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LA «FEDRA»
di Racine.
Di lavori nuovi non si è rappresentato al Carignano, dopo la Clelia del Gattinelli, che una commedia intitolata: Le facce di bronzo. Non ne ho a dir nulla: è una commedia nata morta: né vo’ aggiungere i miei biasimi a quelli degli spettatori e della stampa. Noterò solo due suoi pregi non comuni: è scritta in buona lingua, castigata e disinvolta a un tempo, ed è sparsa di parecchi motti spiritosi, la piú parte originali. Sembra lavoro di un uomo di sano gusto: niente che miri all’effetto, che solletichi i sensi; l’autore ha mirato al semplice ed al naturale. Ma il semplice è spesso arido, ed il naturale è spesso volgaritá: una commedia che non si aiuti di mezzi esterni e meccanici dee supplirvi con la vivace pittura de’ caratteri e de’ sentimenti; quanto la superficie è piú magra e squallida, tanto dee essere piú ricca la vita interiore: l’autore ha cansato il Seicento, ed è caduto in piena Arcadia; non ti dá il falso, ti dá il vuoto.
Ben lavoro nuovo si può chiamare per noi la Fedra di Racine, che in veste italiana è stata per piú sere applaudita al Carignano. Oggi non si può nominar la Fedra che il pensiero non corra tosto alla Mirra; non si può pensare a Racine che dietro a lui non si drizzi l’ombra di Alfieri; e questo consociato con mille pettegolezzi e vanitá e gelosie, di cui prima la stampa francese ci ha dato l’ignobile esempio. La critica oggi è una specie di mare morto, sulla cui superficie immobile vedi a galla ogni specie di lordura; all’entusiasmo artistico, alla discussione de’ principii, che testimoniano vivo in un popolo il culto dell’arte e della scienza, sottentrano piccole passioni e meschini intrighi e grossolani pregiudizi. S’è fatto un gran dire intorno alla Fedra e alla Mirra: che cosa è nato di tutto questo baccano? Nessun lavoro serio.
Argomentatelo dalle quistioni che si sono poste, poiché il porre la quistione cosí o cosí è indizio dello stato in cui si trova la scienza, del modo in cui è concepita. Eccone un saggio.
i. La Mirra è una cattiva tragedia, perché non rassomiglia alla Fedra. 2. La Fedra e la Mirra sono tragedie immorali. 3. Molti fatti nella Fedra sono improbabili. 4. Racine ha tolto di peso molte situazioni e luoghi interi da Euripide. 5. La Mirra è migliore della Fedra, perché è meno collegata con i tempi ed i costumi antichi. 6. La Fedra di Racine è una concezione moderna e cristiana; Ippolito e Aricia sono personaggi moderni, ecc.
Queste quistioni sono i luoghi comuni della critica. Non disconosco la loro importanza; nel tempo in cui furono poste, destarono ardenti discussioni, diedero un vivo impulso agli intelletti; e ciascuna è stata un momento essenziale nella storia della critica. Questa scienza, come tutte le altre, si è andata formando a poco a poco; ha avuta anch’essa le sue ipotesi, i suoi sistemi, i suoi filosofi, i suoi pedanti. Ciascun sistema critico è la scienza considerata da un lato solo che si pone come tutto, è una forma che si pone come sostanza; esso dileguasi innanzi ad un sistema superiore, in cui ricomparisce nella sua vera natura, cioè non piú come il tutto, ma come parte. Quel sistema superiore è una concezione piú vasta, un orizzonte piú largo, ma non ancora il tutto, il sostanziale; eppure si pone anch’esso come tale, poiché gli uomini hanno bisogno di vedere, nel sistema da loro seguito, non solo la veritá, ma tutta la veritá. Di questi diversi sistemi rimangono alcune idee, che penetrano nelle scuole, nelle conversazioni, nella vita comune: idee disparate e spesso contradittorie, appartenenti a sistemi opposti, le quali diventano il patrimonio, il repertorio degli uomini estranei alla scienza, messe insieme e infilzate cosí a casaccio. Un critico t’istituirá un parallelo, ti fará della moralitá di una tragedia un caso di Stato, ti sosterrá il carattere moderno della Fedra francese; e non si accorge il valente uomo ch’egli spazia fra luoghi comuni, che queste quistioni, che una volta aveano il loro interesse, non hanno piú un senso oggi, e che egli accozza e confonde ciò che appartiene a diversi ordini d’idee.
Voi m’istituite de’ paralleli: biasimate la Mirra, perché non rassomiglia alla Fedra; la Fedra francese, perché è diversa dalla greca. Ma questa critica a paralleli oggi è un esercizio accademico, un mezzo comodissimo per riempire con poca fatica le lunghe appendici dei «Débats» e del «Siècle», un seicentismo critico, discorsi brillanti tutto a rapporti ed a concetti. Il parallelismo ebbe il suo significato, quando la critica aveva per fondamento certe regole e certi esemplari, con cui si ragguagliavano tutte le opere d’arte: furono i tempi dell’autoritá o della tradizione. Quel criterio non è piú riconosciuto, ma è rimasto il mal vezzo di far paralleli. Ho mostrato in un mio giudizio intorno alla Mirra, quanto sia diversa la concezione alfíeriana da quella di Racine, non ci essendo di simile che il fatto materiale, un amore incestuoso. Janin vuole che la Fedra sia il modello, e che la Mirra debba rassomigliare a quello. Che nasce da questi paragoni assurdi? Il critico vede la superficie, i lati esterni e comuni per i quali i due lavori si toccano, e non ciò che ciascuno ha di proprio, la personalitá, che è solo sé stessa, incomunicabile ed incomparabile. Ora, in questa personalitá, in questa vita interna è il sostanziale di un lavoro.
Voi chiedete se la Fedra è una tragedia morale. Questa quistione fa parte di un altro sistema. Si credette un tempo che la poesia fosse un mezzo per insegnare ed emendare «delectando». Dante, Tasso, Gravina, Zanotti, Boileau appartengono a questa scuola, alla scuola dell’«utile dulci», della «dottrina che s’asconde Sotto il velame dei versi strani», del «vero condito in molli versi». Ma è giá un secolo che si predica contro a questa dottrina: né ci è trattato di estetica, il cui primo capitolo non ragioni dell’indipendenza dell’arte: leggetegete Schelling ed Hegel e Cousin e Gioberti. La moralitá non è conseguenza dell’arte, ma il presupposto, l’antecedente; l’effetto estetico non è possibile in voi, quando non siate giá ún essere morale. Ditemi: — Perché Fedra soffre? e perché il suo soffrire v’impietosisce? — . Fedra soffre, perché ha il senso morale, e impietosisce voi, perché voi pure avete il senso molale. Ella soffre, perché la sua passione è in contrasto con la sua coscienza; e voi v’impietosite, perché, uomini morali, anche voi immaginate le angosce di questa lotta interiore, e compite con la fantasia lo spettacolo che vi presenta il poeta. Togliete la coscienza a Fedra, fatene un Borgia, un Jago; e la tragedia sará ancora morale, perché la coscienza è spenta in lei, ma non nel poeta, ma non in voi: la vostra moralitá si manifesta nella vostra impressione, l’orrore. La moralitá dunque preesiste all’arte, non è prodotta da essa. Il vostro riso, la vostra pietá, il vostro orrore testimoniano che voi siete un essere morale. — Ma nella rappresentazione il vizio trionfa! — Non è vero; se il vizio vi desta il riso o la pietá o l’orrore, secondo le sue gradazioni, ciò che trionfa non è il vizio, ma è l’umana coscienza. Questa teorica è compresa benissimo in Germania, e anche in Francia, se ne eccettui il reverendo padre Veuillot, che trova la Fedra francese piú pagana della Fedra pagana. Solo in Italia si sente parlare ancora di scopo morale: il che significa che tra noi in generale non si concepisce ancora l’arte come arte; che si confonde, come si facea prima, con altre discipline; che l’arte è considerata come una semplice forma senza contenuto proprio, una specie di segretario a’ servigi della morale e della scienza, destinato a porre in bello stile i pensieri del suo padrone.
— Nella Fedra vi sono molti fatti improbabili, — sostiene un altro. Fu giá un tempo che la critica venne ridotta a una specie di processo criminale, ad un calcolo di probabilitá con tutti i suoi antecedenti, concomitanti e conseguenti. Giudica vansi i fatti poetici col criterio del reale. A questo ragguaglio l’arte stessa è una grande improbabilitá, anzi un assurdo. Quelli confondono l’arte con la morale, questi con la realtá; coloro ne fanno una predica, costoro ne fanno una copia.
— Racine, esce in mezzo un quarto, ha tolto molte situazioni da Euripide; egli è un plagiario. — E non vede che i fatti materiali e le situazioni sono la materia ancor grezza e inorganica, che il poeta può prendere dove la trova, nella sua fantasia, ne’ libri, nella natura. Immaginare delle situazioni è da tutti; ma fin lá non mi avete fatto ancor nulla; non c’è ancora poesia.
Tutte queste osservazioni appartengono ad una critica, invecchiata ch’è giá molto tempo. Coloro che considerano nella Fedra ciò che vi è di antico e di moderno nella concezione, seguono un sistema critico men vecchio, ma non meno parziale ed insufficiente. Ecco uri magnifico lavoro di architettura. E voi mi dite sentenziosamente: — Guardate; è una cattedrale di stile gotico — . Gran mercé! Ma ci sono cattedrali pessime, mediocri e bellissime. E parimente una concezione può esser moderna e cristiana, e insieme sciocca, mediocre. Non basta il dire: — Aricia è una concezione moderna e cristiana — ; ciò che piú importa è di sapere se Aricia sia una creatura poetica. La qualificazione di moderno e cristiano può esser buona a classificare un lavoro, non a determinare la sua eccellenza.
Ecco una ipotesi che mostrerá meglio la vanitá di queste osservazioni. Poniamo che una tragedia sia fondata su di una concezione moderna e cristiana, originale, probabile, morale; sará perciò una buona tragedia? E se no, la vostra critica è dunque insufficiente, senza scopo, inetta a determinarmi, in che è posta la bontá di un lavoro d’arte.
Sceglierò un illustre esempio. Guglielmo Schlegel ha scritto un lungo giudizio sulla Fedra greca e francese, intitolato: Comparaison des deux Phèdre. È un lavoro fatto con quella serietá ed accuratezza che è pregio de’ critici tedeschi, e vi sono trattate molte quistioni importanti, e confutate alcune false opinioni. Tra l’altro, è degno di nota ciò che dice del fondo molale e religioso del dramma greco, e la sua confutazione di un pregiudizio molto comune a’ suoi tempi, ed anche oggi, che nella tragedia, per conseguire lo scopo morale, gli scellerati debbano essere puniti e premiati i buoni. Se consideriamo il suo giudizio per rispetto alla critica antecedente, vi è certo un gran progresso. Quando Laharpe affermava che «Racine a partout substitué les plus grandes beautés aux plus grands défauts1», Schlegel facea cosa utile a mostrare l’eccellenza del teatro greco e dell’Ippolito di Euripide. Quando i critici francesi sostenevano essere il teatro francese lo stesso teatro greco continuato e incomparabilmente piú perfetto, Schlegel facea bene a notare la differenza sostanziale che è tra’ due teatri e la superioritá del greco. Quando i critici rimanevano estatici innanzi a’ versi, alle frasi, alle parole, Schlegel provvedeva alla dignitá della critica, alzandola all’esame de’ caratteri, degli affetti, di ciò ch’egli credeva l’essenza della tragedia.
Ma Guglielmo Schlegel non comprende in che è posta l’essenza dell’arte. Il suo orizzonte è piú largo, le sue osservazioni procedono da principii piú elevati, ma ancora accessori ed inessenziali. Vi si vedono molti difetti ch’io ho notati innanzi.
Fonda il suo giudizio su di un parallelo tra le due Fedre. Eccoci giá a’ paralleli. In luogo di esaminare la concezione di Racine in sé stessa, le mette di fronte quella di Euripide2; e mi maraviglio come un critico cosí acuto non abbia veduto la differenza sostanziale che è tra le due concezioni. A suo parere. Racine ha seguito in tutto Euripide, solo raffazzonando e modificando ne’ particolari la tragedia greca per accomodarla a’ costumi francesi. Ma le modificazioni di Racine sono sostanziali, si che ne è uscita una concezione affatto diversa, forse senza accorgersene egli stesso.
La tragedia di Euripide non è la rappresentazione di questo o quel carattere, di questa o quella passione. È una vasta composizione, tutto un mondo, con grandezza epica, con movimento lirico: il significato è nel suo insieme.
È una lotta in cielo ed in terra; Venere e Diana s’incarnano, si umanizzano in Fedra ed Ippolito; in cielo, la lotta è fuori de’ legami della natura, fuori delle turbazioni terrene; in terra, è passione, colpa e morte; le potenze superiori signoreggiano la natura e rompono le sue leggi, invano repugnanti i mortali. In questo mondo mistico, in cui il libero arbitrio non ha ancora piena coscienza di sé, in cui epopea, dramma e lirica s’incontrano, si confondono, dove accanto allo strazio delle passioni trovi l’immutabile serenitá de’ celesti, e l’azione va spesso a sciogliersi ne’ lirici concenti del coro, tutto è in armonia, e la vita penetra nelle minime parti.
Questo mondo armonico è stato guasto da Seneca, che, rompendo ogni misura e gittando nell’ombra le altre parti, pone di prospetto Fedra e attira in lei l’attenzione. Nelle tragedie di Seneca comincia giá a trasparire la caduta degli Dei e la libertá dell’anima; se non che, povero di poesia e messo in un mondo che non era giá piú il mondo pagano, ma né ancora il cristiano, questa nuova situazione vi sta impacciata e contraddittoria, quasi germe o presentimento oscuro del dramma moderno. Nel suo Ippolito egli si propone di rappresentarci in tutte le sue gradazioni una passione incestuosa; ’l’orrore è la sua musa e la Corte di Nerone la sua ispirazione. L’innaturale vi è condotto fino alla sfacciatezza, e la dichiarazione di amore che la madre fa al figlio è degna de’ contemporanei di Caligola e di Messalina.
Questo mondo poetico, guasto da Seneca, è stato sfasciato da Racine; Seneca ne ha gittate nell’ombra alcune parti; Racine le ha cancellate. Nel poeta latino trovi ancora l’antagonismo tra Venere e Diana, tra Fedra ed Ippolito; il mondo di Euripide non ha perduto il suo significato. Tutto questo è sparito in Racine; la sua tragedia è puramente e semplicemente la rappresentazione di una passione; Fedra è non solo il personaggio principale, ma tutta la tragedia. Venere, Diana, Ippolito, Fedra, tutta la vasta composizione di Euripide, va in fumo; ben vi è Venere, ma è un nome; ben vi è Fedra, Ippolito, anzi per giunta un’Arida, ma sono nomi, comparse ficcate li per dare occasione a Fedra di manifestare le varie gradazioni del suo carattere. La Fedra di Euripide è piccola parte di un gran mondo; la Fedra francese è essa l’anima di tutto ciò che si muove intorno a lei. Vedete l’impressione. Nella tragedia greca Fedra scompare senza che l’interesse si menomi; rimane Teseo, Ippolito, Diana. Fedra è un istrumento spezzato quando è fatto inutile; l’azione cammina senza essa; l’interesse, piú concentrato, è piú vivo. Nella tragedia francese tutto langue, dove non è Fedra, e le conversazioni tra gli altri personaggi sarebbero insopportabili, se una voce segreta non dicesse agli spettatori: — Abbiate pazienza; fra poco verrá Fedra! — .
Un parallelo adunque tra le due concezioni è impossibile; manca il fondamento. — Il Teseo e 1 ’ Ippolito di Racine, dice Schlegel, non è simile a quello di Euripide. — Non è e non dee essere. La Fedra non è simile a quella di Euripide. Non è e non dee esser. Eccone qualche esempio. Racine dice:
Que ces vains ornements, que ces voiles me pèsent! Quelle importune main, en formant tous ces nceuds, A pris soin sur mon front d’assembler mes cheveux? Tout m’afflige et me nuit, et conspire á me nuire. |
Schlegel osserva: «Il suppose que Phèdre s’est parée apparemment dans le dessein de rencontrer Hippolyte. La Phèdre grecque est trop malade pour cela». Certamente; la Fedra di Racine non è e non deve essere cosí malata; ella è languente, ma non consunta e logora; nel suo languore vedi piú la malattia dell’anima che del corpo; ciò che non ha compreso Schlegel, e nemmeno la Ristori. In Euripide non vi è che l’espressione d’un dolore fisico:
Grave quest’ornamento Mi è sul capo: via, via. Il crin raccolto Disnodatemi, e vada Giú per le spalle sciolto. |
In Racine il dolore fisico è congiunto con altri sentimenti; la sofferenza rende Fedra capricciosa, stizzosa, di cattivo umore; è una natura piú ricca:
Tout m’afflige et me nuit, et conspire á me nuire. |
Dieux! que ne suis-je assise á l’ombre des forêts! Quand pourrai-je, au travers d une noble poussière, Suivre de l’œil un char fuyant dans la carrière? |
Questi paragoni, dunque, non menano a niente, o, piuttosto, menano al falso. Schlegel si è fatto tirare da’ suoi avversari in una falsa via: — poiché i critici paragonano, paragoniamo anche noi — . Ed il suo paragone delle due Fedre non ci dá, come è naturale, una perfetta rappresentazione critica né dell’una, né dell’altra; ci dá non le cose, ma certi loro rapporti; e, quando le cose non vi si acconciano, ei le guasta e le riavvicina per forza.
I principii, de’ quali si vale come criterio critico, sono piú larghi, ma insufficienti anch’essi. Tenta di alzarsi sulla critica ordinaria, che stagnava per lo piú nelle frasi, ne’ versi, nell’elocuzione, ma si smarrisce per via e non s’incontra con l’arte; anch’egli dá di capo nella probabilitá, nel decoro, nella moralitá, in tutto fuorché nell’arte, che è quel vagare dell’uomo che non afferra la quistione nella sua parte vitale.
— Non si può, egli dice, dal poeta immaginare che nello stesso giorno sia commesso il male e punito, senza una grande inverisimiglianza. — Qui Schlegel siegue la falsa teoria della probabilitá.
— Teseo è troppo credulo; si ricordano certe sue cattive azioni; l’annunzio della sua morte cava d’impaccio i personaggi; il suo ritorno li gitta in ansietá; Teramene esorta Ippolito ad amare: tutto questo è poco decoroso.— Eccoci ritornati alla teoria del decoro, come se i personaggi tragici non fossero uomini, non avessero le loro debolezze, e non potessero commettere atti indecorosi. Schlegel avrebbe dovuto dimostrarmi che l’indecoroso sia stato spinto da Racine fino al comico, e solo allora si potrebbe discutere con lui. Ma l’indecoroso per sé stesso è una delle varie facce della vita, e può entrare in ogni genere di poesia. La critica antica facea del decoro la condizione sine qua non del poema epico, della tragedia, della storia; e Schlegel è caduto nello stesso errore.
— La Fedra di Racine è una creatura poco morale; manca di delicatezza; opera per paura; non ha dignitá, non forza d’animo; è irresoluta, debole; dice spesso di voler morire, e le sono parole; non sa né accusare Ippolito, né impedire l’accusa; vuol parlare a Ippolito de’ suoi figli, e gli parla del suo amore; vuole scagionare Ippolito, e si ristá dal farlo per gelosia; si uccide quando non c’è piú necessitá di morire. — È la teoria della moralitá e della dignitá che qui serve di criterio a Schlegel.
Verso la fine par ch’egli si alzi ad un ordine piú serio di considerazioni. E quando crediamo ch’egli si levi oramai all’essenza stessa dell’arte, vediamo con rincrescimento ch’egli non si leva in alto, se non per rimaner nell’astratto. — Spogliando la tragedia delle sue parti accessorie e guardandola in sé stessa, egli dice, troveremo il fondo della tragedia greca nel fatalismo, e della tragedia cristiana nella provvidenza — : di che cita ad esempio Calderon, ed il dramma spagnuolo in genere. Tra questi due sistemi ci è lo scetticismo, la negazione, la discordia interna, di cui ci è esempio l’Amleto, il Re Lear e qualche altra tragedia di Shakespeare. Il povero Racine non trova posto in questi sistemi; qualche idea di provvidenza trapela nella sua tragedia, ma «isolément, á la surface, et sans qu elle soit identifiée avec le tout». E con supremo disprezzo Schlegel aggiunge, mettendolo a un mazzo con tanti altri: «Lorsqu’ ils ont rencontré une fiction ou un fait historique quelconque, qui parait leur offrir des situations pathétiques et une catastrophe frappante, et qu’ ils sont parvenus á l’arranger dans le cadre usité des cinq actes, en observant l’unité de temps, de lieu, et les autres convenances théâtrales, ils croient d’avoir rempli leur tâche, sans se soucier d’un but ultérieur».
Ma questi stessi, che non si danno pensiero di uno scopo ulteriore, lo raggiungono, senza saperlo; poiché è impossibile che una tragedia non sia collegata con tutto un sistema di credenze. E questo scopo è scolpitissimo in Racine, nella cui tragedia il fatalismo vi sta per cerimonia, per tradizione; il soprannaturale fa atto di presenza, e le vere forze motrici dell’azione sono i caratteri e le passioni; è il libero arbitrio sprigionantesi dal fato, l’individuo che si conosce e si pone come tale, il dramma moderno succeduto all’antico. Come si sia, questo è il culmine, il piú alto della critica di Schlegel, quello ch’egli crede i! fondo, l’essenza della tragedia; e non è se non il semplice concetto astratto, preesistente alla tragedia, senza ancora alcun carattere di poesia.
Schlegel ha ragione contro i critici suoi avversari, che ponevano la quistione a quel modo: li combatte con le stesse loro armi. Ha ragione contro Racine critico, che non avea coscienza piena del suo lavoro, ed era anch’egli impastoiato in quelle false teorie, come Dante e il Tasso. Ma Schlegel ha torto per rispetto a Racine poeta, per rispetto all’arte.
Ripeto la mia ipotesi. Poniamo che la tragedia di Racine avesse tutto quello che desidera Schlegel; che i fatti fossero verisimili, che non si contravvenisse mai al decoro, né alla moralitá, che la dignitá della natura umana fosse salva, che vi fosse uno scopo provvidenziale; sarebbe perciò una buona tragedia? Il buon senso risponde di no. Una tragedia può avere tutti questi caratteri, ed essere mediocrissima. E se ciò è vero, questi caratteri sono accidenti, accessori piú o meno importanti, non l’assoluto, l’essenziale, il fondamento della tragedia.
La critica di Schlegel parve profonda in quel tempo, in cui quelle quistioni non erano ancora abbastanza chiarite e discusse. Oggi le sono luoghi comuni, e sarebbe oramai tempo che fossero sbandite dalla critica italiana, e ch’ella si levasse al vero concetto dell’arte. La critica si è troppo intrattenuta sul contenuto, sulla materia astratta della poesia. Che gli eruditi m’informino quali sieno e di che qualitá i materiali, di cui si è servito Racine, bene sta. Ma ciò che importa, e ciò che la critica spesso trascura di fare, è di mostrarmi, in che modo questi materiali sono stati lavorati e trasformati dall’arte, e se nelle mani di Racine sono rimasi un semplice aggregato, o sono divenuti un mondo vivente. Ecco in che modo va posta la quistione, la quale è cavata ora dall’intima natura della poesia, e non da rispetti accessori ed estrinseci. E se Racine ha saputo spirare la vita in queste membra sparse, il contenuto considerato astrattamente sará pagano o cristiano, inventato o imitato, fantastico o storico, con o senza scopo morale, probabile o improbabile, ecc., poco monta: egli ha fatto un capolavoro. E se no, il contenuto avrá tutte le piú belle qualitá che vi piace; vi sará rispettata la dignitá umana, con uno stupendo scopo morale, ed il sistema della provvidenza e il decoro e la verosimiglianza, ecc., poco monta: egli ha fatto un aborto. Ecco un criterio critico inappellabile e terminativo; e, quando la critica giunge a quest’altezza, ella è l’arte stessa che si trasforma e si fa creazione riflessa, è il genio che si fa gusto, è il poeta che mira in uno specchio e si giudica, critico di sé stesso.
Il mondo di Euripide, guasto da Seneca, è stato disfatto da Racine: che cosa vi ha egli sostituito? Racine non ha osato abbastanza. Ha disgregato il vasto insieme di Euripide; ma non lo ha distrutto. Nel poeta greco è un tutto vivente; in lui sono frammenti. E, per parlare esteticamente, ha distrutto il lavoro poetico, ed ha conservato la materia grezza. Incalzato dall’istinto de’ suoi tempi, ha sentito l’impossibilitá di porre in iscena seriamente Venere e Diana e Nettuno e Teseo ed Ippolito, ed è venuto ad un compromesso. — Il mondo antico non si confá col nostro. — Giú dunque, è la risposta. — No, risponde Racine, transigiamo Una parte rimanga, ma togliamole ’ogni vita, facciamola cadavere; un’altra parte trasformiamola, facciamola moderna. — Questo contrasto tra due mondi opposti si vede in tutt’i poeti classici, che hanno preso ad imitare gli antichi, e giunge fino al grottesco ne’ primi tempi, come in un certo frate italiano, che nelle esequie di Eurialo fa celebrare l’ufficio dei morti.
E, per veritá, poniamo che il poeta avesse rappresentato seriamente questi due mondi: gran bella cosa a vedere la dea Venere accanto ad un galante principe francese chiamato Ippolito, o alla sentimentale Arida! Ma Racine ha trovato ottima via a cansare ogni contrasto tra’ due mondi, annullando l’uno e l’altro: sono ombre che s’incontrano, senza toccarsi, senza urtarsi. I grandi poeti sono dotati di una sí potente spontaneitá, che danno vita a tutto ciò che toccano; non sanno concepire l’astratto; vedete Dante e Shakespeare; leggete i Promessi sposi; o, per parlare di questo stesso argomento, leggete l’Ippolito di Euripide. Il suo mondo è un ideale compiutamente realizzato; e, se guardi a’ sentimenti, a’ costumi, al colore locale, alle tradizioni, ai paragoni, agli epiteti, questa poesia ti parrá una storia. Non solo tutt’i personaggi sono perfettamente disegnati, ma fino il coro ha la sua personalitá, tanto che alcuna volta ti pare un uomo o una donna: tu ti aggiri in un mondo, che ti par di conoscere da lungo tempo. Nella tragedia di Racine sono scene intere, nelle quali la pompa rettorica mai cela il vuoto che vi sta al disotto: leggete, per esempio, i discorsi tra Aricia ed Ippolito. Alcuni hanno biasimato quest’episodio, come mal legato col tutto: con quella stessa pedanteria, onde altri biasimavano nella Gerusalemme l’episodio di Olindo e Sofronia. Ma non istá qui il male. L’episodio del Tasso si ride della critica, perché è un miracolo di poesia, l’episodio di Racine è biasimevole, perché è vuoto di poesia, perché i due innamorati sono mezzi caratteri, perché non esce dalla loro bocca un solo accento che parta dall’anima: è un amore Tettonico, senz’azione, senza contrasto, senza gradazioni, che si esala in belle frasi, e si analizza e si spiega. Udite Ippolito:
Depuis près de six mois, honteux, désespéré, Portant partout le trait dont je suis déchiré, Contre vous, contre moi, vainement je m’éprouve: Présente, je vous fuis; absente, je vous trouve. Dans le fond des foréts votre image me suit: La lumière du jour, les ombres de la nuit, Tout retrace á mes yeux les channes que j’évite: Tout vous livre á l’envi le rebelle Hippolyte. Moi-même, pour tout fruit de mes soins superflus, Maintenant je me cherche, et ne me retrouve plus. Mon are, mes javelots, mon char, tout m’importune. Je ne me souviens plus des leçons de Neptune; Mes seuls gémissements font retentir les bois, Et mes coursiers oisifs ont oublié ma voix. |
È una bella descrizione in versi magnifici, che pur non fa alcuna impressione, poiché essa fa supporre in Ippolito una passione profonda e straordinaria, che non ha tempo di mostrarsi, che non può avere alcuna rappresentazione in mezzo a’ maggiori interessi della tragedia; Ippolito è per noi il figlio e l’amato di Fedra; Ippolito innamorato è fuori della nostra attenzione; la sua passione, magnifica di parole, rimane vuota e oziosa, senza valore drammatico; i suoi sfoghi d’amore rimangono conversazioni idilliche, tra il galante ed il sentimentale.
Ma ecco che cosa Racine potrebbe rispondere. — Concedo che il mondo drammatico che io vi presento, preso nel suo insieme, è un morto aggregato; che alcune parti sono squallide, altre ripugnanti; che l’antico vi sta, perché ve l’ho trovato e non potevo toglierlo, vi sta incadaverito; che antico e moderno non è abbastanza fuso e formato, si che sia un tutto armonico. Non voglio discutere: concedo tutto questo. Ma io posso farvi tacere con una sola parola: ho creato Fedra! —
E Racine ha ragione. Il significato della sua tragedia non è in una vasta totalitá, in cui tutt’i personaggi conservano un valore assoluto, come in Euripide, ma è tutto in un solo personaggio, con cui e per cui esistono gli altri. Questi sono frammenti di uomini, che hanno tanto di vita, quanto basti a dar risalto a questa o quella qualitá del personaggio principale. Ippolito e Arida si debbono amare, perché in Fedra si possa mostrare la gelosia; l’interesse poetico del loro amore è nell’effetto che produce in una terza persona. Teseo deve morire e risuscitare, perché ciò è necessario allo sviluppo della passione di Fedra. Vi sono poeti che anche a questi accessori sanno dare una certa vita propria, come Shakespeare; Racine li ha trascurati: e che importa? Egli ha creato Fedra; e, poiché la sua tragedia non è fondata sulla vasta concezione greca, poiché essa è tutta e solo in Fedra, egli ha fatto un capolavoro.
Ci sono alcuni che pongono la bellezza d’un carattere nella sua concezione astratta, ed inarcano le ciglia, quando ci trovano entro qualche cosa di nuovo e di profondo. Ma inventare un carattere o una situazione lo possono anche quelli che non sono poeti: Leibniz, che non era poeta, ha inventato un intero poema epico. Non solo quelli che non sono poeti possono inventare un carattere, ma possono ancora costruirlo, cioè a dire determinare le diverse parti e porle l’una appresso l’altra: fin qui è meccanismo. Se ci aggiungi un po’ d’immaginazione, si che a questa costruzione artificiale si appicchi quello che i critici antichi chiamavano una bella veste, cioè uno splendido colorito, e quel lusso e quella pompa esteriore, in che molti pongono ciò che dicono le veneri e le grazie della poesia, avrai i poeti di second’ordine. Fin qui non ci è ancora vita organica, non ci è creazione: questo è l’abisso che bisogna varcare per esser detto poeta, e Racine è poeta: tutto ciò che sta innanzi è mediocritá.
Permettetemi dunque ch’io sorrida quando sento dire: — Gran cosa che ha fatto Racine! ha creato Fedra! — . Ma egli l’ha tolta di peso da Euripide, e lo confessa egli stesso: «Quand je lui ne devrois que la seule idée du caractère de Phèdre, je pourrois dire que je lui dois ce que j’ ai peut-être mis de plus raisonnable sur le théâtre». Dite pur questo, e dite ancora di piú. Dite ch’egli ha preso da Seneca ancor piú che da Euripide; che la scena terza dell’atto primo è quasi tutta di Euripide; che la dichiarazione d’amore che fa Fedra è tolta da Seneca; che la scena della gelosia è ispirata da Seneca. Che piú? Dite che non solo ha tolte ad imprestito le situazioni, ma le immagini, i pensieri, i sentimenti. E poi? E poi non m’avete provato ancor nulla! Rimane l’infinita distanza tra un collegiale rappezzatore e Racine. Voi che accusate Racine, avete innanzi tutta la natura, avete innanzi tutte le opere d’arte; io vi do facoltá d’imitare, di togliere di qua e di lá; prendete la penna; eguagliate Racine. E la penna vi cade di mano. Egli è che la grandezza del poeta non è ne’ materiali ch’egli adopera, ma nella loro fusione organica che faccia di quelli una persona viva, effetto di un’attivitá interiore, di una spontaneitá produttrice, che dicesi genio.
Fedra è una fuggevole apparizione in Euripide; ella è tutta una tragedia in Racine, essa sola tutto un mondo drammatico. Abbiamo la storia di un’anima appassionata in tutta la sua ricchezza.
La sua passione è colpevole, e lo sa; la sua anima è scissa tra due forze opposte e pari: la passione ed il senso morale. Date a questa donna un carattere risoluto, e la tragedia muore in sul nascere: ella non indugerá a prendere il suo partito. Tale è la Fedra di Euripide: nella stessa scena ascolti i suoi lamenti, scopri il suo segreto e la sai morta. Questa fermezza di proposito manca alla Fedra francese: Schlegel gliene fa colpa; ed a torto. Fedra, come l’ha concepita Racine, è tirata in qua e in lá da due sentimenti ugualmente infiniti, e l’uno non ha, non può avere virtú di distruggere l’altro. Quando vi pare che la passione abbia il di sopra, ecco il senso morale riaffacciarsi in forma di rimorso, e, mentre maledice la sua passione, nei suoi occhi brilla il desiderio. È una lotta non superabile, che soverchia la sua volontá e la gitta in balia del caso e la rende giuoco degli avvenimenti. Inetta a prendere e seguitare con costanza un partito, ciascuna volta che Fedra entra in iscena, la vediamo con ispavento dare un nuovo passo verso la sua rovina: non nasconde la sua passione, non salva il suo onore, non provvede all’onore della sua famiglia, non salva la vita. Quando è tempo di morire, si fa lusingare da vane speranze; muore, quando la sua morte non è che una volontaria espiazione. Abborre dal male, e lo lascia commettere; corre a’ rimedi, quando il male è irrimediabile; vuol parlare ad Ippolito de’ suoi figli, e parla del suo amore; vuole smentire la nutrice e scagionare Ippolito, e se ne rimane; un istante prima dice alla nutrice: — fa tu — , un istante dopo la colma di villanie e la sospinge alla morte. — Sono contraddizioni, — osserva Schlegel. Certamente; la contraddizione generata dalla lotta è il fondo di questo carattere; non vi è niente di cosí contraddittorio come il cuore umano. Ond’è nata una profonda tragedia: e dico profonda, perché il fato tragico nasce non da intrighi, da accidenti, ma dall’essenza di questo carattere. La prima volta che questa donna manifesta la sua anima agli spettatori, ci vediamo una specie di predestinazione: le vediamo scritta in fronte la catastrofe.
Questa contraddizione ti offre contemporaneo e compresente tutto il carattere, nel tempo stesso che ne vedi uscir fuori or questa, or quella parte, secondo gli avvenimenti e gli altri personaggi. Non vi è propriamente una successione logica, di modo che si vegga prima la passione, poi il rimorso, indi la gelosa, ecc.: difetto in cui capitano i costruttori, quelli che concepiscono un carattere «a priori». Vi è un certo processo, qualche cosa di successivo, corrispondente all’andamento dell’azione; ma la vita interiore è cosí potente, che ogni volta dietro ad una parte trabocca tutta al di fuori. Ha dolore congiunto a furore, speranza a disperazione, amore ad odio, rimorso a voluttá; rapidi passaggi, rapidi ritorni. Schlegel non concepisce come questa donna possa un momento prima dire che ama, ed un momento dopo che odia Ippolito, che è un mostro; certo, questo è contro la logica di Aristotele, ma è secondo la logica di Omero. Rapidi paesaggi, rapidi ritorni, maravigliosi di veritá, ora apparecchiati, ora improvvisi, prorompenti ora da idee espresse, ora da sottintese; in che è la maggior difficoltá del recitare, non superata sempre dalla Ristori. Eccone due:
Vous haïssez le jour, que vous veniez chercher! |
Noble et brillant auteur d’une triste famille, Toi dont ma mère osait se vanter d’ètre fille. Qui peut-être rougis du trouble oú tu me vois, Soleil, je te viens voir pour la demière fois! |
Questa improvvisa apostrofe è preparata dalle parole di Enone. Ma quando Fedra soggiunge:
Dieux! que ne suis-je assise á l’ombre des forêts! Quand pourrai-je, á travers d’une noble poussière, Suivre de l’oeil un char fuyant dans la carrière? |
questo non ha alcuna attinenza con le parole della nutrice, e fa supporre che Fedra non l’ode, che altre idee le pullulino in capo facili ad indovinare, da cui nascono le sue parole. L’attrice qui, mentre Enone parla, dee con l’azione muta mostrare la sua distrazione e l’oggetto a cui tien dietro: il che non avendo fatto la Ristori, ne nacque che questo passaggio, il quale ben preparato dee essere di potentissimo effetto, restò quasi inavvertito. In queste rapide mutazioni, in questo movimento interiore del carattere, è posto il segreto dell’arte e l’interesse drammatico: al che suppliscono i mediocri col cumulo degli accidenti, con la complicazione dell’intrigo, co’ quadri ed i colpi di scena.
Paragonate le prime scene della Fedra. Quanto languore nella prima! quanto interesse nella terza! Nella prima vi è un movimento di fatti, che non hanno alcuna eco nell’anima. Ippolito vuol partire per rivedere il padre, da cui è da sei mesi lontano; c’è la risoluzione, manca ogni espressione di sentimento filiale, il dolore, l’ansietá, l’impazienza. Teramene accusa Teseo: Ippolito lo difende; si esprime con convenienza, ma senza caldezza; alla sua difesa non partecipa il cuore. E parli di Fedra o di Arida, non si passa di lá dalla superficie, il suo cuore riman chiuso; aggiungi, ad ogni minimo pretesto, narrazioni de’ fatti antecedenti: hai piuttosto una lunga conversazione, che una vera scena drammatica. Ma quanto interesse nella terza! Ciascuna risposta di Fedra è una nuova faccia della sua passione; la contraddizione scoppia dalle prime parole, la nutrice esclama a ragione:
Comme on voit tous ses voeux l’un l’autre se détruire! |
— Cet Hippolyte...... Phèdre — Ah! Dieux! |
Qui è la crisi della scena; l’attenzione si raddoppia; s’intravvede qualche mistero orribile. E fin qui quante mutazioni! quante gradazioni! come lampeggia al di fuori l’anima tempestosa! Questo è il movimento drammatico.
Questo è giá molto, ma è ancora insufficiente alla poesia. Anche in Seneca vi è molto movimento, una ricca esplicazione del carattere; basta leggere la sua scena della dichiarazione, imitata da Racine. Ippolito vede Fedra esitante: la esorta a parlare.
Phèdre — Curae leves loquuntur, ingentes stupent. Hippolytus — Committe curas auribus, mater, meis. |
Quel «mater» è di terribile effetto drammatico e fa presentire tutto l’orrore della situazione; lo stesso effetto fa il «signor...» di Alfieri: Mirra non osò dire: — Mio padre — . Ma Seneca non è poeta; e però tutto questo movimento è qualche cosa di artificiale, senza naturalezza e senza colore: l’anima vi rimane estranea. Seneca filosofeggia in versi; i sentimenti e le immagini ei te le muta in sentenze, in concetti astratti. — Perché non parli? — , domanda Ippolito. Fedra risponde con una sentenza:
Curae leves loquuntur, ingentes stupent. |
Je le vis. je rougis, je pâlis à sa vue; Un trouble s’eleva dans mon áme éperdue; Mes yeux ne voyaient plus, je ne pouvais parler;<brJe sentis tout mon corps et transir et brûler. |
Se questo, come osserva Voltaire, che se ne intendeva, fosse detto da una terza persona, sarebbe un’amplificazione rettorica, un cumulo di belle immagini, ma fredde, scompagnate dal sentimento. Ma qui è Fedra che parla, che risente quel turbamento, che sente nella sua anima e nel suo sangue riprodursi quel passato. — «C’est Phèdre amoureuse et honteuse de sa passion, dice Voltaire; son coeur est plein; tout lui échappe.» —
La sua passione, dopo tre atti, sembra esausta: il poeta l’ha presentata sotto tutti gli aspetti; ed ecco al quarto comparire un nuovo elemento, la gelosia, che rinfresca l’attenzione, accresce l’ansietá, dá nuova ricchezza al carattere: qui è il trionfo di Racine; la scena sesta è una maraviglia di poesia. Tutt’i sentimenti di Fedra sboccano come un torrente e si urtano, s’intralciano, si compenetrano, vivono sotto una sola immagine, a quel modo che nella faccia o negli occhi vediamo talora muoversi diversi ed anche contrari affetti. La sua fantasia corre appresso a’ due amanti; s’immagina che in quello stesso momento ridano di lei, «une amante insensée», che giurino di non piú lasciarsi; e li vede ne’ boschi parlarsi, cercarsi3; onde rabbia, ansietá, turbamento, delirio, ritorno in sé stessa, rimorso, tenerezza, orrore, e nuove immagini e nuovi sentimenti. Questo è poesia.
Non ho innanzi la traduzione e non posso darne giudizio; mi parve corretta e spesso fluida; ma Racine non si traduce.
Della Ristori, che meritò nella parte di Fedra si grandi applausi, non voglio e non debbo parlare per incidente. Ha comune la scuola con altri attori piú o meno valenti, ma ha di proprio alcun che di geniale, che merita di essere studiato.
[Nella «Rivista contemporanea», a. III, i856, vol. V, pp. 597-6i5.]
- ↑ Le annotazioni di Laharpe alla Fedra ci mostrano la vacuitá di questo critico tanto celebrato a’ suoi tempi. Sono per lo piú esclamazioni di maraviglia, frasi generali, lodi superlative che non lasciano niente di determinato nella mente, se ne eccettui qualche osservazione grammaticale o rettorica intorno all’intrigo. Eccone un saggio: La scène entière est un modèle étonnant de toutes les teautés tragiques et poétiques dans leur perfection: intérêt, dialogue et style, tout y est au plus haut point. — On dirait que, toutes les jois que Racine se sert de ce qu’un autre a fait, c’est Pour montrer comment il fallait faire. — Il semble que quand Racine marche tout seul, il n’a d’abord suivi des modèles, que pour faire voir combien il savait les dévancer. — Ce qu'il emprunte, devient toujours meilleur entre ses mains. — Et que peut-on dire et sentir de plus dèchirant quand on aime? O grand peintre de la nature et des passions! Cette conception si vraie et si intèressante est non seulement hors de toute comparaison avec Euripide, mais même n’a rien de commun avec tout ce qu’on a vu en aucun ternps sur la scène. È il fraseggiare di tutti i critici che non vogliono prendersi l’incomodo d: pensare.
- ↑ A quei tempi erano in voga i paralleli, ed i classici erano il termine di paragone. Sono note le interminabili comparazioni sul merito degli antichi e de’ moderni. Laharpe trova Racine sempre superiore ad Euripide, e la sua ammirazione lo rende scioccamente villano verso gli altri; Schlegel, fondatore di una nuova critica, non avrebbe dovuto seguirlo per questa via; ma, sviato dalla polemica, tira innanzi, e, passando anch’egli la misura, trova tutto a biasimare in Racine, tutto a lodare in Euripide; ci si vede l’ardore di un avvocato che ha innanzi l’avversario, non il sereno giudizio di un critico. Lodo la sua temperanza e cortesia nel linguaggio, che fa contrasto col fare avventato ed insolente di Laharpe; ma chi ben guardi, scoprirá quanto ci è di eccessivo e di violento sotto a quella tranquilla apparenza.
- ↑ Qui ci è un altro passaggio, stupendo di veritá, e di poesia, che non fu bene apparecchiato dalla Ristori con l’azione e col tono della voce:
Dans le fond des forêts allaient-ils se cacher?
Hélas! ils se voyaient avec pieine licence:
Le ciel de leurs soupirs approuvait l’innocence, ecc.Al secondo verso entra un nuovo ordine d’idee. Fedra concepisce l’amore d’Ippolito ed Aricia con le stesse circostanze del suo amore colpevole, e crede ch’essi andavano ne’ boschi a nascondersi, che si amavano di soppiatto; quando, con un improvviso ritorno su di sé stessa, s’avvede della differenza de’ due amori. Schlegel domanda se le principesse greche andavano per avventura ne’ boschi, e non vede che questo appunto mostra, il turbamento di Fedra. Il passaggio è tale, che non può essere non gustato e non produrre una grande impressione, quando sia ben rappresentato.