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L’«ARMANDO»
di Giovanni Prati.
— Cosa hai voluto fare, Giovanni Prati, col tuo Armando? — La curiositá è desta, e molte sono le scommesse. Chi dice: — Non ci raccapezzo nulla — ; e gitta via il libro per disperato. Chi, sorridendo di compassione, risponde: — Non vedi! è una seconda edizione del Faust o del Manfredi. — Bah!, prorompe un terzo: è « un pensier del suo capo»; è tutta farina del signor Prati. —
— Questo libro è un enigma, una sciarada, sentenzia un critico. Ciò che non si capisce non è una creazione, è un aborto, simile a quel tale «disonor del Golgota» di Alessandro Manzoni. —
E il critico condanna il libro «a priori».
— Cosa dunque hai voluto fare, Giovanni Prati, col tuo Armando? — , gridano non i critici per mestiere, ma gli ammiratori, gli amici, i devoti, tutt’ i lettori di buona fede, tutti quelli che vorrebbero pure applaudire, se entrasse lor bene in capo cosa sia questo Armando.
Ma il Prati ve l’ha detto, signori. Ve l’ha spiegato nella prefazione con una chiarezza che fa torto alla vostra intelligenza. E, poetando, quante volte si dimentica di Armando, e pensa a voi, cortesi lettori, e vi spiega e vi toma a spiegare cosa egli ha voluto fare!
Il poeta potrebbe rispondervi : — Ho «notato una malattia morale, e scrissi un libro» — .
E se quest’epigrafe vi pare essa stessa un enigma, il poeta si prende il fastidio di aggiungere questo comento:
Per una moltiplicitá di cagioni, inerenti all’indole umana ed esistenti nel mondo esterno, parecchie nature, anche forti, a certi tempi e in mezzo a certe condizioni di societá, cascano in ozii, in tedii, in sogni, che hanno quasi il carattere di morbi: ai quali se va accoppiato o il ricordo di qualche fiero disinganno patito, o la tendenza della mente alla negazione, o l’abito della fantasia alle tetraggini, questi mali possono avere esiti dolorosi, e qualche volta orrende catastrofi.
A questi morbi dell’intelletto e dell’anima son preparati i naturali rimedii nelle varie operositá e necessitá della vita comune; ma altri e piú potenti risiedono nell’ordine della religione e in quello della scienza. Per il piú piccolo poi e il piú delicato numero di quest’infermi, i farmachi dotati di maggior virtú sono riposti nella grandezza dell’amore e nella gloria dell’arte.
Se pur ciò medesimo basti contro le maligne insidie del Caso; il qual non par del tutto straniero agli andamenti e talvolta alle conclusioni della nostra vita.
E dopo questo comento si può mai aver l’impudenza di domandare a Giovanni Prati: — Cosa hai voluto fare? — .
— Teste dure! risponderebbe; ho voluto descrivere una malattia. —
Chi è Armando? È un malato.
E cosa è questo libro? È il poema di un malato.
Eppure un concetto cosí semplice, cosí chiaro non può entrare in capo a nessuno, e tutti a domandare : — Cosa hai voluto fare, Giovanni Prati? — .
E il buon Prati a rispondere :
Ti narro un tristo sognatori ti narro Il suo tetro fastidio; e se talvolta Cosa mormora in lui che ti somigli. Non mi chieder di piú. Viemmi compagno Per l’aspra landa, e mai non dimandarmi Se sia tutta di spine, o se alcun segno |
Troveremo di fior. Novo è il mio calle; Prega per me che ne veggiam l’approdo Con qualche gaudio della trista Musa. Non è Fausto o Manfredo il mio poema, Insigni forme, che imitar non giova. È un pensier del mio capo... |
Il poeta vi chiude la bocca, lettori. Cessate d’ interrogarlo e seguitelo.
E anch’ io vo’ far lo stesso.
Seguiamo il poeta nel «novo calle».
E dove ci sentiamo rapiti, ammaliati, tiriamo innanzi, leggiamo avidamente : dove ci sentiamo come arenati e raffreddati, sorge quella ostinata interrogazione : — Ma che diamine hai voluto fare? — ; finché, giunti all’ultimo, affannati, fra cielo e terre, e col capo intrigatissimo, lasciamo il libro gridando: — Ma che diavolo ha voluto fare Giovarmi Prati? — .
Se ci fosse tempo, il lettore prenderebbe a leggere il libro una seconda volta, e lo stesso mistero in cui s’avvolge il concetto sarebbe pungolo, terrebbe viva la curiositá. Si sono scritti tanta volumi per afferrare il pensiero di Dante o di Goethe!
Ma i lettori sono oggi distratti in molte faccende, e pensano tutti a fare l’Italia di un modo o di un altro, ed anche un poco a far danari : e chi vuoi che oggi legga piú un libro, o, quando per singolare amore al Prati lo abbia letto, si dia la briga di tornare a leggerlo?
Beati i tempi, quando, non essendo ancora fatta l’Italia, il maggior pensiero degl’ italiani era disputare intorno ad un libro di filosofía o di poesia! Tempi sentimentali, maravigliosamente disposti a comprendere Faust, Manfredi, Amleto, Leopardi! Quel mondo poetico era il nostro; quei sospiri, quei dubbi strazianti, quel grande enigma del mondo, materia di filosofi e di poeti, quel negare e maledire la vita con tanto desiderio e affetto della vita, rispondeva a tutto ciò che di piú intimo e contraddittorio si agitava nella nostra mente.
Ma quel mondo poetico non esiste piú. cadde flagellato a sangue dall’ironia di Heine; cadde quando quella trista generazione di esuli che cercavano una patria, si senti soddisfatta, anzi oltrepassata nelle sue speranze.
Nuove condizioni, nuove passioni, nuovi sentimenti, e, per dirla con Prati, «novo calle».
Ne’ piú tristi giorni dell’esilio m’ incontravo spesso con un compagno di sentimento e di sventura a parlar di Giacomo Leopardi. Era il nostro poeta di tutt’ i giorni, ed il mio amico me ne ragionava con un’ammirazione appassionata e melanconica.
Lo rividi alcuni anni fa. Quell’aria sentimentale era scomparsa dalla sua faccia rubiconda e animata. Gli andai incontro come d’amico lungamente atteso, e: — Leopardi! — gli dissi, come per trovare una parola che fosse il segno visibile della nostra antica e dolce comunanza. Mi fece un riso sardonico che mi spaventò: — Leopardi!, disse: con questa parola mi richiami tante illusioni di menti inferme; giacché, mio caro, a dirla qui fra di noi, tutti e due eravamo un po’ malati come il Leopardi. Ora io mi son fatto seguace della filosofia positiva, e gitto via l’ozioso fantasticare, e sento una grande compassione per quel cervello malato — .
— Ah! briccone!, gli diss’io; tu mi hai ucciso Leopardi! —
La prosa non ha che a gittare un po’ di soffio per spegnere ogni fiamma di poesia : essa non ha che a dirle : — Tu sei una malattia! — .
E quando un mondo poetico è sul finire, esso muore sotto la reazione del buon senso, muore trafitto da queste parole : — Addio, mondo fantastico, immaginario, chimerico, parto di cervelli oziosi e malati! — .
Quando i tempi nuovi compariscono in lontano orizzonte, la prima forma che li prenunzia è l’ironia. E che cosa è l’ironia? È il sentimento della realtá, del tempo nuovo, che si mette dirimpetto quel mondo giá tanto venerato, e ride. Quel riso significa : — Ciò che noi credevamo cosa seria era una malattia dello spirito — .
Orlando diviene don Chisciotte!
E quando don Chisciotte entra in iscena, tutto un mondo se ne va in frantumi.
Un mondo se ne va, e ne comincia un altro. Comincia il Rinascimento.
Sul limite confuso tra il Medio evo e il Rinascimento apparisce Amleto.
Passa inosservato e incompreso.
Shakespeare stesso è stimato un barbaro.
Il Rinascimento è una reazione pagana mescolata piú o meno di cattolicismo, contemplazione serena, plastica della vita, e che, dopo i suoi giorni di gloria e di grandezza, andò a finire, come il mondo pagano, in un pretto realismo.
Mori sotto il riso di Voltaire.
In Voltaire ci erano due uomini: l’uomo di lettere e l’uomo di spirito. L’uomo di lettere era classico, disprezzava Shakespeare, scriveva tragedie, scriveva la Henriade. L’uomo di spirito uccise il letterato, e con le sue tragedie e con la sua Henriade seppellí tutto il vecchio mondo, e prenunzio nuovi tempi.
La parola dei nuovi tempi la pronunziò Diderot: fu l’ideale.
Era lo spirito che riprendeva il suo posto; era il Medio evo che si vendicava.
E sorse un mondo filosofico-poetico, una vasta sintesi che, abbracciando e spiegando tutto il passato, lo rifaceva, lo ricreava, gli dava nuovo senso.
Questo mondo della filosofia, in difetto di una mitologia propria, fece sue tutte le mitologie, mescolò tutte le forme. Era l’ideale e lo spirito che si sprigionava dal limite di questa o quella forma, e di tutte facea una semplice sua manifestazione.
In questo idealismo panteistico vedemmo prima ricomparire le streghe e tutt’i neri e torbidi fantasmi del Medio evo, e poi le prische deitá e forme pagane tolte dal loro antico piedistallo furono tirate ad altri fini e a un altro contenuto.
Il Faust è l’espressione piú vasta di questa dissoluzione e indifferenza delle forme, di questo mondo dello spirito che suggella di sé tutto il passato, e, togliendo a quelle creazioni una personalitá giá esausta e petrificata, ne fa la sua veste e la sua luce, appropriandosi con la stessa indifferenza Elena e Mefistofele.
Questo mondo novo non è uscito dall’ immaginazione dell’umanitá con forme e limiti propri. Esso è il mondo del puro pensiero, che, calando in questa o quella forma, vi rimane inviolato ed estraneo. Le forme di cui si serve con perfetta indifferenza non sono nate e compenetrate con esso, non sono veri corpi animati; sono ombre di corpi giá viventi, melanconiche reminiscenze di un tempo che fu, rimaste fantasmi liberi a nuove combinazioni e nuove concezioni. Perduta la loro corporalitá, non sono piu vere creature, sono simboli e allegorie.
Ma, appunto perché in questo mondo uscito da speculazioni metafisiche disposate a reminiscenze religiose, il pensiero rimane puro ideale in tutte le forme, non ci è niuna forma ultima in cui si possa adagiare; passa dall’una all’altra senza mai trovare in nessuna sé stesso e dimenticarvisi, e in nessuna si posa e in nessuna si appaga.
E poiché la poesia è nella forma, e lo spirito nella forma non ritrova sé stesso, la convivenza dello spirito e della forma è una tragedia.
Questo mondo metafisico, come poesia, è una negazione, è la tragedia dello spirito. Solo nell’altro mondo al di lá delle forme diviene una Commedia divina; nella vita terrestre ciò che si chiama realtá, è una illusione; l’Umanitá è un perpetuo divenire di sogni e di visioni.
È naturale che innanzi a questa tragedia umana, dove tutto passa e niente è di positivo e di sostanziale, il cuore si schianti e mandi sangue. Perciò il lato piú interessante di questo mondo fenomenico è affatto negativo; e la sua Musa è la tristezza in tutte le sue gradazioni, da ciò che ha di piú sublime il terrore a ciò che ha di piú tenero la malinconia.
Il concetto di questo mondo è Amleto, il pensiero che, in luogo di calare nella vita ed obbliarvisi, ritorna di continuo sopra sé stesso. Il protagonista è Fausto, che erra inappagato di forma in forma, e non trova Margherita, cioè sé stesso, se non di lá delle forme, nel mondo del puro spirito. Episodii lirici sono le fantasie malinconiche di Schiller, Victor Hugo e Lamartine. La catastrofe, cioè a dire la rivelazione tragica di questo mondo, ve la dá Manfredo e Consalvo. Scoppia da ultimo il riso micidiale di Heine, e questo mondo va in frantumi.
Ecco tutto un mondo che malgrado centinaia di volumi critici, soprattutto in Germania, aspetta ancora il suo critico. Ben lieto se queste poche righe valgano a indurre a meditarvi su qualcuno che abbia di me piú mente e piú ozio.
È un mondo giá chiuso in sé stesso, divenuto giá storia, rappresentazione immortale di una societá scissa, con tanta superbia ne’ concetti, con cosí sterminata confidenza ne’ suoi ideali, e cosí dolorosamente conscia di non potere mutar quella plumbea realtá che le pesava addosso.
Perciò idoli de’ giovani sono stati a quel tempo Schiller, Byron, Victor Hugo, Lamartine, Leopardi. Ciascuno trovava lá dentro parte di sé.
E questi giovani eravamo noi che avevamo le aspirazioni si grandi e le speranze si piccole : contrasto che dava alla societá un’aria sentimentale. La stessa donna si trasformò. E la bellezza non fu piú il sano e il naturale, ma il pallido e il delicato.
Oggi sono avvenuti grandi fatti. Il ’48, il ’59, il ’60 e il ’66 sono epoche memorabili. Una parte di quelle aspirazioni sono state contentate in ciò che avevano di piú urgente e di meno atteso. I sogni piú audaci parte sono giá realizzati, parte non sembrano piú cosí lontani dalla speranza. Le razze si ricordano, riafferrano la loro storia, e prendono posto adeguato alle loro tradizioni e alle loro ambizioni. Un moto energico, appassionato incalza le popolazioni e scote perfino il sonnolento Oriente. Non si sogna e non si medita, si opera : il mondo è uscito dalle mani de’ filosofi e dei poeti, e appartiene agli uomini di Stato e a’ guerrieri.
Qual significato può oggi avere piú quel mondo contemplativo e negativo? Certo, quest’azione è figlia di quella contemplazione; ma la vita è il contrario di Saturno che uccide i figli; la vita è la figlia che rinnega e uccide la madre, è Giove che detronizza Saturno.
Giove è venuto, e giá Fausto è invecchiato di piú secoli, e Byron e Leopardi e Lamartine sono innanzi alla nuova generazione sacri come Omero e Dante, ma non sono sangue del suo sangue e vita della sua vita.
Altro tempo, altro indirizzo.
Sento mormorare intorno a me con aria di spavento : — La nuova generazione è materialista — . E di che vi maravigliate e vi spaventate? Il materialismo è uscito trionfante dal seno stesso del mondo hegeliano ridotto in frammenti. E che cosa è il materialismo, non il materialismo abbietto e volgare, ma nel suo senso piú elevato? È il mondo che si riconcilia con la vita, e ne prende possesso e pone ivi i suoi ideali, e, gittandovisi entro, partecipa le sue gioie e le sue amarezze, fatto, di contemplatore scettico e inquieto, sereno attore e soldato. Fausto non domanda piú : — Cosa è la vita? — ; ma l’ama, la gode. Consalvo non dice piú:
Due cose belle ha il mondo: Amore e Morte; |
Quel mondo non è piú; o piuttosto, come niente muore e tutto si trasforma, esso è questo medesimo mondo, il quale ha perduto il suo lato negativo e ritrovati i suoi ideali.
Quel mondo non è piú: quel ciclo è giá percorso, e l’uscio è chiuso di questa terra d’immortali ombre.
Ma c’ è qualcuno de’ viventi che picchia e vuole entrarvi.
Chi picchia? È Giovanni Prati.
Ed entra, e, tocco il cuore da profonda commiserazione, dice: — Voi eravate tutti illustri malati : il vostro nome è Armando. E poiché vi ho compresi, vi ho guariti. Io ho narrata la malattia e rimedii. «Ho notato una malattia morale e scrissi un libro»1— .
Orlando è divenuto don Chisciotte!
Consalvo è divenuto Armando!
Don Chisciotte, impressionata la fantasia dal mondo cavalleresco, ci vive entro, e il contrasto tra quel mondo della sua fantasia messo in maggiore evidenza dal suo contrapposto, Sancio Panza, e la vita reale in cui pur si move ed opera, si risolve in un’allegra ironia.
Il concetto è semplice, chiarissimo, popolare e di effetto irresistibile.
Armando al primo disinganno, abbandonato da Clara, si sente trafitto mortalmente il cuore, e guaste tutte le sue idee intorno all’esistenza. Cade in una perfetta atonia, la quale al contatto della vita reale si risolve a poco a poco in un fantasticare ozioso e micidiale su i misteri della vita, con tale esaltamento che il senso del reale gli sfugge, e tratta le ombre come cosa salda, e la vita come ombra. Viene il punto del risorgimento e della guarigione, ma quel punto è contemporaneo con la morte. Guarisce e muore.
Niente d’ ironico v’ è in questo concetto. È una rappresentazione diretta e seria del mondo come si presenta ad Armando. È il mondo dal punto di vista di un malato, e perciò condannato e annullato.
Superfluo è celebrare la magnificenza di questo concetto. Prati può dir con giusto orgoglio : — «È un pensier del mio capo» — .
Si apre la scena. È una tempesta. Armando ripara nell’abituro di un pastore, che lacrima sopra due suoi fanciulli, sorpresi e uccisi dalla bufera.
Armando stette A udir quei gridi; e non gli uscia che questo Suon dalle labbra: — Inutile ogni cosa! Gran fallacia e non altro — . |
£ la malattia nel suo stadio prosaico, qualche cosa di simile alla morte: «anima estinta», dice il poeta, e se non estinta, certamente stupida.
Che cosa è la Toscana innanzi a questo malato? Che cosa lo ferma e lo impressiona? Una zingana, a cui chiede la ventura.
Palestro, Montebello, Superga non gli dicono nulla. Quei luoghi pieni di tante memorie non gli offrono che un invalido di Sant’Elena, rimbambito e cantatore del tempo andato.
Nelle Calabrie è un lupo che lo fiuta e lo lascia vivo. Piú in lá è ser Calluga, vecchio patriota abruzzese, a cui Plutarco guastò il capo, uscito dalle carceri matto. Poi incontri un becchino, che fa epigrammi scavando una fossa, e pochi passi oltre, una taverna e scene di ubriachi.
Che cosa offre la Sicilia a questo malato? Un assassino rifuggito ne’ boschi.
Che cosa Napoli con le sue cento maraviglie? Una conchiglia su cui il malato almanacca.
Questo mondo di ser Calluga e di Pachita, questo mondo d’invalidi, di becchini, di ubriachi, di matti, di zingane, di lupi e di conchiglie, questo mondo del delitto e del dolore, parto osceno, che rende immagine del decadimento e della dissoluzione, è l’eco, il di fuori della sconvolta immaginazione del malato, è il mondo della negazione e del mistero, materia di tante sublimi ispirazioni, e condotto qui fino ad un limite che condanna sé stesso, e si rivela falso.
L’uomo di questo mondo, che era di luogo in luogo, stupido a tutt’i miracoli della vita e della bellezza, sente una singolare predilezione pe’ cimiteri, pei ritrovi plebei, per le taverne, per le foreste, per le rupi, per il selvaggio e il primitivo, e prova un’amara voluttá a trovarvi e straziarvi sé stesso, a cercarvi una dimostrazione palpabile di quel concetto dell’universo che gli frulla pel capo, si che ciascuna vista aguzza la sua malattia, e insieme la raddolcisce, cavandolo da quella quietudine stanca ed inerte che è morte, e aprendo il varco alla lacrima, al lamento, al fantasticare, al sognare. L’anima è sempre ammalata, ma ora è almeno attiva, le sue facoltá sono in esercizio, e può essere eloquente, può narrare sé stessa.
Qual è dunque questa malattia morale? È il concetto stesso che è l’anima di Manfredo, di Amleto, di Fausto, di Leopardi: è l’uomo che si pone come lo Spirito, l’Infinito, e cerca e non trova sé stesso nel reale, e rimane desiderio senza potere, enigma straziante di rincontro al quale si consuma e si frange.
Non è la tale o tale malattia morale : è la malattia morale in sé stessa, la malattia dello spirito: era la tragedia, ora è la malattia.
La prima volta che si rivela chiaramente il male è dopo l’incontro di Armando con la zingana. Ivi ha commesso direttamente il peccato, che è la sostanza della sua malattia; ha voluto strappare il suo segreto all’avvenire, e i suoi misteri al sepolcro. Ivi si sente desiderio infinito e impotenza assoluta.
Il suo male giunge all’ultimo stato di acutezza a Roma, sede dell’Arte. Innanzi a quella cittá, suscitatrice di tante memorie di una vita sana e poderosa, esclama:
O inutile mia vita! |
E, avoltoio feroce contro sé stesso, la nega, la maledice, corre al suicidio; il male, giunto alla sua ultima punta, si risolve; una vena di tenerezza, e la prima lacrima prenunzia la crisi.
— T’allontana da me, fatua farfalla, Ch’io giá non sono un fior per impregnarti L’ali di dolce ambrosia; e non un raggio Di foco in ver, per consumarle, io sono. T’allontana da me, vaga sembianza |
De’ miei giovani di: polve dipinta, Vile e fugace. — E si tergea dal viso Alcuna stilla di sudor, se pianto Forse non era. |
La malattia di Armando è pervertimento di ragione, non di cuore. È in lui rimasto illeso un fondo di bontá che lo salva e lo guarisce. Natalina, da lui beneficata, prega per lui. E la preghiera è esaudita. Armando a Roma ritrova infine sé stesso, ritrova l’Arte, ritrova Arbella, figlia dell’Arte. L’ incanto è sciolto; la malattia è guarita : Armando ama Arbella.
Qui finisce la parte Urica della sua vita; comincia il dramma. Armando non è piú solo, ha trovato un fuori di sé in cui si riconosce e si acquieta; era artista, riafferra l’arte; raggiunge la sua prima esistenza, quando non era ancora macchiata dal nome di Clara, e sente in sé rinascere la forza di amare, e si riconciha con la vita. Cessa la sua esistenza a solo; oggi esiste a due, ci è lui e Arbella, ora armonia, ora dissonanza : ci è il dramma con tutte le gradazioni della vita reale; in mezzo alla poesia spunta la prosa.
Armando rivive; il mistero della vita è sciolto; il segreto della vita è Amore; l’ideale che andava cercando è trovato, è Arbella; Arbella è l’Infinito.
Ma in questa vita nova non è spento il germe del male che vi si sviluppa immediatamente, si sviluppa nel seno stesso dell’amore. È Arbella che riapre la piaga:
— Ricordiam, ricordiam. Senza rimorsi È un divino splendor dell’ intelletto La ricordanza. — Il cupo Armando tacque. |
Armando cerca in Arbella l’obblio. Arbella risponde : — Ricordiamo!— . L’incanto è rotto: ricomincia la malattia.
Perché Armando ritorna malato? Perché ha preso per Ideale vero e assoluto, per obblio infinito Arbella, una delle sue tante forme, o figure, come susurra lo Spirito dell’amore:
Beltá della Natura, Fuggevoli in un di, Non siete che figura D’un Dio che non è qui. E in te pur anco, Arbella, Quel grande Iddio non è: Sol, come in onda stella, Splende riflesso in te. |
E che cosa è la ricordanza?
La ricordanza è Clara, la traditrice, che gli balena nella stessa immagine di Arbella e si confonde con quella; è il suo contrario (Mastragabito), che insidia Arbella e la scopre mortale; l’armonia e l’oblio è svanito; non hai piú l’amore, non hai Armando e Arbella; in Armando comparisce Mastragabito, il Male, e in Arbella si rivela Clara, la Morte.
La ricordanza è l’enigma che risorge, é la malattia che ricomincia con fenomeni piú acuti e piú pronunziati. Arbella è sana, perché si sente mortale; Armando è malato, perché si sente desiderio infinito e impotenza infinita, e non può comprendere questa contraddizione, non può scioglier renigma: si sente «naufrago... in un mar senza fine»:
. . . . . . . . . . . . Venire al mondo Con superbe nature, e non poterlo Dominar come numi. |
Ah! se un altro io nascea coll’ intelletto Parco e sereno, colle ingenue fedi, Tra le belle armonie della Natura E al soave baglior d’una speranza, Che vien dal Cielo, e al Ciel, come si narra, Torna indefessa, questo amor d’Arbella Unico, forte, solitario, immenso Dentro l’anima mia si leverebbe. Come il sol nelle sfere. E a me tutt’altro Saria parso quest’orbe e Chi lo fece, E cui fatto egli fu. Ma poi eh’ io nacqui Tal come io sono, vaneggiar che giova Dietro ciò eh’ io non sono? o luminosa Libertá del voler! Come la penna De’ filosofi è pronta a celebrarti, Sovra una carta, che poi stride oscura Piú dell’ inchiostro e piú dell’aura è lieve! |
Finisce con lo scherno, testimonio della malattia.
La quale giunge al suo ultimo stadio, sino all’allucinazione, scambiando persone reali con i fantasmi delle sue visioni, una giovanetta scozzese con Pachita, o un erbajuolo con don Porzio, il filosofuncolo.
Ma, giunta qui, la malattia si risolve. La preghiera di Natalina lo sanò una prima volta. Ora lo sana la preghiera di un carbonaio e della sua famiglia, i suoi beneficati. Mastragabito, il male, è vinto.
Clara anch’essa è vinta, il dualismo scompare; Arbella è sua, interamente sua; Armando intuona il primo ed ultimo canto del Risorgimento.
Piú non temer. Nel Dio Presente alla tua fede Giurerò fede anch’io. E il breve nido e l’aria Della terrena sede, Colomba solitaria, Dividerai con me. . . . . . . . . Serba per te, o Signore, La gloria e la possanza A noi consenti amore Lieto, profondo e pieno, O nell’oscura stanza, Della gran madre in seno Lasciaci riposar. |
Armando riconosce sopra di sé il Signore, e l’invoca, la prima volta l’invoca; abbandona la gloria e la possanza, l’eterno volere e non potere, interno suo avvoltoio.
Ma l’amore «lieto, profondo e pieno», è anch’esso l’infinito, anzi esso solo è l’infinito; Arbella che ama è la sua colomba in questo «breve nido» che si chiama la terra. Ma domani?
Armando non si oblia in Arbella, ma l’oltrepassa; il suo desiderio infinito non può essere appagato che in seno finito; e, mentre è cosí presso a possedere l’amata, domanda in sogno: — Quale sará il mio domani? — , come giá domandava a Pachita.
Cosi la sua guarigione è contemporanea con la morte; Arbella e il Domani si confondono; ed egli morendo profferisce le parole che annunziano la sua guarigione: — «Signore! Signore! accogliete con voi l’anima mia... e fatela degna di rivedere Arbella».
— «Che nozze terribili!» — , esclama il volgo.
No: questo è «il giorno dell’amore».
Armando non potea possedere Arbella che in cielo, dove il desiderio infinito è godimento infinito.
Tale è il malato, e tale è il mondo della sua malattia. A sua contraddizione, ad antagonismo ci sta il mondo della salute, il mondo, della fede ingenua, della vita operosa. Accanto ad Armando, agitato dal pensiero, e alla spoglia fluttuante di ser Calluga i pescatori remigano, cantando la felicitá e l’amore, i pastori intuonano i loro inni campestri, e il mondo maculato dall’umor nero dell’infermo spunta nella sua magnificenza come natura e come storia sotto i vivi colori dell’immaginazione del poeta; il quale, conscio del malore e presago de’ rimedii, è come il coro, sentimento e moralitá della favola.
Il contrasto che a volta a volta e in varie forme si rivela dapprima, prende in ultimo una forma fissa, e converte la favola in un vero dramma. Il contrasto è mastro Pagolo e Arbella; il primo la sana ragione, il buon senso; la seconda schietto amore e fede, immagine cosí serena e pura, quanto l’altra è turbata.
La favola, finché rimane in regioni umane, è una lirica che si trasforma in dramma. Ma, partecipandovi le essenze e le forme celesti, prende proporzioni epiche, diviene non la storia particolare di Armando, ma la storia dell’universo, ed arieggia alle colossali proporzioni della Divina Commedia e del Fausto.
Smisurata ambizione e confidenza di poeta! che, avendo dinanzi un concetto a cui è appena bastevole una vita d’uomo, ha creduto poterlo incarnare, e colorire in pochi anni d’ interrotto e distratto lavoro!
Le forme soprannaturali evocate dal poeta appartengono a tutte le mitologie, e sono apparizioni dello spirito infermo, che pure mantengono un lato obiettivo, rappresentando il bene ed il male, la salute e la malattia, la natura e lo spirito, quell’antagonismo insoluto che è l’enigma del mondo e la malattia di Armando.
-Ma in materia d’arte il concetto è nulla: la forma è tutto.
E la forma è falsa.
Il vizio della forma è in questo che il poeta, volendo abbattere questo mondo di Goethe, di Bvron, di Leopardi, divenuto il mondo della malattia, in luogo di prendere le sue ispirazioni e le sue forme nelle fresche aure di una realtá sana e robusta, creare la poesia nuova, dove il malato rimanesse estraneo e perpetuamente contraddetto, ha preso ad imprestito le sue forme da quello stesso mondo contro il quale impreca.
Quel mondo è qui riprodotto non nella sua grandezza derivata dalla sua originalitá e sinceritá, ma in ciò che ha di piú difettoso.
Il proprio di quel mondo è la possanza di fantasia, per la quale ciò che ci è di piú etereo ed impalpabile, acquista carne e polpa, e simula tutta l’apparenza della vita reale. E perciò è arte.
Amleto, Fausto, Mefistofele, Margherita, Manfredo, Consalvo sono non pensieri figurati, ma creature proprie e vere: sotto al discorso e al sentimento c’ è sempre la rappresentazione, il mondo còlto nell’atto della vita.
Non è il pescatore che canta meccanicamente canti d’amore, ma è amore rappresentato: non ci è 1’ invalido, reminiscenza di Waterloo, ma ci è Waterloo.
Certo, nel Fausto abbiamo allegorie accanto a vive e vere rappresentazioni; ma sono la parte meno lodevole del poema, e se li hanno un certo valore per la novitá e la freschezza de’ concetti e delle forme, qui perdono anche ogni importanza, divenuti quei concetti e quelle forme luoghi comuni.
Il Prati ha tenuto un processo, che mi par proprio la negazione dell’arte. In luogo di dare a’ suoi fantasmi tutta l’apparenza della realtá, si studia di togliere ogni illusione a’ lettori, quasi volesse gridar ben alto : — Guardate che questi personaggi non sono che pensieri e apparizioni simboliche — .
Diamo qualche esempio.
Armando è crucciato dall’enigma dell’esistenza. Il poeta esprime questo concetto, evocando i quattro elementi, e il Dio Pane, e lo Spirito, e facendo a ciascuno recitare un’ammonizione all’«omuncolo» che osa penetrare ne’ misteri della vita.
Armando riacquista l’amore dell’arte, sente l’arte. Il poeta, in luogo di rappresentare questo momento cosí poetico della risurrezione dell’anima, ti presenta delle statue simboliche che in sogno sembrano ad Armando creature viventi.
Cosa sono quegli elementi, e cosa sono queste statue? Sono concetti figurati.
Mefistofele è un personaggio cosí vivo e distinto, come Fausto e Margherita. Mastragabito è un sogno di Armando, un parto della sua immaginazione malata e non lasciato indovinare, ma detto espressamente.
Che cosa è Mastragabito? È la metafisica di Armando espressa per via di simboli appena abbozzati.
Che cosa è la stessa Arbella? È la fede opposta alla scienza vana e presuntuosa di Armando.
Il pensiero nell’arte dee esser talmente profondato nella forma che vi si perda, come pensiero. Poco importa sapere qual è il concetto di Beatrice. Ciò che importa è che Beatrice sia vera forma, e dove nella Divina Commedia è semplice allegoria, ivi perde il suo interesse poetico.
Qui le forme sono si scarne, la loro rappresentazione è cosí superficiale, che rimangono uccise dal pensiero.
Il poema è perciò propriamente un mondo Urico, perenne emissione di pensieri e sentimenti, dove non penetra né vera azione, né vera passione. Gli è come un Ubretto in musica, dove la parola è nulla, e la musica è tutto.
Prendete la scena in cui Arbella si presenta la prima volta agli occhi di Armando, amata, amante. Ciò che vi è di umano è volgare. Invano cerchi il delirio e il fremito dell’amore, l’entusiasmo nell’anima che risorge all’amore. Armando dice:
— Arbella, Arbella, tu non sai eh’ io t’amo! — . E l’amore d’Arbella è espresso in queste parole: . . . . . . . . . . . . . la piagata al core Dall’alta freccia. |
E la parola si trasforma immediatamente in suono musicale, e l’amore prende forma di pensiero e di simbolo ne’ canti dell’ape, della farfalla, della rosa, e dello spirito dell’Amore. Di modo che come qualche cosa di umano e di reale s’inizia, vanisce nel mondo del pensiero simbolico. Diresti che la vita non ha tempo di formarsi, perché l’anima n’esce immediatamente e se ne stacca, e non appena ella si annunzia, che si trasforma o in sentimento o in pensiero filosofico sotto figure allegoriche.
Cosi in questo mondo evanescente nulla vi è di plastico o di formato o di compiuto: perciò vi manca e l’illusione che incatena l’immaginazione del lettore, e l’emozione che sveglia i vari affetti dell’anima.
Il lettore innanzi a tanta onda di forme e immaginazioni bizzarre, insensate per sé stesse, e intelligibili solo per un significato appiccatovi, sta sempre in sul domandarsi : — Che ha voluto fare Prati? — . E quando l’ultima parola del lettore è un : — Che ha voluto fare il poeta? — , l’effetto estetico è fallito.
La favola può avere interesse anche come pensiero o moralitá, ma a patto che, come favola, abbia in sé stessa un valore assoluto, si che sia un fatto poetico in sé compiuto : non una spiegazione, ma una rappresentazione vera e perfetta della vita. Alla spiegazione penserá il lettore a suo agio; ma è necessario che egli riceva l’impressione immediata delle cose e degli uomini che gli si spiegano innanzi, non parlando o filosofando, ma esistenti e còlte in questo o quell’atto dell’esistenza. Allora il lettore si sente divenire immediatamente l’eco riflessa e partecipe di quella vita, e ci sta dentro e vi si oblia e gode.
Qui è l’effetto estetico, qui è quello che si dice dilettazione estetica.
Un matematico, ottuso alla poesia, domanda : — Ma cosa dimostra questo? — .
Guai! quando il lettore rimane rigido e come staccato da una poesia, e domanda : — Ma cosa significa? cosa ha voluto fare il poeta? — .
Questa domanda se la fará certo, ma quando l’effetto estetico è compiuto ed esaurito.
Qui il poeta stesso sembra soggiacere ad una preoccupazione che non ha niente di estetico. Teme di non esser capito, e che il lettore getti via il libro, dicendo : — Ma che mattezze son queste? — . E perciò spiega e torna a spiegare, sempre col pensiero innanzi, e a quello accomodando la rappresentazione. Cosi le forme sono solo abbozzate, la rosa appena piglia figura, un vento non amoroso ma nemico l’investe e la schianta: e ciò che rimane innanzi al lettore non è la rosa nata morta, ma il gelido pensiero o il puro spirito3 che agghiaccia l’esistenza e l’arte, non dando allo spettro una simulazione perfetta di vita, ma dando alla vita un continuo significato di spettro, ombra, vacuitá, apparenza; ciò che è distruggere ogni illusione e avvelenare la poesia nella sua fonte.
Il concetto stesso ha questo vizio, essendo nato non da un sentimento pieno e immediato della vita, ma da idee metafisiche preconcette e da fini estranei all’arte; sicché il libro sembra uno sviluppo, sotto forme e figure simboliche abbastanza trasparenti, di una serie di concetti, anzi che la rappresentazione diretta e immemore della vita.
Né mi si dica che il concetto è pur cosí nato in capo a Dante o Goethe, perché il vizio d’origine è stato in quelle possenti nature poetiche riscattato dal vivo sentimento dell’arte e della vita.
Certo, questo concetto del Prati è in sé stesso altamente poetico, e se non ti dá un mondo epico o drammatico, te ne dá uno splendidamente lirico, ed è il perpetuo svanire delle forme, il loro eterno divenire, il trapasso di forma in forma. Ma il Prati non ha compreso, o meglio, non ha sentito che la forma, perché diventi o trapassi, dee esser forma cioè nella piena simulazione della vita, ombra pur se volete, ma ombra come Francesca da Rimini, o Ugolino, o Mefistofele, o Consalvo. Cosi il divenire o il trapassare è tragico, e il lettore può sentire per quelle forme tutte le emozioni di una creatura viva, dolore, terrore, ansietá, curiositá, voluttá, tutto ciò che è umano. Forme che passano senza lasciare vestigio delle loro personalitá e della loro vita, sono forme né storiche, né poetiche; sono numero, sono meri accidenti privi di valore.
Nessuno ha spinto tant’oltre questo invitto divenire e trasformarsi dell’esistenza che Victor Hugo, specialmente nelle sue Contemplazioni; ma in quelle pagine, quante emozioni, quanti strazii! quale pienezza di vita! la forma passa, ma vendicata, con la superbia e la coscienza di Prometeo.
La forma non è poeticamente viva se non dispiegandosi come natura e come sentimento: ove ciò manchi, non può destare alcuno interesse per la sua sorte e per la sua vita.
Qui questo scarno e magro della forma si rivela nell’espressione, se vogliamo discendere in regioni piú basse.
La forma manchevole come natura, diviene figura.
La forma manchevole come sentimento, diviene rettorica.
Le apparizioni sono in gran parte figure di concetti astratti, e si pongono e si esprimono come figure. La stessa Arbella è piú figura che creatura indipendente o compiuta. E in queste figure il sentimento rimane come strozzato e incapace di svilupparsi, rimane ineloquente.
Arbella ama di sconsolato amore. Il poeta prega la Vergine per lei.
Cosí alterna com’ è, cosí beata Nella diversa visïon delle arti, Tu la vedi ogni sera inginocchiata, O Madre, a supplicarti! Ogni notte, di pianto arse le ciglia, Ella t’apre il dolor che la conquide, E al vecchio padre, per pietá di figlia, Ogni mattin sorride! Ma tu vedi e tu sai, Madre, gli affanni Di quell’anima ardente e vereconda, E come al serto de’ suoi giovani anni L’amaro tosco abbonda Ah! se mai non trovasse il novo affetto Sulla terra od in eie! grazia, né loco, Spegni piuttosto nel virgineo petto, Madre, l’infausto foco! |
Or noi avremmo voluto in questa figura, figlia dell’Arte e di Roma, in questa figura ardente, vereconda, innamorata, addolorata e lacrimosa, non epiteti, ma alquanto di quel dolore e di quell’ardore.
Nel di delle nozze, Arbella, parata a festa, attende il fidanzato, il tanto amato e desiderato, e indovina da un gesto del padre la sua sventura.
Egli è morto!... O Madre! o mia povera Madre! chiamatemi con voi.
Mastro Pagolo
Arbella... son vecchio.
Arbella
(gettandosi alle sue ginocchia)
Perdonami, padre mio!... Starò sempre con voi... Per caritá, non lasciarmi!... Salvami, salvami!...
Lisa
Ecco il giorno dell’amore!
Marina
Che nozze terribili!
Cosi finisce il poema.
Al lettore non è lasciato un momento d’oblio.
Il sentimento e troncato, quando è appena una interiezione, e prima che diventi eloquente. E quando l’animo è per intenerirsi, sopravvengono le esclamazioni di Lisa e Marina e lo strappano da quella vista e lo trasportano in altri orizzonti, nel regno dei simboli e delle allegorie.
Cosi la forma, come vita naturale, rimane involta e astratta, rimane figura.
La forma, come vita spirituale, come sentimento, diviene rettonica.
Armando è un personaggio rettorico, e il poeta nella sua qualitá di spettatore consapevole e partecipe, è anch’esso un personaggio rettorico.
Se Fausto fosse per lungo tempo quello che è rappresentato nel suo soliloquio, sarebbe un Fausto rettorico e noiosissimo. Ma quel soliloquio non è che il punto di partenza. Fausto ringiovanisce e attraversa con tutte le passioni di uomo le varie forme dell’esistenza. Cosi Fausto può essere un personaggio poetico.
Armando è Fausto, quale comparisce nel suo soliloquio, e i suoi discorsi non sono che quello stesso soliloquio, sminuzzato, amplificato, guardato da altri lati. Ripetizione sazievole di un’ idea fissa, Armando riesce prolisso, intollerabile e poco interessante : diviene rettorica.
E a questa rettorica partecipa spesso anche il poeta, quando cerca per via d’amplificazioni destare sentimenti e impressioni alle quali il lettore non è punto preparato.
Come esempio di splendida rettorica additiamo le prime pagine. Il poeta si sforza di trasmettere negli altri una folla d’ impressioni e di sentimenti, e non si accorge che il lettore, nuovo di tutto ciò che gli si agita pel capo, lo guarda con gli occhi spalancati, come volesse dire: — Ma che vuole costui? — .
Armando e il poeta sono i due punti fissi intorno a cui gira questo mondo fantastico, mondo di spettri e spiriti erranti dirimpetto Armando dal suo punto di vista di malato, ma dal punto di vista del poeta mondo dell’amore, della libertá, della fede, mondo pieno di valore e di poesia per le nature sane, semplici, schiette.
Il poeta è l’antagonista d’Armando.
Armando vaneggia su di una conchiglia; il poeta descrive le magnificenze della natura, e narra i miracoli della storia. È lo stesso mondo veduto da due lati. Le impressioni del poeta danno rilievo a’ vaneggiamenti d’Armando, e mettono in risalto la malattia.
Ma Prati non ha veduto che se volea uccidere quel vecchio mondo di spettri e spiriti erranti, non potea riuscirvi con ragionamenti, descrizioni e movimenti patetici, ma con la rappresentazione di una vita ricca e sana, sede dell’amore e della libertá.
I suoi ragionamenti, considerazioni, meditazioni sulla vita hanno la stessa forma dei discorsi di Armando, hanno una forma malata. Una vita del puro pensiero, in che è la malattia di Armando, non può esser distrutta da pensieri opposti, sarebbe lotta d’idee, non sarebbe poesia; ma dee esser distrutta dalla rappresentazione di una vita tutta azione e sentimento, realtá sana e robusta.
II ragionare, il meditare, il fantasticare, in luogo di operare e sentire, è questa la malattia; se il poeta che si crede sano, fantastica, e ragiona e medita, il poeta è malato anche lui senz’avvedersene.
Il medico d’Armando non poteva esser lui, e forse non è nato ancora. Armando potrebbe qui rispondere al suo medico: — «Cura te ipsum» — .
Ragionamenti l’uno, ragionamenti l’altro, tutto ciò protratto per si lungo tempo diviene un’esposizione prolissa, stancante e rettorica.
Quel mondo della malattia che nel concetto dovea essei distrutto, è esso che in questa forma uccide quanto vi è di sano: l’amore, la libertá, la fede, l’azione e il sentimento.
E perché questo? Perché il Prati è nato e cresciuto in questo mondo splendido di Goethe e di Schiller, di Byron e di Leopardi, perché, se malattia v’è, quella malattia serpeggia anche per le sue ossa, invade la sua anima.
Ohimè! Prati, non ti adirare. Noi siamo tutti malati; in tutti i cuori, anche nel tuo, ci è un po’ d’Armando; e il medico che dee guarire la malattia non appartiene alla nostra generazione.
Forse qualcuno che s’ ignora nelle tante universitá del mondo civile è il predestinato, la Musa nova.
Ti lampeggiò innanzi un «novo calle», e ti sei trovato nel calle vecchio. Quel mondo ti ha imposto le sue forme, ha riempiuta la tua anima delle sue reminiscenze. Tu hai scritta una musica, nella quale a volta a volta si ricorda Donizetti, Rossini, Bellini.
No. In queste libro non trovo quel sentimento vivo e presente della bella natura e della storia, quella coscienza della gioventú, della forza, della fede operosa, quell’entusiasmo e quasi tripudio di una vita rigogliosa, quella fresca onda d’impressioni giovani e pure, che prenunzia le grandi cose e può far dire: — «É un pensier del mio capo». E il mio «calle» è «novo» — .
Il poeta è ancora piú profondamente malato di Armando: perché Armando si sente malato, e il poeta si crede sano.
Il poeta disprezza il secolo in cui vive e che chiama infelice, giudica gli uomini, in mezzo a cui erra solitario, con lo stesso occhio di Armando; questo mondo sano della gioventú e dell’opera lo vede e lo descrive nelle memorie del passato, delle quali risuona la mesta eco ne’ canti de’ pescatori, de’ pastori e de’ gondolieri; il presente innanzi a lui sta come la terra de’ morti, dove grandeggiano, maestose rimembranze, Roma e Venezia, e appena nel suo petto è qualche oscura speranza di una seconda Italia riconciliata con l’antichissima Ausonia, avvenire lontano, « supremi anni », in cui sonerá
. . . . . . . . . . come una dolce Nota materna, di Virgilio il canto4. |
Questo scontento del presente, questa ribellione contro il secolo, questo ideale collocato nel passato, è appunto la vecchia Musa de’ nostri poeti, e in regioni piú alte è appunto quel mondo dello spirito, che non si riconosce nella forma e se ne stacca sdegnosamente, è quel mondo della riflessione oziosa e omicida, che consuma l’anima, le chiude l’adito all’azione, e si sfoga in perenni imprecazioni contro la terra e contro la vita, a cui invano aspira.
E si comprende come, avviluppato il poeta in questi concetti, in queste tradizioni, in questi esempi, in queste forme, postosi di rincontro ad Armando come espressione di un mondo opposto, si senta a ipoco a poco trascinare lá dentro anche lui, e usi modi e forme compagne che lasciano dubitare quale sia piú malato o Armando o il poeta.
Si comprende come essendo il mondo di Armando sempre vivo e costante, e l’altro o reminiscenze splendide, o vaghe speranze di lontano avvenire accompagnate sempre da imprecazioni contro il presente, il risultato finale, la definitiva impressione estetica non è il ( presentimento di un mondo novo, il mondo della sanitá e dell’azione, ma il trionfo della malattia, che s’impone ne’ suoi concetti e nelle sue forme, la voce postuma di un mondo conchiuso e giá storia.
Qui giunto, volevo conchiudere.
Volevo notare un dettato facile, peregrino, copioso di forme elette e non cercate, ma presentatesi pomposamente sotto la penna di uno scrittore maestro di verso e di stile.
E deplorare una facilitá ed una copia, che genera disuguaglianza, e fa desiderare la lima.
Volevo indicare alcuni frammenti lirici di non volgare bellezza, come la «sirventa» di Pachita o il canto del gondoliere.
E volevo dire che se a Prati fa difetto l’alta fantasia; se, ingegno lirico per eccellenza, non è uguale all’alto subbietto degno di Dante e di Goethe, è pure in tanta povertá presente tale poeta che il suo libro, caduto quasi inosservato in mezzo a una generazione distratta, meritava studio coscienzioso e serio, come si fa de’ sommi.
E non so cos’altro avrei detto, quando eccomi dirimpetto un Porzio qualunque, Porzio il filosofuncolo.
Ed ebbi torto di leggergli quello che avevo pensato e scritto.
E Porzio disse cosí:
— Il concetto di Prati l’ho capito io. Il mondo dello spirito non è malattia, è mondo bello e sano, dirimpetto al quale la vita è larva e parvenza, «pulvis et umbra». Ma in questo mondo sano si è sviluppata la malattia dell’ateismo e dello scetticismo, e questa è la malattia di Armando, questa ha voluto combattere Prati. Sono spiritualisti Armando e Prati, ma l’uno è spiritualismo vero e sano; 1’altro è spiritualismo falso e malato. Armando nega Dio, Prati rafferma. Armando è razionalismo puro, Prati è scienza armonizzata con la fede. Armando è dubbio, Prati è veritá; Armando è malattia, Prati è salute — .
— E tu sei, diss’io, Porzio. —
Non capi, e se ne andò tutto glorioso, col concetto di Prati in saccoccia.
Ti ringrazio. Prati. Tu hai resi immortali questi Porzii, che sciolgono in distinzioni filosofiche vita e poesia, mondo a loro ignoto.
Tu sai che innanzi alla poesia non c’è libertá vera o falsa: ci è la libertá.
Tu sai che innanzi alla poesia non c’è questa o quella malattia dello spirito: ci è la malattia dello spirito, la grande tragedia.
A Porzio ciò che è di Porzio. A Prati ciò che è di Prati. Prati può dire : — Un gran concetto mi ha attraversato la mente. L’ho pensato, e l’ho tentato: basta questo alla gloria di un uomo — .
E se il concetto di Porzio fosse per l’appunto il concetto di Prati?...
[Nella «Nuova Antologia» di Firenze, luglio i868.]