< Rime (Guittone d'Arezzo)
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Guittone d'Arezzo - Rime (XIII secolo)
Amor tanto altamente
Ahi, lasso, che li boni e li malvagi Gioia gioiosa piagente


XXI

Non chiedendo, ma meritando si ottiene guiderdone in amore.


 
     Amor tanto altamente
lo meo entendimento
ave miso, che nente
aggio ardimento — di contare e dire
5como di lei m’ha priso;
ma vista tal presento,
che lei ha certo miso
come ’n suo segnoraggio meo desire.
A che di ciò m’aveggio,
10certo celar nol deggio;
non che celar lo bene
che del segnore avene — fosse fallire,
(falla chi piú piacente
nol fa, che ’l ver consente),
15ma a lo male dia
om ben donare obbria, — poi vol servire.
     Eo, che servir talento,
la detta via tegno:
al male obbria consento,
20al ben, che ’n mente e ’n viso ognor me sia;
e l’opra laudata
(di ciò metter son degno)
è sí, che sia cercata
a chi è d’alta donna en segnoria.
25Se serve for fallenza,

che non aggia temenza
perché tant’alta sia,
ché giá per gentilia — non vene orgoglio;
ma en ciò non fallire
30li po gioia sentire;
ed omo che desia
de su’ par segnoria — laudar non voglio.
     Tant’alto segnoraggio
ho disiato avere,
35non credo aver ned aggio
al mondo par, secondo mia valenza;
e ciò considerando
quanto e dolze e piacere
su me distese amando,
40vecino foi che morto di temenza.
Ma vaccio mi riprese
un pensero cortese:
com sempre gentilezza
face locare altezza — en pietanza.
45Allor temor demisi,
fedeltá li promisi;
como l’avea en coraggio
lei feci prender saggio — per semblanza.
     Poi ch’aprovò lo saggio
50con fina conoscenza,
ch’era di fin omaggio,
ma’ fo suo segnoraggio — conceduto.
Nel suo chiarito viso
amorosa piagenza
55fue d’alto core miso,
ch’el senza ciò non mai fora partuto.
Quando de ciò m’accorse,
tal gioia en cor me sorse,
che mi face affollire:
60e veggio pur grazire — me ’n sua plagenza.
Adonque non dannaggio

mi fa lo temor ch’aggio,
ma deggiol bene amare,
ché storbato m’ha fare — ver lei fallenza.
     65Fallenza era demando
far lei senza ragione;
poi veggio che, sí stando,
m’ha sovrameritato el meo servire.
Però ’n tacer m’asservo,
70perché giá guiderdone
non dea cheder bon servo;
bisogna i’ n’ho, che ’l chere ’l suo servire,
se no atendendo m’allasso;
poi m’avvenisse, lasso!,
75che mi trovasse in fallo
sí come Prezevallo — a non cherere.
Verrei a presente morto!
Ma non tal penser porto,
né sí mala credenza,
80ché sola conoscenza — halla in podere.
     Va, canzone, a lei ch’ene
donna e segnor di mene,
e di’ che ’n nulla cosa
che lei non sia gioiosa — e’ non so vago,
85ma di starle servente
tacitore e soffrente;
e vo che di me faccia
tutto ciò che le piaccia; — ed e’ me pago.
     Poi Mazeo di Rico,
90ch’è di fin pregio rico,
mi saluta, mi spia;
e di’ ch’a ragion fia — el guiderdone
dea perder chi ’l chiede;
e di ciò fagli fede,
95che ’l servir piú dispregia
e guiderdon non pregia — a tal cagione.

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