< Rime (Cavalcanti)
Questo testo è stato riletto e controllato.
Guido Cavalcanti - Rime (XIII secolo)
Riassunto estetico
Le Rime originali ed apocrife

RIASSUNTO ESTETICO



      Io debbo anzitutto giustificare l’ordine ch’io scelsi nella publicazione delle rime, che è quello che a me sembra dover approssimativamente corrispondere a lo sviluppo dell’arte di Guido. Sarà giustificazione parziale e non completa, perchè io mi lasciai in parte guidare da un’istintiva distribuzione, che mi si delineò a la mente chiarissima per il lungo amore ch’io a queste rime dedicai. E, poi che anche qualche possibile errore di ordine non reca nè vantaggio nè danno a la integrità ed a la correttezza delle rime del nostro, osai tenere questa distribuzione, basata più che tutto su l’impressione estetica. Lasciai in un gruppo solo e centrale le rime d’epoca più incerta, perchè io credo fuor d’ogni dubbio ch’esse sieno state scritte nell’epoca più amorosa della vita di Guido, la quale epoca è racchiusa fra la produzione quasi didascalica della giovinezza e la produzione dolorosa delusa e mordace degli ultimi anni. Se quindi parzialmente alcuna delle rime tiene un posto che non le sia dovuto, totalmente esse sono veramente ordinate in gruppi maggiori, che delineano lo svilupparsi, a traverso la vita materiale, della vita intellettiva e poetica del Cavalcanti.

I sonetti del trattato di ben servire o d’amore rappresentano la produzione de’ primi anni di Guido, il quale nel quadro di una sua sapienza amorosa chiudeva la narrazione delle sue vere prime angoscie d’amore. Poi, primo fra le rime sparse, io pongo un sonetto che nella forma ricorda la maniera dei sonetti primi e determina il progettato invio di alcune rime ad un amico: ciò che avviene più facilmente negli anni più giovanili di un poeta e specialmente doveva avvenire per Guido, distratto poi da le conversazioni poetiche da più gravi e più solenni casi. I sonetti del trattato di ben servire io porrei più tardi del 1275, non potendo ammettere che ne fosse autore un poeta di men che vent’anni, data la già compiuta conoscenza delle dottrine d’amore e per l’esser vissuto Ildebrandino, di cui il Salvadori 1 dimostrò l’influenza su Guido, fino al 1279. Il sonetto:


Vedeste al mio parere ogni valore...

è dell’anno 1283, perchè è risposta al sogno di Dante e segna il sorgere dell’amicizia fra i due poeti. Più tardo è certamente il sonetto pur di risposta:


S’io fossi quelli che d’amor fu degno.....


in cui il poeta parla di sè più che dell’amico: l’imagine dell’arciere che ha fatto giocondamente segno di lui, si ripete nel sonetto:


O tu che porti negli occhi sovente.....


che invece deve riportarsi ad epoca più tarda.

Un sonetto che si può senza esitazione riportare ad anni più tardi è quello a Nerone Cavalcanti, poichè Guido cominciò la sua vita pubblica nel 1284 e l’odio non doveva scaturire sì presto da l’animo del marito della figlia di Farinata: si deve anzi riportarlo dopo gli Ordinamenti di Giustizia, perchè l’odio si manifestò al formarsi dei partiti de’ Bianchi e de’ Neri ed i Buondelmonti furono dei Neri. Pure a più tardi deve riportarsi il sonetto:


Una giovane donna di Tolosa.....


e la ballata:


Era in pensier d’amor quand’io trovai.....


perchè si riferiscono al viaggio in Provenza, che per l’agguato di Corso Donati avveniva, secondo Dino Compagni, durante le inimicizie dopo il 1292. A questo amore già tardo per la Tolosana Mandetta si unisce il sonetto:


O tu che porti ne gli occhi sovente.....


Ancor più tardo è il sonetto:


Noi sian le triste penne isbigotite.....


che rivela quell’arrestarsi del poeta a le cose reali, che facilmente si riscontra nota speciale dell’ultima epoca e più realista dell’arte sua. Le parole "scritte dolorosamente„ ed inviate e tutta la intonazione del sonetto ci conducono a gli estremi dolori di Guido sul declinare della vita.

In questa ultima età non è più l’esame entusiastico dei fascini muliebri nel cuore innamorato, ma l’esame pietoso del dolore e l’invio di questo dolore a la donna, speranza ultima e prima dell’anima sua.

Poco dopo la morte di Beatrice fu senza dubbio scritto il sonetto di rimprovero a Dante: forse anche un po’ più tardi, ammettendo che Guido rimproverasse l’amico, oltre che per una sua vita poco assennata, anche per l’adesione al popolo dopo gli Ordinamenti di Giustizia.

Tentiamo quindi di precisare i termini dell’amore per Giovanna, il quale non durava più quando Dante scriveva il sonetto:


Io mi sentii svegliar dentro lo core.....


ossia era già finito prima del 1290, anno della morte di Beatrice. Certamente Guido amava ancora Giovanna dopo il 1283, data la buona deduzione dell’Ercole relativamente al sonetto:


Guido, vorrei che tu e Lapo ed io.....


cui Guido rispose con il sonetto:


S’io fossi quelli che d’amor fu degno.....


ove diceva che per lui «di merzè non nasce speranza».

Guido quindi non era ancòra benevoluto da la donna. Era il principio? o cominciava l’abbandono? Il quale parrebbe espresso da le parole:


del qual non trovo sol che rimembranza.


Non si può precisare: certo è che qui i tre poeti sono da Dante messi insieme e quindi logicamente si deve porre prima di quello il sonetto:


Se vedi amore assai ti prego, Dante.....


in cui Guido dubita che Lapo sia veramente amoroso e degno di accogliere in sè l’amore.

Resta a vedere un altro sonetto a Dante:


Dante, un sospiro messagger del core.....


in cui nel «servitore di monna Lagia» l’Ercole vedrebbe Guido Orlandi, riferendosi al sonetto


Amore e monna Lagia e Guido ed io.....


Cerchiamo quindi quali furono le relazioni con l’Orlandi. Questo sonetto ultimo rivela che durante l’amore per Giovanna i due poeti erano buoni amici; più anche prova una scapatella del poeta. Prima quindi devesi riportare il sonetto a Dante, perchè l’essersi Guido rivolto a Dante e non a l’Orlandi stesso, fa credere che egli fosse amico di lui meno di Dante. L’amicizia fra i due Guidi sarebbe più tarda del 1283, in cui cominciò l’amicizia fra Dante e il Cavalcanti. Più tarda è anche la canzone filosofica che parte da la proposta dell’Orlandi: ma l’amicizia non doveva essere allora ancor intima fra i due poeti se l’Orlandi scriveva:


odo che molto usate in la sua corte.


Tutte queste rime si dovrebbero riportare fra l’’83 ed il ’90.

Relativamente a la ballata:


Poi che di doglia cor conven ch’i’ porti.....


l’Orlandi scrisse a Guido un sonetto pungente, da cui venne fra i poeti un dissidio: prima quindi deve essere la gentile proposta del Cavalcanti:


La bella donna dove amor si mostra.....


cui venne da l’Orlandi una cortese, se pur goffa, risposta. Poi Guido pare godesse, probabilmente dopo il dissidio, a tormentare l’antico amico ed a stuzzicarlo con sonetti anonimi, come appare da la rubrica di Va al sonetto:


Una figura della donna mia.....


L’Orlandi vi riconobbe la mano del nostro poeta, che si divertiva a trascinarlo a goffe dichiarazioni, onde le due figure si delineano perfettamente: l’Orlandi bonaccione ed imbarazzato da l’acutezza dell’avversario, il Cavalcanti mordace aggressivo pungente.

A Giovanna detta «Primavera» alcune rime si riferiscono certamente. Tali: la ballata


Fresca rosa novella.....


il sonetto


Avete ’n vo’ li fiori e la verdura.....


che si riferiscono ai primi tempi d’amore, quando la bellezza eccellente della donna traeva il poeta ai paragoni più raffinati.

Così pure probabilmente sono di quest’epoca i sonetti:


Chi è questa che ven ch’ogn’om la mira....
Beltà di donna di piagente core....

nei quali non è ancor stabilito il carattere speciale dell'anima dell'amoroso e della donna, mentre la ballata sembrerebbe la prima timida dichiarazione. Qui però non deve essersi arrestato quest' amore, che fu forse il più forte del nostro poeta.

Già nella ballata si mostrava una speranza, onde il poeta gaiamente cantava. E gaiamente forse apparvero primieramente a Guido la donna e l'amore di lei, cui ben s'addiceva il gaio nome di Primavera. Forse questa gaia donna cominciò a guardarlo severamente, come egli quasi prevedeva nella ballata: così il sonetto:


Io vidi li occhi dove amor si mise.....


Ella aveva guardato li folli occhi che rivelavano amore ed aveva riso: poi forse se ne corrucciò, onde un doloroso presentimento strinse l'animo del poeta.


Son: Li miei folli occhi che prima guardaro.....


La bellezza superba di Giovanna è espressa anche nella ballata:


Io vidi donne co' la donna mia.....


e queste due ballate, specie la prima, hanno un tipo metrico diverso da quello che acquisteranno più tardi le ballate meravigliose di Guido. Il momento tragico pare intanto si avvicini. Da quali rime è espresso questo dolore ?

Non si sa chiaramente; certo da alcune di quelle che sono costretto a porre fra le rime d' epoca incerta. Ma perchè Giovanna fu certo di grande bellezza, come Dante attesta, e questa bellezza si rispecchia nella Canzone:


Io non pensava che lo cor giamai.....


in cui « i libri d'amore » ricordano la giovinezza ancor prossima, io pongo fra le rime per Giovanna anche la canzone.

A gli ultimi tempi riporto con l' Ercole le ballate:


La forte e nova mia disaventura....
Poi ch' io non spero di tornar giamai....


mentre l parallelo evidente della conseguenza delle ballate:


Poi che di doglia cor conven ch' i' porti....
Se m' à del tutto obliato merzede....


con il trattato di ben servire, mi fa ricondurle a l' amore di Giovanna, non al primo della giovinezza, per l' espressione amorosa che vi è tanto diversa. Per questo anche non accetto l’opinione del Salvadori che vorrebbe contemporanee ai sonetti del trattato le ballate:


Se m’à del tutto obliato merzede....
        Quando di morte mi conven trar vita....


A più tarda età, dopo cioè l’amore di Giovanna, riporterei la ballata:


In un boschetto trovai pasturella.....


dominata da una nota sensuale, contraria a quella sottigliezza tragica che avvolse l’età piena di Guido. La vita dolorosa lo fece poi più positivo e più umano.

Fin che durava la pace in Firenze i poeti godevano delle loro tenzoni: poi il tenzonare poetico tacque dinanzi al fragore delle armi: non si scambiarono più sonetti nè pur Dante e Guido. Per questo presumibilmente si può riportare ad epoca non tarda, prima del ’90, il mottetto a Gianni Alfani ed il sonetto a Bernardo da Bologna. Quanto a le altre donne, oltre a Giovanna e Mandetta, nulla si può precisare. Certo Guido fu uomo di molti amori e la donna ultima, cui venne la dolente ballata estrema, non fu certo Giovanna. Io credo debbansi porre invece in epoca tarda i sonetti:


Se non ti caggia la tua Santalena.....


ed a Manetto, perchè quella punta acuta di satira si esplicò in Guido più che tutto nella maturità della vita ed a farlo acre contribuì forse l’amore di Giovanna, che dovette non essere molto felice. Tardi io li credo anche per la straordinaria raffinatezza della pittura, più propria d’artista maturo che di giovine poeta travagliato da angoscie d’amore.

Si può ora osservare che ben sette, degli undici sonetti con rima di terza alternata, sono compresi fra quelli che appartengono a la prima età poetica di Guido, con relazione evidente a la metrica del trattato di ben servire: e che in questi sonetti scritti prima del ’90 sono diversi nell’ordine delle rime quasi soltanto quelli che sono risposte per le rime d’altri poeti. A questo schema nei sonetti più tardi si sostituisce a poco a poco l’ordine delle terzine:


c. d. e — d. c. e


usato molto da Dante e quasi esclusivo in Cino da Pistoia.

Meravigliosa figura di poeta e d’uomo e di cittadino è questa di Guido: un contrasto perenne di cortesia e di fierezza, di soavità e di asprezza, di meditazione e di rapida temerarietà.

Da la giovinezza pensierosa e meditante, quando s’aggirava solo fra l’arche dei morti, onde la gente susurrava ch’egli cercasse di provare che Dio non fosse, a la prima virilità tutta data al dolce inseguimento delle rime amorose, come a ricerca di donne desiate, a l’età più tarda turbolenta ed agitata dell’uomo politico, a gli ultimi sospiri dell’esule chiamante invano nel nome della patria la donna amata e l’amorosa nel nome della terra lontana, sempre nella vita di Guido dura una nota specialissima e gagliarda di ardimento novo, di originalità chiara, di desideri inesausti, raramente dominati, spesso dominatori di ogni volontà. Egli passa nella vita fiorentina dell’ultimo dugento dolce come Cino, battagliero come Corso, superbo e disdegnoso come Farinata, severo come Dante: non seppe e non poteva essere saggio come Dino Compagni. E le sue rime, rimesse a più completa forma con l’aggiunta dei sonetti giovenili, segnano lo sviluppo dell’arte sua, parallelo a lo sviluppo della vita.

Quale era stata la vita politica italiana quando Guido nasceva? quali voci venivano a lui quando egli schiudeva l’anima a la poesia ed al sentimento d’amore? I popoli del settentrione non avevano serrate le Alpi magnifiche dinanzi al Cesare teutonico, quasi che a la maestà imperiale non si potesse proibire il passo per le terre romane: ma si erano chiusi nelle loro città, dimenticando le praterie feconde abbandonate alla devastazione de’ cavalli tedeschi: s’erano chiusi nelle città ove posava il carroccio, fieri di libertà cittadina, con quell’amore possente che rizzava più tardi i meravigliosi adornamenti delle cattedrali, con quello spirito gretto del comune, che dura ancor oggi velato da la fraternità di una patria sola. Ed un papa italiano, Alessandro III, benediva quella feconda gagliardia italica, innanzi a cui Cesare fuggiva seminando la via di Susa di pendenti cadaveri, incoscienti e pietosi arrestatori delle vendette comunali, come grossi frutti maledetti di quelle piante italiche, su cui passava fecondatore il soffio delle tempeste.

Invano la breve ferocia di Arrigo VI, «secondo vento di Soave» aveva tentato di domare l’Italia ribelle: invano il figlio della gran Costanza, il nato di Iesi, con la visione chimerica di un mondo imperiale, aveva lottato contro la Chiesa, che su molti comuni s’appoggiava, quando il cardinale Fieschi aveva sepolto sotto la tiara di pontefice l’amicizia per il gagliardo imperatore. Ultimo e principe quasi italiano, Manfredi aveva ridestato il pensiero ghibellino che in una sùbita riscossa aveva condotto i fiorentini a Montaperti: indi, caduto a Benevento, aveva lasciato uno strascico di lotte piccole e feroci fra gli avversi comuni. Ed in mezzo a lo strepito delle armi sorgevano le prime voci della poesia italiana, timido fiore seminato da mani imperiali e culto e raccolto da mani di notai e di signori e di mercatanti. Era già sfiorita fra la rovina sanguinosa quella poesia di Provenza che nell’adorazione convenzionale della donna nascondeva i fremiti dell’amore dei sensi: erano passati il canto della contessa de Dia ed il desiderio di Girautz de Borneilh: ma erano anche discesi in Italia con il profumo delle ultime rose, portandone quasi la sensualità ascosa nella morbidezza delle foglie. La poesia italiana, affascinata da tanta squisitezza di rime, moveva passi incerti e non sapeva staccarsi ancóra del tutto da la prima inspiratrice. Anche Guido Cavalcanti raccolse questa eredità di poesia d’imitazione e nella giovinezza, quando non ancóra la forza dell’intelletto lo traeva a concezioni ed espressioni nuove, risentì nelle parole e nei concetti la tradizione provenzale. Tali sono i sonetti del trattato di ben servire, i quali riuniscono l’imitazione di Provenza e la corrente secondaria della poesia toscana e bolognese.

La giovinezza del poeta si rivela in tutta la tessitura di questo trattato, specie nella vicenda delle considerazioni metodiche e studiose e della narrazione reale, ancor incerta, dei veri fenomeni psicologici. Messosi a l'opera con l'intento di trattare obbiettivamente la questione d' amore, il giovane poeta a quando si lascia trascinare a le espressioni del suo vero stato amoroso, insinua la passione soggettiva nella discussione obbiettiva, anima di un certo movimento dramatico il freddo andamento didascalico. Da prima è l'osservazione del suo sentimento amoroso ed il canto dell' anima amorosa: poi a poco a poco si fa sentire la nota triste della delusione, che fa più acuto il desiderio: sì che il primo trattato, movendo da la discussione teorica per la felicità d'amore a lo stato tragico del dolore amoroso, rappresenta quasi il sunto di quella che sarà l' intera vita poetica di Guido Cavalcanti. Studioso dei libri d' amore egli aveva acquistato già fama di sapiente ed egli solo sa interpetrare nel giusto valore il primo sogno di Dante: più anziano di questi egli è il vero iniziatore di quella grande età poetica che Dante trasse al sommo della perfezione, è il padre dello stil nuovo, come Dante ne è il dominatore e l' artefice perfetto. Mentre Dante sposava nella sua scienza le dottrine amorose e le dottrine ascetiche, Guido si tenne a le prime soltanto, forse per la tradizione ereditaria del padre epicureo, forse per quel « disdegno » che Dante attesta presso l' arca di Farinata, e pieno egli era di questa saggezza amorosa quando una donna lo tolse ad ogni sapienza fredda, saettandogli da gli occhi belli nell'anima l'amore con tutte le sue ansie e le sue speranze. Egli fu illora a volte poeta scolastico, a volte poeta altissimo e veritiero.

Quella donna ben raccoglieva in sé tutte le bellezze più alte, tutta la leggiadria che suole essere diffusa per tutta la natura nel tempo più fiorito e più ridente ! E la dissero: primavera. Fu da prima in Guido uno stupore per la tanta bellezza ed una ricerca di ogni paragone più lieto per esprimere la letizia di quel viso chiaro. Poi, quando l'amore a poco a poco ingagliardiva nell' anima, fu un seguito perenne di visioni ultraumane, un apparire a gli occhi estatici di stelle e di pietose figure muliebri, pioventi quasi dal cielo, materiate d' aria e viventi nell' aria, donde sorridevano pallide consolatrici a l' anima travagliata ch' era cosa tutta di amore. In questa ancor giovine età, che si distingue per l' amore di Giovanna, la realtà è avvolta nella forma poetica sempre con veli sottili ed insustanziali: più tardi verrà a dominare nell' arte di Guido un verismo o tragico o satirico o sensuale.

Caduto l'amore di Giovanna, altri amori dovettero tenere l'anima del poeta: più notevole fra gli altri quello della Mandetta di Tolosa, che pare risvegliasse nella mente del pellegrino di S. Iacopo l' imagine della donna maggiormente amata. Eccessivo quasi sempre in ogni suo sentimento, egli forse eccedette anche nell'amore, onde le punture dei poeti su la sua natura erotica: cui egli rispondeva con quel tono tutto suo di superiorità sprezzante, di chi getta un dardo a nemico indegno e se ne volge sdegnoso. Come amara faceva intanto la sua poesia la triste vita decorrente ! Allora nella maggior parte egli trasse da l' anima le ballate, l' espressione più pura e più intera della sua facoltà poetica. Con esse scherzò e pianse, schernì e si dolse: più che tutto cantò la intimità dolorosa del suo sentimento, che si racchiudeva in sé stesso, sfuggendo al contatto di gente a lui poco grata e che gli pareva forse molto da meno di lui. Il popolo grasso intanto trionfava in Firenze a danno dei grandi, costretti a curvare le fronti sdegnose che, come feditori, essi avevano offerte ai dardi a Campaldino: la costituzione del '66 di Lod eringo degli Andalò e Catalano dei Malavolti, modificata nel '82, cadeva nel '93 per gli ordinamenti di Giano della Bella, apostata dei grandi per le offese di Berto Frescobaldi, e Guido, che dei grandi era, facevasi ancor più sdegnoso e mirava con occhio torvo la marea democratica e stringevasi ai Cerchi ed ai Tosinghi, preparando il dardo contro Corso Donati. Bisognava che tali anime irose e superbe uscisser di Firenze perchè Bonifacio VIII potesse toccare la méta del suo avido sogno: tota Tuscia sibi dari : e la lotta fiorentina divampava più terribile, dilagava per le vie nel Calen di Maggio del 1300, mentre il papa ne godeva e preparava le feste del giubileo. Allora per la mano di Dante, dell' amico suo primo, il quale era tratto da un desiderio di pace e di libertà, Guido Cavalcanti deve uscire di patria ed avviarsi a la morte nelle febbri di Sarzana. La sua anima, assetata di vendetta, non potrà godere della morte di Corso fuggente sotto i colpi degli inseguitori, né di Bonifacio umiliato al Nazaret e fatto vile da lo schiaffo di Sciarra Colonna.

Egli rientrerà in Firenze con la febbre nelle vene, annunziando insieme l'arrivo e la morte con la soavissima e disperata ballatetta estrema. In questi ultimi tempi ogni freddezza filosofica, ogni serena adorazione d'amore sfugge da le rime di Guido: non resta che il dolore e la rabbia politica e lo scherno acuto, tutti propri di un'anima, che molto ha sofferto e molto odia e poco spera. Ma l'arte sua invece è in un progresso continuo e tocca il vertice nel supremo addio a la vita: l' uomo e il poeta si fondono in un solo cantor doloroso e l' artefice studioso dilegua di fronte al poeta eterno del dolore e dell'amore, eterni come la vita susseguentesi delle umane generazioni. Partendo da la imitazione provenzale e del Guinicelli, Guido, sempre sincero e sicuro, arriva per via tutta sua a l' espressione più complessa della sua anima poetica e, mentre Dante si volge al volo sublime, egli, stretto a la terra, risente ogni puntura ed ogni dolcezza della vita reale e se ne fa poeta. Così egli attraversa la seconda metà del dugento severo e gagliardo con tutte le grandi virtù e con tutti i grandi vizi delle creature sovrane.

  1. Op. cit.

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.