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A IACOPO VITTORELLI1.
Risplende appena in Oriente, e un fianco
Del solingo mio letto il Sole indora,
Ch’io con le dita frettolose il sonno
Scaccio dagli occhi, e prendo in man la cetra.
E come è fama, che nel sacro Egitto
Di Mennone s’udisse il simulacro
Risonar, tosto che di Febo i primi
Purpurei raggi il percuoteano, anch’io,
Tocco dal Nume degl’ingegni, mando
Mattutine dal sen voci canore.
Tu ridi, Amico: tu, che gli anni muto,
Come un abitator dell’onde, vivi,
E pur nascesti per cantar qual bianco
Del suol, del ciel, dell’acque ospite cigno.
Dunque un Mevio, ed un Bavio entro le mie
Non colpevoli orecchie i lor malnati
Versi non versi lancieran mai sempre;
E tu, amor delle vergini di Pindo,
Tu, vero fabbro di perfetti carmi,
Starai dormendo su la fredda incude?
So, che il desio di quel rimbombo vano,
Che detto è lode, un saggio cor non move:
Ed io pure squarciai per tempo il velo,
Magico velo, sotto a cui le cose
Di bugiardo splendor si tingon tutte.
Ma quel musico alato, che rinchiuso
In aerea prigion dal tetto pende
Della stanza vicina, Amico, il senti?
È forse amor di sospirata lode,
Che gli affatica sì la crocea gola?
Così ancor del mio petto escono all’aura
Le armonizzate voci; e su deserta
Piaggia marina, e nella verde notte
Uscirian pur di solitaria selva.
Nè però niego, che se mai le approva
Il difficil di Tucca orecchio raro,
E se Cloe nell’udirle apre un sorriso,
Non mi assalga piacer: quindi fatica
Non v’ha, che a me per adornarle incresca.
Tu il sai: tu, che nel mio dolce ritiro
Cerchi per me sovente la ritrosa,
E tra le fibre più riposte e interne
Del buon cerebro tuo tal or nascosta
Parola illustre, che tra i lenti sorsi
Dell’odorate Americane spume
Scocca alfin dal tuo labbro, e d’improvviso
Poetico fulgor quasi lampeggia.
Talor dissento, e mia ragion difendo:
E qui sorge tra noi subita pugna,
Ma così breve, che nell’urlo istesso
S’uniscon le placate alme concordi.
Così vedi, se il mare Eolo conturba,
Cozzar due flutti, e nel cozzar, passaggio
Far l’un nell’altro, e ricader congiunti.
Contese amiche, ed innocenti gare,
Soavi cure, ameni studii e cari,
Voi balsamo versale in quelle piaghe,
Che del fato la man ci aprì nel core.
Ove siam, Vittorello? e che mai visto
Non abbiam noi? Fu mia delizia i giorni
Condurre all’ombra de’ tranquilli boschi.
Ma quale omai v’ha gleba, che il guerriero
Sangue Germano, e Gallico non lordi,
O che il pianto del suo cultor non bagni?
Villa mi biancheggiava in un bel colle,
Che distrutta mi fu. Qual pro, se ancora
Stesse non tocca? I circostanti oggetti
Per me tutti cangiaronsi: non serba
Più quegli odori, e que’ colori il campo,
Oro non è la messe, e discordato
Mormora il rivo, che non è più argento.
Vien subito a turbarmi ogni diletto
L’atro pensier, che quelle verdi piante,
Onde il piano si veste, e la collina,
Del sangue uman, che ad esse intorno corse,
Sì rigogliose crebbero, e sì verdi.
Nè più nel fondo della selva credo
Veder tra quercia e quercia le festive
Driadi or mostrarsi, or disparir: ma scorgo
Degli estinti guerrier l’Ombre nemiche
Rinnovar l’ire non estinte, e tutto
Di redivivo orror tingere il bosco.
Fuggo dunque dai campi, e mi ricovro
Tra mura cittadine. Ma quai fresche
Ritrovo io qui memorie acerbe! E quanti
Mutati dal dolor volti a me noti
Rincontro, ch’io più non ravviso! Io stesso
Delle piangenti donne al petto appesi
Vidi succhiar più lagrime, che latte,
Gli appassiti bambini: io stesso quelle,
Che figli non avean, rendere udii
Dell’infecondo sen grazie agli Dei.
Più non brillava, che sul labbro ignaro
De’ fanciulletti, il riso; il feral bronzo,
Che suol pianger chi muor, gli orecchi nostri
Non atterriva più; d’invidia oggetto
La tranquilla si feo tomba degli Avi;
E un ben solo spuntò fra tanti mali:
Bello a mostrar cominciò Morte il volto.
Deh quale io corsi con le incaute dita
Trista corda a toccar! Perdona, Amico,
Se di lugubre troppo, e ingrata veste,
Poichè a te volar dee, s’avvolse il canto.
- ↑ Abbiamo creduto opportuno d’inserire questa bellissima Epistola del rinomatissimo Signor Cavalier Ippolito Pindemonte, che trovasi impressa tra le sue Epistole in versi edite in Verona l’anno scorso in forma di 8. Anche questa ha qui luogo a dispetto della rigida modestia dell’Autore; e i sentimenti di quell’ingenuo letterato autenticheranno in modo speciale il merito del Vittorelli.