del Franklin, del Washington, del Molière, di Carlo V, di Pietro il Grande, del Durer, del Lutero, del Tasso, del Rousseau, del Cromwel, ce n’è da dare e da serbare. Ma ecco un’altra strana cosa: mentre ora non so che darei per avere sotto gli occhi una sola di quelle carte, allora che avevo solo da chinarmi per vederle, non provavo nemmeno un’ombra di curiosità; e quel ch’è più strano, prevedevo, ero sicuro che poi mi sarei pentito di non averle guardate. E mi rimproveravo, e domandavo a me medesimo: — Ma perchè non sei curioso? — e mi rispondevo: — Non lo so; — e sentivo una maladetta smania di andar via, e correvo per quelle sale con una barbarica indifferenza per tutti quei tesori in mezzo ai quali ci sarebbe di che passare un mese in una continua successione di piaceri.
— Mi paghi no!
Uscendo dal Museo intesi brontolare queste parole da uno sconosciuto che stava per entrare. Oh dolcissima lingua! dissi tra me; e mi fermai a guardare lo sconosciuto. Era uno che pareva un operaio, e discorreva con una donna che aveva l’aria d’esser sua moglie. Accortosi che m’ero voltato, si voltò egli pure, e sorprendendomi a sorridere, vedete un po’ la combinazione! invece di capire ch’ero un suo compatriotta perduto nel gran mare di Londra, che il suo paghi no m’aveva rallegrato il cuore, e che, se avessi osato, l’avrei invitato a desinare con un matto piacere, non gli frulla pel capo ch’io abbia fatto l’occhietto a sua moglie? e non risponde al mio sguardo soave facendomi due occhi di basilisco? e vedendo che io continuo a guardare, non fa un passo avanti coll’aria di venirmi a dare un cappiotto? Ingrato lombardo! — mormorai mestamente ripigliando la mia strada; — tu mi hai dato una stoccata nel cuore. Ma va, per per amore della madre comune, ti perdono!
Prima di sera, volli ancora fare una corsa in strada ferrata aerea, e pigliai un biglietto d’andata e ritorno per un punto qualunque della città. È un piacere tutto diverso, ma non meno vivo di quello della gita sottoterra. Si corre in mezzo ai tetti, nella regione del fumo e delle rondini, a traverso una foresta sconfinata di rocche di camino, di tubi, di banderuole, di abbaini, di comignoli; si vedono mille piccoli recessi sconosciuti di quella informe, capricciosa, solitaria architettura, che pullula come la vegetazione selvaggia d’un immenso terreno pensile sull’ultimo piano della grande città; si scoprono mille piccoli misteri di finestrine, di covi umani, di gabbie di case che paiono sospese fra il cielo e la terra, e nelle quali pure si annidano delle famiglie numerose, coi loro giardinetti aerei; si vede giù in fondo nelle strade la folla nera alla quale si passa sopra come a un torrente, udendo appena lo strepito; e tutto intorno si spazia coll’occhio fino a una grande lontananza, scorgendo a volta a volta il Tamigi, gli alberi dei bastimenti del porto, il verde dei parchi immensi, le torri delle officine dei sobborghi, e ogni cosa fuorché i confini del meraviglioso panorama.
Ma rimaneva ancora da fare un po’ di strada in omnibus; mi arrampicai sul tetto del primo che vidi, mi lasciai condurre fino al termine della corsa e poi tornai al punto di dov’era partito. Strada facendo, ebbi più volte occasione di meravigliarmi della famigliarissima disinvoltura colla quale uno qualunque dei miei vicini, per passare da una parte all’altra dei sedili, si serviva della mia spalla come punto d’appoggio, facendomi per un momento sentire il peso di tutta la sua persona, e dandomi poi nell’atto di levare la mano una scossa vigorosa, come un ginnastico che butta via l’asta dopo aver saltato la corda. Il primo che mi rese questo servizio, siccome mi colse all’improvviso, mi fece rimanere quasi stroncato. Come di ragione, mi voltai, almeno per aver il compenso d’un sorriso che volesse dire: — Scusi, — Che! M’aveva voltate le spalle senza darsi l’incomodo di guardare quant’ero lungo. Visto che s’usava così, presi le mie precauzioni, e ogni volta che vidi un vicino stender la mano, gli porsi la spalla, dicendo: — Si serva; — e così tenendo duro finchè si fosse servito, restai un po’ meno sconquassato. Ma fui poi compensato, su quello stesso omnibus, dal piacere che provai persuadendomi che si può benissimo fare una piacevole conversazione senza capirsi. Un giovanotto accanto a me, che pareva molto allegro, mi rivolse la parola in inglese. Io risposi in francese: — non capisco. Egli non capì che non capivo, e tirò innanzi ridendo. Feci cenno col capo di no, di no, che non s’incomodasse, che era fiato perduto. Il caso volle forse che quel no cadesse a proposito a una domanda che m’aveva fatta, e continuò più infervorato che mai. Allora, poichè parlava con tanto piacere, finsi di capire, facendo dei mezzi sorrisi e dei cenni indeterminati, che non potessero discordare recisamente da nessuna cosa che mi dicesse. Poi, cominciando ad annoiarmi di far quella parte, pensai che s’egli mi parlava una lingua che io non capivo, io potevo bene parlargli una lingua che non capisse lui: e mi misi a discorrere in italiano. Era buio pesto; nondimeno rise, mi battè la mano sul ginocchio, stette a sentire con un’aria di curiosità come se gli avessi canterellato un’arietta; e poi da capo a parlare inglese, e così si continuò per un pezzo, con reciproca soddisfazione, fin che l’omnibus si fermò; scendemmo, mi diede un Orario d’una Società di navigazione a vapore, della quale m’immagino che fosse un agente; e ci separammo stringendoci la mano come due persone che si fosser trovate completamente d’accordo su tutte le quistioni del giorno.
La sera non ebbi il coraggio di sfidare lo spleen, e lo fuggii riparando per tempo all’albergo. Oh se avessi avuto là qualcuno da pagare perchè mi stesse a sentire, gli avrei dato volentieri una mezza lira sterlina, tale era il bisogno che provavo di sfogarmi a chiacchere, dopo aver viste tante cose senza poterne dir una! Non sapendo che far altro, mi misi a preparare i paragoni e le immagini di cui mi sarei servito, a casa, per dare un’idea della grandezza di Londra; e poiché da molti giorni non facevo che sfogliettar Guide e domandar ragguagli a quanti incontravo, così non mi mancava la materia.
Sappi dunque, — dicevo a una seggiola incaricata di rappresentare un amico intimo, — che Londra è lunga sedici miglia e ne riquadra trentacinque; che i borghi che via via le si aggregano, contano la popolazione di Firenze, come Greenvich, o la popolazione di Roma, come Chelsea, o la popolazione di Marsiglia, come Hackney; che solo coi servitori che sono a Londra si fa un esercito più numeroso che l’esercito italiano in tempo di pace; che colle fiammelle a gaz che illuminano le sue dieci mila strade si rischiara una strada lunga la quarta parte della circonferenza della terra; che contando che ci vogliono dieci litri di birra per ubbriacare un tedesco, colla birra che si beve in un anno a Londra c’è da ubbriacare due volte tutto l’esercito germanico sul piede di guerra; che mettendo l’una dietro l’altra tutte le bestie da macello che si mangiano in un anno a Londra, si fa una fila continua che attraversa tutta l’Europa dallo stretto di Gibilterra fino all’estremità settentrionale della Russia; che colle ostriche che s’inghiottiscono in un anno a Londra, si copre tutto il campo di Marte di Parigi, col ponte di Jena e la piazza del Trocadero; e che sul Ponte-di-Londra passano giorno per giorno venti mila carrozze.
La mattina seguente andai a vedere il Palazzo di Cristallo.