< Rime (Bindo Bonichi)
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Bindo Bonichi - Rime (XIV secolo)
Elogio di Jacopo Ferrari
Avvertenza preliminare Canzoni

JACOPO FERRARI




Memoria letta in un’adunanza della Regia
Deputazione agli studj di storia patria
l’anno 1863 a Reggio nell’Emilia.



Siccome per l’avanzamento e l’utilità d’ogni genere di studj sono sempre apprezzabili le opere, o poche o molte, dei savi, e nelle cose civili, anche per rispetto a uomini non eminenti, più giova al mondo il fare che il dire; così prendo volentieri a ricordare e commendare un tratto l’avv. Jacopo Ferrari, nostro concittadino e collega egregio: e perchè in materia di letteratura e di politica ei diede lodevole e memorabil segno di se, non conosciuto, come era degno, da molti; e perchè non sono costretto a parlar meno dell’uomo che degli scritti, come da quì addietro, per l’avversità dei tempi, accadde ai più che la vita de’ loro contemporanei consegnarono alla memoria de’ posteri; e perchè finalmente le virtù non comuni in tempi tristi e calamitosi da lui possedute liberano me, amatore non tutto imperito ma nulla pretensionoso de’ modesti studj esercitati da lui, dalla taccia data spesso a chi loda i piccoli e col silenzio deprime i grandi, o per grossolana incapacità d’intenderli o per rabbiosa vendetta di mediocrità disprezzata.

Jacopo Ferrari nacque di comodi campagnuoli a’ 21 di Agosto del 1781 nello storico paesetto delle Quattro Castella1, e morì a’ 17 di Aprile del 1863 quì in Reggio: dove da’ buoni parenti, con desiderio forse di farne un vantaggioso e alla famiglia onorifico curator d’anime, fu mandato giovinetto a studiare nel Ginnasio e nel Liceo, fiorenti di buone lettere e di metodi assai migliori degli odierni. Delle quali scuole egli rammentava sempre con amorosa riconoscenza i maestri, non appartenenti già alla scura e pestifera generazione deputata per tre secoli a guastar gl’intelletti e disumanare la gioventù, ma all’onesta schiera, che quì e d’intorno per vigore di buone leggi sopra la pubblica istruzione e per istraordinaria benignità di fortuna creò tanti uomini atti e sufficienti a governare e in qualsivoglia dottrina maggioreggiare nel primo glorioso regno d’Italia. La buona abitudine dell’ingegno, i sani ammaestramenti, e sopratutto l’esempio de' valentuomini suoi concittadini, che tanto colle scienze e le lettere illustravano allora la patria quanto o per malefico influsso di stelle o per naturale effetto di perniciosa istruzione ora n’è povera, gl’instillarono l’amore del sapere e delle lettere; il quale è sempre più desto e forte là dove gli studj più sono apprezzati e coltivati. Fiorivano allora lo Spallanzani, il Corti, il Venturi, il Re, il Paradisi, il Lamberti, il Cassoli; e con esso loro altri men conosciuti ma non meno benemeriti dei patrii studj, l’ab. Fantuzzi, il p. Catellani, l’ingegner Bolognini, il consiglier Nobili, padre del celebre Fisico: e da questi ebbe più volte a dirmi di aver ricevuto consiglio ed animo a fornirsi di sapere e a ornarsi di lettere. Quel sapere intendeva, che quanto più per le mutate condizioni dei tempi (i quali più non consentono alla sprincipata nobiltà di anteporre i dappochi ai dassai) è oggi necessario e utile, tanto più quì con vitupero non minore del danno parmi troppo negletto, e spesso per ignavia superba disprezzato: quasi che la dottrina oggi facesse danno e impedimento, come per l’addietro, al conseguimento di onorati uffici, e la ragion di stato di un governo libero fosse nemica della virtù, o non consapevole o dimentica che la gloria segue mai sempre più volentieri la libertà. E similmente intendeva quelle lettere, ch’egli, come principale e valido ajuto della civiltà e della eloquenza dei liberi ingegni, coltivò con affettuoso e nobile desiderio per tutta la vita, quanto gli consentirono l’esercizio della giurisprudenza e le sventure comuni alla più parte dei migliori Italiani. Ma sopratutto fino dalla giovinezza fu preso d’amore per lo sacrosanto poema di Dante: «divino libro (válgomi un tratto delle parole di un sommo scrittore2) che incuora tanto amore verso la madre Italia, e santissimo sdegno contra gli esterni e contra gl’interni suoi nemici; e ch’è veramente il sacro libro che tutti dovremmo devotamente imparare a memoria.» La qual cosa, a mio senno, torna a compiuta prova del raro e perfetto giudizio del Ferrari; tra le cui carte con ordinate memorie di storia, di varie scienze, di arte di stato, di varia letteratura trovo non pochi studj giovanili sopra Dante: non presciente l’ottimo ed impígro giovine, alla gloriosa entrata dello stante secolo, della futura sorte propria; cioè di doverlo poi vie più sentire e amare e intendere nelle stesse condizioni del poeta, che dovea consolargli l’esiglio! Prudente e meno sventurato lui; chè in tempi pericolosi e malvagi visse celibe! Imperciocché fu poi sbalzato anch’egli di patria per avervi dimostrato con altri insieme che non è degno di schiavitù chi la detesta, e che rimangono grandi speranze di libertà a chi fortemente la desidera. La qual cosa nessun uomo assennato avrebbe mai potuto imaginare che fosse poi, com’è accaduto ed accade, vilipesa e schernita da chi venne (per lo più senza fatica) in possesso di libertà: ignaro o perfidiosamente dissimulante che dagli operosi ed efficaci pensieri degli studj e da’ virili propositi de’ valentuomini nè venne affrettata e conquistata; nè fatto capace che l’ingegno e la parola sono la potenza e l’arme più solide e tremende; forse lente, ma sicure ed umane vincitrici del mondo. È pur difficile sfuggire oggidì l’arroganza degl’infimi faziosi, che si reputano, come la fastidiosa e derisa mosca della favola, portatori e guidatori di libertà: la quale nasce e vive di sapienza e di moralitade, e non meno dalla licenza che dalla tirannide aborre.

Compiuti gli studj legali, il Ferrari, salvo breve tempo passato per ragion d’uffizio all’Aulla in val di Magra, trasse fino al cinquantesimo anno tranquilla vita in patria; dove con eccellente successo di fortuna e di lode esercitò l’avvocatura, e dove rimane ancora memoria delle sue dotte e faconde arringhe; tanto nel tutto insieme aliene dalla consueta barbarie del Foro, quanto dalla presuntuosa loquacità d’alcuni nostri moderni, confusa dagli sciocchi colla facondia, e più spesso (maraviglioso a dirsi) colla eloquenza! Finchè, fatto noi qui segno e moto d’uscire di servitù, e, per la servile paura di chi avvezzo ad obedire non s’attentava di comandare, chiamato egli dalla pubblica voce a rappresentare insieme con pochi la breve favola di libertà del 1831, e messa ogni cura a mantenerla virtuosa, dovette poco dopo sottrarsi alla mostruosa ferocia dell’imminente tiranno, solito di chiamarci ribelli perchè non gli eravamo schiavi; ed, essendo cosa naturale ne’ príncipi crudeli e tiranni la timidità, tanto più temuto vendicatore quanto più n’era stata grande la paura di perdere la due volte minacciata potenza. Laonde rifuggissi nella ospitale Francia, accompagnatovi dall’affetto dei concittadini, dalle proprie virtù, dagli studj consolatori. Quivi, poichè anche allora, come ora e sempre, alcuni, i quali non men poveri di valore e d’atti virtuosi che ricchi di pretensioni e di orgoglio ploravere suis non respondere favorem speratum meritis o non carpirono agognate prede, pagatrici e nutrici d’ozio e di vizi, gli dieder carico delle colpe solite darsi a’ reggitori nelle mutazioni di stato, egli scrisse franca e poderosa apología di se e degli atti suoi; la quale conferma la sentenza che dove l’uom parla di se è quasi sempre eloquente. Quivi conobbe veramente l’efficace conforto degli studj nelle sventure, e la riverenza benevola che ne procacciano presso le nazioni civili; e quanto con essi, dovunque l’uomo sia balzato dalla fortuna, possa giovarsi alla patria: poiché, mercè loro, entrato nella grazia e nell1 amicizia de’ valentuomini francesi potè con parziali agevolezze aver adito in tutte le biblioteche di quella generosa e coltissima nazione; alla quale anch’egli mostrò non esser degna di servitù questa gloriosa madre Italia, d’ogni alta cosa risuscitatrice e maestra, e quanto era degno di onore chi non antepose un ozio tranquillo a libertà faticosa. Quivi ripigliò con tenace amore i suoi studj sopra la divina Comedia: ne lesse tutti i codici, ne trascrisse tutte le varie lezioni e tutte quelle parti di antichi e mal conosciuti commenti, che spargevano maggior luce o sopra fatti storici del poema o sopra la vita e l’intenzion del poeta. Nè contento a’ codici di Parigi raffrontò quelli di Londra, e più tardi di Toscana: sicchè raccolse, strinse, ornò della propria dottrina un fascio di preziosi studj. De’ quali l’anno 1851 pubblicò appena un piccol saggio bellissimo nell'Etruria giornale fiorentino, e de’ quali fecero più volte onorevole e desiderosa menzione molti dei nostri nè pochi degli stranieri; ma singolarmente il Visconte Colombo De Batines e Lord Giorgio Vernon Pari d’Inghilterra, celebri e benemeriti ammiratori di Dante. Ed oltre questi lavori principali, egli, cultore amoroso e intelligente della lingua de’ migliori secoli, essendogli paruto sempre vilissimo e perniciosissimo l’abbandonare la particolare natura della propria nazione sì nel modo di concepire come di esprimere e vestire il pensiero, principal fondamento di nazionalità3, trasse da’ mano scritti antichi di Parigi e di Firenze lettere, vite, aneddoti, passi di storie italiane, poesie, tutto inedite; fra le quali le rudi ma pensierose canzoni di Bindo Bonichi da Siena, coetaneo di Dante. Per la maggiore intelligenza delle quali volea distendere, e parte distese, profittevol commento. Trasse ancora da’ codici Parigini tutte le poesie non venute in luce di Luigi Alamanni, famoso poeta ed esule toscano di tre secoli addietro; le quali diede poi da pubblicare all’illustre e benemerito editore cav. Felice Le Monnier. È indicibile la cura e l’ordine e lo studio da lui posto in queste onorate fatiche, e nelle note dichiarative, e nelle vite degli scrittori, e nelle memorie storiche de’ tempi loro; le quali cose la difficile contentatura (propria degli esperti e de’ giudiziosi) e la travagliosa vecchiezza gl’impedirono di partecipare agli studiosi. I quali pur duolmi che rimangano senza le molte e dotte note al catalogo de’ Manoscritti italiani conservati nelle biblioteche di Parigi pubblicato dal prof. Antonio Marsand con maggiore apparato di esteriore eleganza che d’interior buona critica, colle quali l’avv. Ferrari medica i molti e strani errori del quivi poco attento catalogista.

Sedici anni dopo gli amari passi dell’esiglio oltralpe del nostro collega, ecco prorompere da capo l’impeto virtuoso e lo sdegno giusto degl’Italiani, mediante particolarmente l’esempio d’un Re nostro, generoso e sfortunato; ed ecco l’avv. Ferrari assunto ancora nel 1848 con altri savi e buoni cittadini al governo dell’abbandonato paese, anzi pure del nostro che fu Ducato. Nel qual tempo egli mostrò maggiormente senno e prudenza e coraggio non ordinario nel maneggiar uomini e cose, e contra l’imperversare delle fazioni, preparate rovine d’ogni libertà. Per le quali rotta in gran parte come la concordia così la nascente fortuna della patria, ei fu travolto di nuovo nell’onde delle avversità italiane. Ma, fiducioso di più destro e fortunato piloto e della ineluttabile e più diffusa ragion del diritto, non uscì d’Italia, e ricoverossi a Firenze. Dove spese altri undici anni nell’accrescere e compire i suoi cari studj danteschi; riverito per senno e dottrina e gentilezza dal fiore dei letterati e dei savi di quell’ammirabile Atene. Finchè, rivendicatasi per virtù propria ed altrui quasi tutta l’Italia in libertà, rimpatriò gravato dal peso della vecchiaja l’anno 1859 l’onorando nostro con cittadino; amato e venerato da tutti quelli ai quali non fanno pena e vergogna le virtù e gli studj, decorato dal Re con segno d’onore tanto più osservabile quanto più meritato dalla intemerata sua vita e dalla virtuosa modestia; ma poscia sventurato segno ai meritevoli e ai dabbene, perchè anche le grazie e le onoranze profuse diventano meretrici. Altri per avventura provvederà alla conservazione e pubblicazione degli studj di lui; che già consegnò al chiaro amico suo cav. Giuseppe Campi, Prefetto dell’archivio palatino di Modena, le varie lezioni della divina Comedia, e a me le canzoni del Bonichi: alcune delle quali furono in questo mezzo divulgate da altri. Ricordo con doloroso desiderio la cara conversazione con gravità e dignità di pensieri di quell’eccellente uomo (pur mio collega nella R. Commissione per li testi di lingua) pieno di prudenza, di acuto intelletto, di erudizione non ordinaria, amatore operoso di ogni bene della comune madre Italia: la quale dopo tanti moti e burrasche è prossima a trovare il suo piano, e della quale egli morì consolato d’aver benchè tardi veduta la tanti secoli e da tanti magnanimi e grandi uomini sospirata libertà con segni credibili di lunga e prosperosa fortuna. È perciò degno che la patria ricordi ed onori ad eccitamento degli studiosi, a rimprovero degl’infingardi gli uomini come lui che non riputarono vano trastullo di oziosi ma necessari strumenti di civiltà gli studj; ed è vie più degno ed onesto che lo ricordi con affetto cordiale la nostra piccola società, da lui vivendo onorati. Maggiormente che molti oggigiorno sdegnano di conoscere quello che furono i padri nostri, quello che fecero e quello che patirono; sicchè, perchè forse non adularono le fecciose passioni del popolo, manca loro spesso, come vediamo, la riconoscenza de’ sopravissuti. A noi certamente l’affettuosa commemorazione dei savi e dei buoni addolcisce l’animo amareggiato e travagliato dall’osceno spettacolo d’un putridume orgoglioso e fazioso, e ne dà polso e lena a perseverare nello studio della sapienza e della rettitudine.


  1. Territorio Reggiano, presso al famoso castello di Canossa.
  2. Pietro Giordani; e chi l’ha per male scingasi.
  3. Non posso tenermi dal recar quì, come fo, alcune parole d’un chiaro e ragguardevol filosofo Siciliano; e perchè quì tornano molto acconce e perchè racchiudono una profonda e incontrastabile verità, «...... Se pietà ci muove del nome italiano, se non vogliamo in casa barbari peggiori che i discesi un tempo a battere colle lor mazze i monumenti e le mura delle nostre città, ognuno ricordi che la nazionalità de’ popoli sta più nel pensiero che ne’ confini geografici e nei governi; e che, ove sia perduta la nazionalità della mente, della favella, degli studj, è ludibrio la nazionalità de’ confini: la quale presto o tardi se ottenuta si perde, come per la prima nazionalità se già non posseduta si acquista.» (Delle attinenze tra il panteismo e il materialismo nella storia contemporanea della filosofia per Vincenzo di Giovanni. Napoli, stamperia del Fibreno, 1866).

Note

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