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CANZONE II
MEntre la nave mia lunge dal Porto
Priva del suo Nocchier, che vive in Cielo,
Fugge l’ onde turbate in questo scoglio,
Per dare al lungo mal breve conforto,
Vorrei narrar con puro acceso zelo
Parte della cagione, ond’ io mi doglio;
E ’l peso di color, che dall’ orgoglio
Di Fortuna il valore in alto vola,
Uguagliando al mortal mio grave affanno,
Veder, se maggior danno
Diletto, e libertade ad altra invola,
O s’ io son nel tormento al mondo sola.
Penelope, e Laodomia un casto ardente
Pensier mi rappresenta, e veggio l’ una
Aspettar molto in dolorose tempre,
E l’ altra aver con le speranze spente
Il desir vivo, e d’ ogni ben digiuna
Convenirle di mal nodrirsi sempre,
Ma par la speme a quella il duol contempre,
Questa il fin lieto fa beata; ond’ io
Non veggio il danno lor mostrarsi eterno:
E ’l mio tormento interno
Non raffrena sperar, nè toglie oblio,
Ma cel tempo il mio duol cresce, e ’l desio.
Ariadna, e Medea dogliose, erranti
Sento di molto ardir, di poca fede
Dolersi, in van biasmando il proprio errore;
Ma se il volubil Ciel gl’ infidi amanti
Diero a tanto servir aspra mercede;
Disdegno, e crudeltà tolse il dolore;
E ’l mio bel Sol continua pena e ardore
Manda dal Ciel co’ rai nel miser petto
Di fiamma oggi, e di fede albergo vero,
Nè sdegno unqua il pensiero,
Nè speranza, o timor, pena, o diletto,
Volse dal primo mio divino oggetto.
Porzia sopra ad ogni altra mi rivolse
Tanto al suo danno, che sovente insieme
Piansi l’ acerbo martir nostro uguale.
Ma se breve ora forse ella si dolse,
Quant’ io sempre mi doglio, poca speme
D’ altra vita miglior le diede altr’ ale;
E ’l mio grave dolor vivo e immortale
Siede nel core, e dell’ alma serena
Vita immortal questa speranza toglie
Forza all’ ardite voglie;
Nè pur questo timor d’ eterna pena,
Ma d’ ir lunge al mio Sol la man raffrena.
Poscia accese di veri e falsi amori
Ir ne veggio mill’ altre in varia schiera,
Ch’ a miglior tempo lor fuggì la spene;
Ma basti vincer questi alti e maggiori,
Ch’ a tanti pareggiar mia fiamma altera
Forse sdegnò quel Sol, che la sostiene;
Che quante io leggo indegne, o giuste pene
Da mobil fede, o impetuosa Morte,
Tutte spente le scorgo in tempo breve;
Animo fiero, o leve
Aprì allo sdegno, od al furor le porte,
E fè le vite alle lor voglie corte.
Onde a che volger più l’ antiche carte
De’ mali altrui, nè far dell’ infelice
Schiera moderna paragone ancora,
Se inferior nell’ altra chiara parte,
E ’n questa del dolor, quasi Fenice
Mi sento rinnovar nel foco ogn’ ora?
Perchè ’l mio vivo Sol dentro innamora
L’ anima accesa, e la cuopre, e rinforza
D’ un schermo tal, che minor luce sdegna,
E su dal Ciel m’ insegna
D’ amare, e sofferir, ond’ ella a forza
In sì gran mal sostien quest umil scorza.
Canzon tra’ vivi quì fuor di speranza
Va sola, e dì, ch’ avanza
Mia pena ogn’ altra; e la cagion può tanto,
Che m’ è Nettare il foco, Ambrosia il pianto.