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A Giuliano di Lorenzo de' Medici
Serenata A Stanza della Barbera

 
I.

Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti[1]
con sei tratti[2] di fune in su le spalle:
l’altre miserie mie non vo’ contalle,5
poiché così si trattano è poeti!

Menon pidocchi queste parieti
bolsi spaccati[3], che paion farfalle;
né fu mai tanto puzzo in Roncisvalle,
o in Sardigna fra quegli alboreti,10
quanto nel mio sì delicato ostello[4];
con un romor, che proprio par che ’n terra
fùlgori Giove e tutto Mongibello.

L’un si incatena e l’altro si disferra[5]
con batter toppe, chiavi e chiavistelli[6]:15
un altro grida è troppo alto da terra!

Quel che mi fe’ più guerra,
fu che, dormendo presso a la aurora,
cantando sentii dire: — Per voi s’òra.[7]
Or vadin in buona ora;20
purché vostra pietà ver me si voglia[8],
buon padre, e questi rei lacciuol ne scioglia.

 
II

In questa notte, pregando le Muse,
che con lor dolce cetra e dolci carmi
dovesser visitar, per consolarmi,
Vostra Magnificenzia e far mie scuse,
una comparse a me, che mi confuse,5
dicendo: — Chi se’ tu, ch’osi chiamarmi? —
Dissigli il nome; e lei, per straziarmi,
mi batté al volto e la bocca mi chiuse,
dicendo: — Niccolò non se’, ma il Dazzo[9],
poiché ha’ legato le gambe e i talloni,5
e sta’ ci incatenato come un pazzo. —

Io gli volevo dir le mie ragioni;
lei mi rispose, e disse: — Va al barlazzo[10],
con quella tua commedia in guazzeroni[11]. —

Dàtegli testimoni,5
Magnifico Giulian, per l’alto Iddio,
come io non sono il Dazzo, ma sono io.

 
Allo stesso

Io vi mando, Giuliano, alquanti tordi,
non perché questo don sia buono o bello,
ma perché un del pover Machiavello
Vostra Magnificenzia si ricordi.

E se d’intorno avete alcun che mordi[12],5
li possiate nei denti dar con ello[13],
acciò che, mentre mangia questo uccello,
di laniare[14] altrui ei si discordi.

Ma voi direte: – Forse ei non faranno
l’effetto che tu di’, ch’ei non son buoni10
e non son grassi: ei non ne mangeranno. —

Io vi risponderei a tai sermoni,
ch’io son maghero anch’io, come lor sanno,
e spiccon[15] pur di me di buon bocconi.

Lasci l’opinioni15
Vostra Magnificenzia, e palpi e tocchi,
e giudichi a le mani e non agli occhi.

Note

  • I sonetti I e II furono composti da Machiavelli in carcere, dove venne rinchiuso tra febbraio e marzo 1513 per essere stato coinvolto nella congiura antimedicea Boscoli-Capponi
  • Allo stesso - Composto nel 1513 subito dopo la scarcerazione, mentre Machiavelli si trovava all’Albergaccio di Sant’Andrea in Percussina. Il sonetto accompagnava un dono di tordi. «Ho infino a qui uccellato a’ tordi di mia mano. Levavomi innanzi dí, impaniavo, andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando è tornava dal porto con e libri d’Amphitrione; pigliavo el meno dua, el più sei tordi. E cosí stetti tutto novembre. Di poi questo badalucco, ancora che dispettoso e strano, è mancato con mio dispiacere». Così scriveva il 10 dicembre 1513 al Vettori.
  1. il geto era una striscia di cuoio con cui si legavano le zampe degli uccelli di rapine.
  2. ricordo della tortura che gli era stata inflitta (per sei volte la corda venne tesa).
  3. grossi e flosci, interpreta il Raimondi.
  4. il carcere.
  5. viene sciolto dai ferri.
  6. rumori provocati dal battere del martello (per ferrare e sferrare), dal girare chiavi e chiavistelli, unici rumori insieme al lamento o alle grida dei carcerati.
  7. ricordo delle preghiere mattutine per quelli che erano stati condannati a morte.
  8. si volga.
  9. Andrea Dazzi, discepolo di Marcello Virgilio Adriani, segretario della prima Cancelleria.
  10. Va al barlazzo: Va in malora.
  11. in guazzeroni: in pezzi
  12. che mordi: che dica maldicenze.
  13. li possiate nei denti dar con ello: glieli possiate cacciare in bocca
  14. laniare: infamare, calunniare.
  15. spiccon: strappano da me.
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