< Rime (Berni)
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Francesco Berni - Rime (XVI secolo)
LII. Capitolo primo della peste [A Maestro Piero Buffet cuoco]
LI. Capitolo del prete da Povigliano LIII. Capitolo secondo della peste


Non ti maravigliar, maestro Piero,
s’io non volevo l’altra sera dare
3sopra quel dubbio tuo giudizio intero,
 
quando stavamo a cena a disputare
qual era il meglior tempo e la più bella
6stagion che la natura sappi fare,
 
perché questa è una certa novella,
una materia astratta, una minestra
9che non la può capire ogni scudella.
 
Cominciano e poeti dalla destra
parte dell’anno e fanno venir fuori
12un castron coronato di ginestra;
 
copron la terra d’erbette e di fiori,
fanno ridere il cielo e gli elementi,
15voglion ch’ogniun s’impregni e s’inamori;
 
che i frati, allora usciti de’ conventi,
a’ capitoli lor vadano a schiera,
18non più a dui a dui, ma a dieci e venti;
 
fanno che ’l pover asin si dispera,
ragghiando dietro alle sue inamorate;
21e così circonscrivon primavera.
 
Altri hanno detto che gli è me’ la state,
perché più s’avvicina la certezza
24ond’abbiano a sfamarsi le brigate;
 
si batte il gran, si sente una dolcezza
de’ frutti che si veggono indolcire,
27dell’uva che comincia a farsi ghezza,
 
che non si può così per poco dire;
son que’ dì lunghi, che par che s’intenda
30per discrezion che l’uom debba dormire;
 
ha tempo almen di farla, chi ha faccenda;
chi non ha sonno, faccenda o pensieri,
33per non peccare in ozio, va a merenda,
 
o si mette dinanzi un tavolieri,
incontro al ventolin di qualche porta,
36con un rinfrescatoio pien di bicchieri.
 
Son altri c’hanno detto che più importa
averla inanzi cotta che vedere
39le cose insieme onde si fa la torta,
 
e però la stagion che dà da bere,
ch’apparecchia le tavole per tutto,
42ha quella differenzia di piacere
 
che l’opera il disegno, il fiore e ’l frutto;
credo che tu m’intenda, ancor che scuro
45paia de’ versi miei forse il construtto.
 
Dico che questi tai voglion maturo
il frutto, e non in erba; avere in pugno,
48non in aria l’uccel, ch’è più sicuro:
 
però lodan l’ottobre più che ’l giugno,
più che ’l maggio il settembre, e con effetto
51anch’io la lor sentenzia non impugno.
 
Non è mancato ancor chi abbia detto
gran ben del verno, allegando ragioni:
54ch’allor è dolce cosa stare in letto;
 
che tutti gli animali allor son buoni,
infino a’ porci, e fansi le salcicce,
57cervellate, ventresche e salciccioni;
 
escono in Lombardia fuor le pellicce,
crèsconsi li pennacchi alle berette
60e fassi il Giorgio con le seccaticce;
 
quel che i dì corti tolgon si rimette
in altrettante notti: stassi a vegghia
63fino a quattro ore e cinque e sei e sette;
 
adoprasi in quel tempo più la tegghia
a far torte, migliacci et erbolati,
66che la scopetta a Napoli e la stregghia.
 
Son tutti i tempi egualmente lodati,
hanno tutti essercizio e piacer vario,
69come vedrai tu stesso, se lo guati;
 
se guati, dico, in su ’l tuo brevïario,
mentre che di’ l’ufficio e cuoci il bue
72dipinto a dietro a pie’ del calendario;
 
chi cuoco ti parrà, come sei tue,
e chi si scalda e chi pota le vigne,
75chi va con lo sparvier pigliando grue,
 
chi imbotta il vin, chi la vinaccia strigne:
tutti i mesi hanno sotto le sue feste,
78com’ha fantasticato chi dipigne.
 
Or piglia tutte quante insieme queste
oppenïoni e tien che tutto è baia,
81a parangon del tempo della peste.
 
Né vo’ che strano il mio parlar ti paia,
né ch’io favelli, anzi cicali, a caso,
84come s’io fossi un merlo o una ghiandaia:
 
io voglio empirti fino all’orlo il vaso
dell’intelletto, anzi colmar lo staio,
87e che tu facci come san Tomaso.
 
Dico che, sia settembre o sia gennaio
o altro, a petto a quel della moria,
90non è bel tempo che vaglia un danaio;
 
e perché vegghi ch’io vo per la via
e dotti il tuo dover tutto in contanti,
93intendi molto ben la ragion mia.
 
Prima, ella porta via tutti i furfanti:
gli strugge e vi fa buche e squarci drento,
96come si fa dell’oche l’ognisanti.
 
E fa gran bene a cavarli di stento:
in chiesa non è più chi ti urti o pesti
99in su ’l più bel levar del sacramento.
 
Non si tien conto di chi accatti o presti:
accatta e fa’ pur debiti, se sai,
102ché non è creditor che ti molesti;
 
se pur ne vien qualch’un, di’ che tu hai
doglia di testa e che ti senti al braccio:
105colui va via senza voltarsi mai.
 
Se tu vai fuor, non hai chi ti dia impaccio,
anzi ti è dato luogo e fatto onore,
108tanto più se vestito sei di straccio.
 
Sei di te stesso e de gli altri signore,
vedi fare alle genti i più strani atti,
111ti pigli spasso dell’altrui timore.
 
Vìvesi allor con nuove leggi e patti,
tutti i piaceri onesti son concessi,
114quasi è lecito a gli uomini esser matti.
 
Buoni arrosti si mangiano e buon lessi;
quella nostra gran madre vacca antica
117si manda via con taglie e bandi espressi.
 
Sopra tutto si fugge la fatica,
ond’io son schiavo alla peste in catena,
120ché l’una e l’altra è mia mortal nemica.
 
Vita scelta si fa, chiara e serena:
il tempo si dispensa allegramente
123tutto fra il desinare e fra la cena.
 
S’hai qualche vecchio ricco tuo parente,
puoi disegnar di rimanergli erede,
126pur che gli muoia in casa un solamente.
 
Ma questo par che sia contra la fede,
però sia detto per un verbigrazia,
129ché non si dica poi: "Costui non crede".
 
Di far pazzie la natura si sazia,
perché in quel tempo si serran le scuole,
132che a’ putti esser non può maggior disgrazia.
 
Fa ogniun finalmente ciò ch’e’ vuole:
dell’alma libertà quell’è stagione,
135ch’esser sì cara a tutto ’l mondo suole.
 
È salvo allor l’avere e le persone:
non dubitar, se ti cascassin gli occhi,
138trova ogniun le sue cose ove le pone.
 
La peste par ch’altrui la mente tocchi
e la rivolti a Dio: vedi le mura
141di san Bastian dipinte e di san Rocchi.
 
Essendo adunque ogni cosa sicura,
questo è quel secol d’oro e quel celeste
144stato innocente primo di natura.
 
Or se queste ragioni son manifeste,
se le tocchi con man, se le ti vanno,
147conchiudi e di’ che ’l tempo della peste
 
è ’l più bel tempo che sia in tutto l’anno.

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