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«Poesie di Sofia Sassernò»
«Memorie sull'Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1840» di Giuseppe Montanelli «Clelia o la Plutomania». Commedia in tre atti dell'attore G. Gattinelli

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POESIE DI SOFIA SASSERNÒ


Sono piú volumi di poesie, differentissime. Ce ne ha di tutte sorti: sermoni, elegie, canti, leggende. A prima gettata d’occhi trovi in tutte gli stessi pregi: correzione, puritá di lingua, abile testura di verso, una certa eleganza di stile, cosí uguale che talora è monotonia, la misura del buon gusto anziché l’impeto del genio. E se ti arresti a queste qualitá comuni, rimani in forse, e non sai in tanta somiglianza qual giudizio portare di ciascuna poesia, e a quale dare il primato. Ma se lasci stare queste qualitá secondarie, dalle quali non si può cavare alcun criterio stabile, e guardi alla persona che si nasconde sotto alla veste, vedrai differenze spiccatissime, alle quali prima non ponevi mente.

Talora dici a te stesso: — La è un artefice non comune di versi, ma nulla di piú — ; ora ti avvieni in una bella concezione, uscita pallida dalla fantasia, e qui lodi una immagine felice, lá un sentimento vero; talora ti par d’intravvedere qualche cosa, che vorresti e non puoi chiamar genio. Egli è che nelle poesie vi è maggiore varietá, che non ne abbia l’anima dell’autrice. La quale, con poca coscienza delle sue forze, si è messa a trattare argomenti di ogni maniera, che richiedono le piú diverse facoltá, quasi la poesia fosse un istrumento, che noi potessimo far suonare a nostro talento.

Arrechiamone qualche esempio: prendiamo una sua leggenda. Nella. È il diavolo, che apparisce in forma di un bel giovine a Nella,

                          Pure et suave enfant, dont le coeur ingénu
N’avait jamais bondi sous un trouble inconnu.
                    

Molte di queste visioni troviamo ne’ nostri antichi, carissimi per candore e semplicitá quasi infantili. La Sassernò vi ha gittate in mezzo qualche cosa di epico, ha allargate le proporzioni, ha sollevato lo stile; quasi ci voglia far sapere cosí, che ella sotto forma di leggenda ha mirato ad un’alta concezione. Negli antichi il fatto conserva il suo valore come fatto; e la poesia è in quel misto di maraviglia e di terrore, che procede da esso: la credulitá li rende poeti. Ma qui il fatto è un semplice velo, che cela sotto di sé un concetto: lo spirito del male che s’insinua a poco a poco nel vergine cuore di una giovinetta, il demonio seduttore. Prima si atteggia a vittima, poi rompe in bestemmie, poi si liquefá in dolcezze amorose. È un soggetto di altissima difficoltá, a cui si accostano trepidi i sommi. L’autrice l’ha reso ancora piú difficile, vagheggiando certe altezze, a cui non giunge il suo occhio: poiché, non contenta alla semplice esposizione, si è studiata di afferrare lo spirito del male nella sua essenza, nel peccato d’origine, frutto dell’albero della scienza. È una concezione che ricorda ad un tempo Goethe e Milton; e richiede una malizia, una ironia, una profonditá d’intelligenza e di sentimento che non è in lei. Che cosa dunque ne è avvenuto? Non ci è alcuna creazione in questa poesia: una parte consiste in descrizioni oziose, un’altra in pomposi discorsi, che fanno del demonio un filosofo scettico, e per soprappiú un maestro di rettorica.

Da questi soggetti epico-lirici, ne’ quali la piú alta scienza si marita alla poesia, scendiamo a’ soggetti puramente drammatici. Prendiamo Mercédès. È una andalusa, di passioni estreme, furente di amore, di gelosia. Questi soggetti mi sembrano anche superiori all’attitudine poetica della Sassernò. Fra tanta violenza e tensione di carattere, ci è di che farci correre un brivido per le ossa, se l’autrice avesse avuto del suo argomento una geniale intuizione. Non un solo vestigio di caratteri o di sentimenti; in quella vece, descrizioni piú o meno felici, che ti mettono sott’occhio la superficie, e ti nascondono il fondo. È una di quelle poesie, che diconsi ad effetto, di cui ce ne ha tante presso i francesi, fondate su di un’antitesi. L’autrice rappresenta i due punti opposti della situazione, in mezzo a cui gitta sbadatamente ciò che è il fondo della poesia:

                                         Elle danse, ardente, enivrée,
Ses pieds ne touchent pas le sol,
Du tambourin la voix cuivrée
Semble imiter le bruit d’un vol;
Sa robe courte et diaphane
Voltige autour d’elle dans l’air,
Elle tourne, tourne, elle plane,
Elle glisse, comme un éclair.
                                   

Eccoci ora all’altro capo della situazione:

                                         ..... comme un spectre à l'œil pâle
Elle se levait, commençait
Une serabande infernale.
Et dansait, et dansait, dansait.
                                   

L’autrice non ha rappresentato che la scena, quel non so che di teatrale, che s’indirizza all’occhio, e lascia vuota l’immaginazione ed il cuore.

Passiamo a’ soggetti puramente lirici, semplici effusioni di sentimento. E ce ne trovi di ogni sorta: collera, gelosia, amore, vendetta, ecc. Prendiamo Le dégoût. È una di quelle poesie, che diconsi intime: l’essere che si spande al di fuori. L’autrice sente disgusto della vita del mondo, cosí sozzo di vizi, di vanitá, d’inganni. Il suo disgusto tiene «du dédain, de la haine, du mépris».

                          Ne me demandez pas, pourquoi fière et hautaine
J’exprime quelquefois le dédain et la haine;
                              Pourquoi dans mes écrits
                    
                          Ne se reflète pas l’universelle joie,
Pourquoi mon pied rétif de la commune voie
                              S’écarte avec mépris.
                    

Ma l’orgoglio, il disdegno, l’odio, il disprezzo non vi stannoche di nome; sono sentimenti estranei al candore della Sassernò, alla mesta soavitá del suo sorriso. Quindi la poesia rimane una pomposa declamazione su’ vizi del genere umano, una vaga generalitá.

                          Le vice a tout flétri sur cette terre impure,
Oú domine l’opprobre, oú règne l’imposture
                              Oú l’or achète tout,
Oú l’austère vertu sans pudeur est raillée,
Oú toute vérité par l’erreur est souillée,
                              Oú nul Dieu n’est debout, etc.
                    

Queste poesie rimangono tutte fuori della sua anima.

Se seguitassimo per questa via, correremmo pericolo di smarrirci in si gran numero di poesie, e riusciremmo a qualche cosa di negativo.

Ci è mestieri una bussola, che ci dia modo di trovare la via diritta: è necessario che innanzi tutto vediamo qual è l’ingegno poetico della Sassernò, se ella è buona a qualche cosa, e a che cosa.

Nelle piú mediocri poesie trovi un non so che d’indefinito, che ti pare profondamente vero; e una cert’aria di tristezza, che, senza sua saputa, s’insinua anche in mezzo alle gioie della vita. Alcuni hanno trovato queste poesie monotone: è la terribile monotonia della sventura. Leggete, e voi direte con me: — Quanto ha dovuto soffrire! quanto soffre questa donna! — . Per alcuni l’universo è la patria, l’amore, e che so io; l’universo di questa donna è il dolore, di cui ha uno squisito sentimento. A voler giudicare delle sue poesie, sembra che costei di buon’ora si sia sentita sola: la piú grande maledizione che pesar possa su di una creatura umana. E foss’ella almeno un carattere forte e compiuto, bastevole a sé stessa! È una di quelle nature fragili e tenere, a cui fa bisogno, per sopportare la vita, di altri esseri, in cui si appoggino e si espandano. Il suo sguardo erra solitario, e, non trovando niente in cui fermarsi, rimane pensoso: la sua anima si ripiega in sé stessa.

Ciascuno porta seco un mondo interiore, che sente il bisogno di realizzare al di fuori. Tutta la realtá è venuta meno a questa donna; non ha un avvenire innanzi a sé, niente a cui tenda, per cui si affatichi: l’anima rimane oziosa.

                          Allez, amusez vous, la joie a tant de charmes!
Laissez-moi seule ici, seule, toujours,
Il me faut le désert, pour répandre des larmes.
Comme á vous le soleil pour chanter vos amours.

Il me faut le vallon obscure et solitaire,
Pour fuir le bruit d’un monde importun á mes yeux.
La solitude plait á la douleur austère,
Loin des hommes je crois ètre plus près des cieux.
                    

Quando dunque la Sassernò pone mano a lavori, nei quali cerca di rappresentare la vita ne’ suoi diversi aspetti, ella dimentica che a lei è negato il senso del reale.

È lo stesso stato di Giacomo Leopardi; ma con questa differenza. Il Recanatese ebbe tanta possanza d’intelligenza e di sentimento, che potè ricreare in sé quel mondo che gli mancava al di fuori, e dargli una compiuta realtá poetica. La Sassernò non ha neppur tentato questo lavoro interiore; non ha alcuna coscienza distinta del suo essere. La vita è per lei rimasa un a rêve», senza quel ricco contenuto, che ammiriamo nella lirica leopardiana. È rimasa un a rêve», qualche cosa di vago e di musicale, a cui ella non sa dare un nome. Sono sospiri che non diventano sentimenti; suoni che non diventano parole; fuggevoli ombre che non si fissano in immagini. La sua immaginazione si diletta a riposarsi in quelle cose che rispondono meglio a questo stato dell’animo: gli odori, i vapori, l’alitare del zeffiro, il mormorio delle acque; che è, per dir cosí, la musica della natura: materia ancora intangibile, che si presenta a qualcuno de’ nostri sensi, e si nasconde a qualche altro. Se ne può vedere esempio nelle sue poesie: Pensées du soir, Pensées matinales, Une soirée sur mer. In quest’ultima trovi «une vague tendresse, des vagues couleurs, des accords mystérieux et vagues, une teinte rosée, ineffable, indécise, etc.». Questo vago, che ella si piace di contemplare nella natura, è nella sua anima: ozio e quasi vanita interiore, che produce diversi effetti, secondo i caratteri. Nella Sassernò produce per lo piú una stanca malinconia; onde il suo stile manca di pienezza, ed è a pensieri sciolti, quasi a singulti: diresti che la sua mente non sa seguire i pensieri in tutta la loro ricca esplicazione, e li gitta li crudi, l’uno presso all’altro, desiderosi ancora di vita, di aria, di colore, di luce. È un’anima svogliata, annoiata, con una smaniosa tendenza a produrre, che non viene ad effetto: vi sono i primi germi della vita, senza sviluppo.

                          Mon esprit abattu, comme un roseau qui plie
                              Aux souffles des autans,
Ne sait plus résister a l’ennui, qui l’oppresse:
Je ne demande plus á ma froide jeunesse
                              Les roses du printemps.
                    
Il qual languore tiene l’anima in una certa immobilitá, che ci spiega la monotonia di queste poesie. Non è in lei alcun contrasto, né differenza, niuna forza che si ribelli, che tumultui; è una linea dritta, le cui parti tutte si rassomigliano.

Per fuggire questa inerzia, ella si getta nel misticismo; in cambio della vita reale, che non può cogliere, mira ad un mondo ideale, che meglio si affá alla sua natura. Dico mondo ideale, e dovrei dire mondo astratto, poiché ella non ha neppure la forza di crearselo seriamente. Santa Teresa fa dell’altro mondo la sua vita, il suo avvenire; vive in esso e per esso; quindi l’estasi, la visione, il rapimento, una poesia di fuoco che investe la sua anima e la tien desta ed operosa. Nella Sassernò il sentimento religioso non è tanto possente, che la occupi tutta, e, ridonando uno scopo alla sua anima, la rinfranchi e la scaldi. Nondimeno, esso vale a dare alla sua malinconia una tinta di dolcezza e di serena rassegnazione, ed a spargere qualche raggio di luce in mezzo al fosco ed al cupo della sua anima. Vi è in lei qualche cosa di cosí candido, che talora ti pare un fanciullo; e de’ fanciulli rappresenta con molta felicitá gl’ingenui sentimenti: leggete il suo Rencontre matinale ed il suo Ange gardien. Tanta dolcezza e rassegnazione, tanta ingenuitá e purezza, e la sua caritá verso gl’infelici, che rende cosí pietosa la sua poesia intitolata Souhaits, mi fanno talora, quando leggo queste poesie, parer quasi di trovarmi in un tempio, e vi ci sto tutto raccolto e riverente. Certo, se tutti non possono dire: — Costei è una grande poetessa — ; vi è un grido, che esce da tutti i cuori: — Costei è una donna virtuosa, di una virtú amabile e modesta — .

Come dunque si dovrá qualificare l’ingegno poetico della Sassernò? Lo chiameremo genio? La parola mi sembra troppo ambiziosa. È un genio, se volete servirvi di questa parola, iniziale, rimaso nello stato di istinto; qualche cosa di vago, che per determinarsi cerca e non trova la vita ed il sole:

                          Destin tronqué, matin noyé dans les ténèbres.                     

Determinato l’ingegno poetico della Sassernò, abbiamo ora un criterio per giudicare delle sue poesie. Raccomando all’attenzione de’ lettori, nell’ultimo volume uscito alla luce, tre lavori: Église isolée, Plainte, Mes vertes collines, che meglio dánno una idea del suo sentire: le due ultime specialmente si possono considerare quasi una storia della sua anima.

Nel suo addio a Nizza (Mes vertes collines) vi è accento di veritá, che di rado trovi ne’ suoi poemi di occasione. La sua vita giovanile le si risveglia dinanzi con tanta forza, che ella vive per un momento in quel dolce passato, sotto il cielo del suo paese; quando un grido improvviso ci rigetta nella realtá...

                          Nice, adorée, adieu: terre, ou mourut ma mère,
                    Adieu, patrie, adieu!
                    

Vediamo qui il germe di una poesia rimaso infecondo; e chi vuol conoscere che cosa vi manchi, legga le Ricordanze del Leopardi. L’autrice ci presenta innanzi il mare, la valle, il bosco, il prato, il ruscello, la chiesa, la collina; ma invano domandi un sentimento o una immagine legata a questi luoghi: in che è posto l’attrattivo di questo genere di poesie. Dico un sentimento o una immagine, che esca dal comune, che parta dall’intimo dell’anima commossa. Leopardi ha gittato in mezzo alle sue rimembranze una magnifica creazione, Nerina. Ma quali sono le sue ricordanze?

                          Oú j’allais tout enfant puiser l’eau fraiche et pure
                    Dans le creux de ma main...
Oú. j’égarais mes pas...
Qu’enfant, je saluai de mon premier sourire
                    En bégayant leurs noms...
Oú de mon pére encore l’image révérée
                    Apparait á mes yeux.
                    

E evidente che queste memorie, troppo generali, non escono dall’intimo della personalitá umana, né producono sull’autrice una gagliarda impressione: e ve ne accorgete alla frase scolorita. Nondimeno, vi è in questa poesia un senso di mestizia vera, che è dappertutto e non è in alcuna parte. È mancata alla poetessa nizzarda la forza di dargli una faccia, e rimane perciò un vago suono senza significato e senza eco, che si perde nell’aria. Eccone un esempio:

                          Oú de mon pére encore l’image révérée
                    Apparait á mes yeux.
                    
Qui vi è una semplicitá arida. La figlia non ha saputo trovare un solo accento che esprima la sua commozione innanzi a quella funebre ricordanza.

L’altra poesia, Plainte, è lo specchio dell’anima, una effusione malinconica dell’anima stanca di lamentarsi. Ciò che vi domina, è l’angoscia del sentirsi sola in questo mondo; e l’autrice vi ritorna parecchie volte.

                          Mon berceau fut sans jeux, ma vie est sans bonheur,
                    Ma jeunesse sans rêve.
Voyez autour de moi pomt de fraîches oasis,
                    Mais le désert sans bornes...
Cornine un agneau perdu sur le bord du chemin
                              Et qui cherche sa mère,
Moi j’erre seule, hélas, sans qu’on tende la main
                              A ma douleur amère...
Je n’ai pas de foyer, d’enfant, dont le baiser
                    Rayonne sur ma vie,
Pas de famille, hélas, dont les bras caressants
                    M’enchaînent á la terre.
Rien, rien, que l’abandon autour de moi, Seigneur,
                    Et que la solitude.
                    

Il tono di questa poesia è una tristezza stanca, ineloquente, come qualche rara volta è in Leopardi. È una stanchezza, che ammortisce ogni entusiasmo e calore poetico. Dentro l’anima vi sta come un sepolcro; niuna ricchezza e pienezza di vita: in luogo d’immagini, escono gemiti, degli «hélas».

Questa poesia è come l’aura che spira in tutte le altre; in ogni ispirazione ci è della Plainte. Ma è un grido dell’anima che rimane quasi sempre una povera interiezione, tanto piú languida, quanto piú ripetuta, che non giunge mai a conoscersi, a decomporsi, a diventare una proposizione; e, priva com’è di contenuto, di differenze, di opposizioni, a lungo andare annoia. Questo difetto di virtú creativa, questa povertá d’immaginazione e superficialitá di sentimento ti mostrano nella radice stessa della vita qualche cosa di arido.

Nella Église isolée l’autrice si sforza di uscire da questo vago di sentimenti e di porsi avanti qualche cosa di meno indeterminato; né le vien fatto. Poiché, infine, che altro è l’Église isolée, se non la Plainte recitata non a casa, ma in chiesa? Non vi è di mutato che la scena. E sta bene. Perché in questo vago è tutto quel molto o poco che la natura le ha dato di poetico: ella non dovrebbe mai uscirne. La chiesa non ha allargato il suo orizzonte, non ha scaldata la sua immaginazione. La natura è in festa; la sua anima è in lutto, ed il contrasto l’intenerisce.

                          Je penchai vers le sol mon regard attristé
                    Oú tremblait une larme.
                    

Ma il suo cuore rimane chiuso; e nemmeno in presenza della Vergine si espande.

                                              Oh prends moi sur tes ailes,
Je souffre, et j’ai pour toi reçu dans le combat
                    Des blessures mortelles.
                    

«Je souffre», «nous nous soupirâmes», «rêveurs sans oser nous parler», «l’âme recueillie», «le coeur plein de soupirs et le sein oppressé», «douleur amère», «douleur sévère», «notre mélancolie», «la paix mélancolique», «l’église isolée», «la nef déserte», «l’autel solitaire», «seule je me traîne...». È una poesia a sospiri e a lagrime, che solo interrompono la solitudine ed il silenzio. Questo mutismo sepolcrale riesce al sublime, quando vi si intravvede al di sotto qualche cosa di profondo; ma qui al di sotto vi è il vuoto.— Che hai?— «Je souffre, je soupire, une larme tremble dans mes yeux»... — Ma che hai? — Quello che ella ha, si rivela, prima e sola volta, nel suo Ange et Milna, che è il suo piú notabile lavoro. Quel freddo germe li s’incalorisce alquanto, ed ha un principio di vita: ella si è cercata e si è trovata. Questa poesia è il vago come vago, è il fondo dell’anima sua, che si crea un mondo in cui si riflette. Milna è una giovinetta a cui la realtá è ancora un libro chiuso, nutrita di desiderii indefiniti. Ella ama qualche cosa, a cui non sa dare un nome, né una faccia, l’indeterminato: la sente e non la vede. E la sente in tutto ciò che la terra ha di piú vago: vi è ad un tempo il vago dell’anima ed il vago della natura. La sente nel suono dell’onda, nel tremolare dell’erba, nella fragranza del fiore, nel fremito del vento, nel lungo e malinconico sospiro dell’aura vespertina.

                          Pourquoi ce long soupir plein de mélancolie?
J’entends venir ta voix du fond de l’horizon,
                    Elle monte, elle monte encore,
Passe dans une fleur, frémit sur le gazon,
Oú pleure en m’appellant dans le vague sonore..
                    ... Tes pleurs mélodieux
                    Tombent sur la mousse argentée;
La calice des fleurs, les étoiles des cieux
S’inclinent aux accents de ton âme attristée. —
Esprit, qui donc es tu?...—
Oh! laisse moi te voir!... tout m’ennuie ici basi...
                    Éprise de mon rêve étrange,
Je fuis un monde impur qui ne te connaît pas,
Et parmi les humains, moi je pleure, mon ange!
Oh! laisse moi te voir!...
                    

E poiché lo cerca e non lo trova, il suo pensiero lo leva ne’ cieli; vede

                                    Arcs-en ciel, rayons prismatiques,
Vives clartés, masses de feux,
Immense océan de lumière,
Globs d’or, etc.
                              

Ma non vede il suo amato.

                          Invisible pour toi, je sens ta main qui tremble
                    Dans ma main, que tu ne vois pas.
                    

Egli è che il cielo è non men vago della terra, né può darle ciò che non è nella sua anima. Dopo un momento di «rêve», che l’autrice chiama estasi, Milna ricade nel suo languore che la consuma.

                          J’aspire vers le ciel, et ton céleste amour
                    Consume mon âme embrasée.
Je languis ici bas, hâte mon dernier jour!...
La fleur implore ainsi la goutte de rosée.
                    

E viene l’ultimo giorno,

                          Et l’ange, en s’envolant, disait: — Viens avec moi! —
Lorsqu’un cri de bonheur répondit: — je te vois! —
                    

Vi è una etá della vita, nella quale l’anima, non ancora conscia della realtá, sente bisogni e desiderii che non sa definire, vaghe aspirazioni verso lo sconosciuto. La Sassernò rimane perpetuamente in quella etá; non ne sa uscire, non sa concepire altro. Ma in quella etá, quanto la realtá è meno appresa, tanto piú calda è l’immaginazione; e l’anima, in luogo del mondo che le manca, se ne crea un altro, e lo popola di ombre, d’immagini, di creature. La Sassernò ha il sentimento, ma non la fantasia di quella etá; il mondo reale le manca, e non sa farsene un altro; o sia in terra, o sia in cielo, non sa farsene un altro; quindi il vuoto, e, sua conseguenza, la noia e la tristezza. Ora, prima condizione della poesia è l’immagine, è che si vegga. Milna vede l’Angelo in morte: quest’angelo, questo ideale, il poeta deve vederlo in vita, e la Sassernò non lo ha veduto. Rilegarlo nell’altro mondo gli è come negare alla terra la poesia, e condannarci a vivere nel fango o nel vuoto. L’autrice non ha saputo appropriarsi il reale, purificarlo, idealizzarlo; il suo «rêve» è rimaso incompiuto, freddo, confuso: ella è Milna che soffre e languisce, e non sa di che; onde la sua poesia è un lungo e monotono lamento, che non può destare alcuno interesse, perché privo di contenuto. In fondo alla poesia del Leopardi ci è il nulla; ma esso ha dirimpetto, eterna contraddizione, l’essere: l’immagine egli te la distrugge, ma dopo di avertela mostrata in tutto il rigoglio della vita, e di sotto alla morte ripullula sempre, per morire un’altra volta. In fondo a queste poesie ci è il vago, il puro vago, che tende a determinarsi e non può. Ora, il vago è quel non so che di tumultuoso nel nostro mondo interiore, prima che ne scintilli la creazione poetica; quell’oscuro movimento o divenire che precede la concezione, e che ne’ mediocri, non pervenuto mai a maturitá, si manifesta nel disordine e nella confusione delle idee non abbastanza digeste. Qui è il carattere e l’imperfetto di queste poesie. Vi è un sentimento che rimane superficiale e monotono, senza alcuna immagine che gli sottostia. Quando l’immagine svanisce, finisce la poesia, e Dante pon termine al suo poema: la Sassernò apre il libro, quando Dante lo chiude. Apre il libro, quando il germe non è ancora fecondato; quando il Dio, che si agita in petto del poeta, non è ancora Verbo.

[Nel «Piemonte», a. II, nn. 62 e 64, i2 e i4 marzo i856.]

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