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Machiavelli. Conferenze
Il Farinata di Dante La prima canzone di Giacomo Leopardi

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Conferenze.

I


Le conferenze sono il portato della democrazia. Per esse la scienza esce dalle anticamere dove è mantenuta e protetta, e giunge nel popolo, a cui serve direttamente e da cui vien pagata. Quando diventerá comune convincimento che sia obbrobrioso accettar servigi senza remunerazione e che, d’altra parte, l’onesto guadagno come remunerazione del lavoro sia cosa che onori e sollevi l’uomo al piú alto grado di dignitá, allora queste conferenze popolari pagate verranno presso di noi in onoranza, come sono giá presso i piú civili e culti popoli del mondo. Anche a Parigi si è creduto testé un gran trionfo del progresso il poter ottenere di conferire liberamente in adunanze popolari su’ problemi della scienza. In Italia, sventuratamente, il sistema delle conferenze non è attecchito finora per le costumanze arcadiche ed accademiche che abbiamo. Qui tutto viene ordinato a spettacolo : gli oratori parlano per fare effetto e per farsi applaudire; gli uditori intervengono per applaudire e proteggere, a seconda delle loro simpatie, atteggiandosi ognuno di essi alla Leone X. Qui ogni atto della vita pubblica ha due lati, uno apparente ed un altro nascosto; vi è la scena e la controscena, perché le tradizioni della tirannide secolare ci hanno abituati alla cospirazione. Onde non sappiamo pensare a qualche cosa che dovrebbe per sé stessa prodursi alla luce del giorno senza apparecchiarla colla cospirazione. In Italia gli elettori cospirano per fare i deputati, e costoro a loro volta cospirano per fare i ministri.

Non è guari celebravasi a Firenze il centenario della nascita di Niccolò Machiavelli; ma questa solennitá non è stata punto popolare, non è stata avvertita dall’universale, non ha lasciato vestigia, appunto perché non si è saputo uscire dall’Arcadia e dall’Accademia: i soliti discorsi, le solite poesie, e null’altro che questo, lnsomma, dalla festa di Machiavelli non è uscito altro che la conferma della tradizione popolare, secondo la quale Machiavelli sarebbe stato un gran furbo. Il popolo fiorentino, con quell’argutezza che lo distingue, disse che la vera festa di Machiavelli s’era celebrata nella sala dei Cinquecento, perché appunto in quel giorno nel Parlamento giuocavasi di destrezza e di furberia. Quanta diversitá tra noi e la Germania! Anche la Germania si apparecchia a celebrare un centenario: quello di Giorgio Hegel; e filosofi e scienziati scrivono libri intorno a lui e diffondono nel pubblico la notizia delle sue idee. Ora io mi domandai se non ci fosse miglior modo di celebrare veramente l’anniversario di Niccolò Machiavelli, e pensai che, per onorare la sua memoria, il meglio che si potesse fare era di ergere la sua statua intellettuale, presentandolo al popolo nella veritá del suo carattere. Ed accettando il suggerimento di alcuni amici, sono venuto a fare queste conferenze intorno a lui, qui a Napoli, la cittá dai liberi corsi scientifici, dall’ingegno vivace e penetrante, dalla gioventú appassionata pei nobili studii.

Mettiamoci dunque insieme a studiare Niccolò Machiavelli Ma qual metodo adopereremo? Piglieremo a guida estetiche ed etiche vecchie e nuove? Ci ispireremo in Aristotele o in Hegel, in quanto a metodo? No, questa sarebbe scolastica. Ci metteremo noi a giudicar Machiavelli per dire se quel tale dei suoi libri fu morale od immorale? Ma questa sarebbe una piccineria inconcludente. Il critico deve farsi la coscienza e l’occhio di quella produzione dell’ingegno umano che vuole esaminare. Deve prendere l’autore e rifarlo vivo come fu nei misteri della sua produzione. La critica comprende, e alla comprensione segue il giudizio. Ogni produzione adunque ha la sua critica speciale. Qual sará quella che si conviene a Niccolò Machiavelli? Se la posteritá, soffermandosi ad una parte piú appariscente e piú palpabile dei prodotti dell’ingegno di Niccolò Machiavelli, ha detto: — Per me questo è Machiavelli — ; noi non accetteremo questa critica, perché essa è unilaterale e superficiale. Noi invece dobbiamo prendere Machiavelli nel suo intero. Ma, prima di studiarlo per conto nostro, bisogna vedere come è stato studiato dagli altri.

Ogni uomo ha il suo lato esteriore ed appariscente, ed il suo lato interiore e nascosto. Sovente quella esterioritá calunnia la sostanza, per cosí dire, dell’uomo : sovente la adula. Nella prima ipotesi avete degli uomini troppo severamente e forse ingiustamente giudicati; nella seconda, avete le reputazioni usurpate. Machiavelli ha avuto la sventura di produrre il Principe con una brutta esterioritá. Onde non ci è da meravigliare se ai suoi contemporanei parve uno scandalo. Egli ebbe il coraggio di dire quello che a’ tempi suoi tutti avevano il coraggio di fare; ma per quella specie di pudore pubblico, che vuole taciuto anche quello che tutti praticano, le sue idee produssero una penosa impressione. Erano i tempi di Alessandro VI e di Cesare Borgia. Ma fu peggio ancora, quando sopraggiunse la reazione cattolica: Machiavelli diventò allora proprio intollerabile.

Quando fu sanzionata la libertá di coscienza, i tempi volsero propizii al Machiavelli, e venne l’epoca delia riabilitazione per lui. Insomma, il Machiavelli era pretesto ad una grande lotta che si combatteva, e l’assolverlo o il condannarlo era lo stendardo delle parti che si contendevano il terreno. Però gli sforzi stessi dei suoi difensori ce lo dipingono sempre come un accusato, come colui che ha bisogno della difesa.

Io riassumerò in poche parole molti e molti volumi, che si sono scritti per difenderlo. Uno scrittore si diede la pena di spigolare in tutte le opere di Machiavelli e raccogliere tutte le sentenze morali di lui per contrapporle alle immorali. Queste poi si ebbe cura di dimostrare che non eran nuove di conio, ma desunte da scrittori che maggiormente erano in reputazione di gente morale, come a dire da s. Tommaso d’Aquino e da altri scrittori di tal fatta. Altri, non potendo salvare il libro, procurarono di salvare la persona, additando la sua vita come un esempio di moralitá. Altri ancora gettarono tutta la responsabilitá sui tempi nei quali visse e scrisse il Machiavelli. Ma queste sono sempre circostanze attenuanti, che suppongono l’esistenza della colpa, e non l’assolvono. Bacone da Verulamio disse che Machiavelli, fingendo di insegnare ai principi le arti del dispotismo, volle insegnare indirettamente ai popoli la maniera di disfarsene. Rousseau chiamò il Principe il codice dei repubblicani. Fu detto pure che con quei consigli il Machiavelli volesse perdere i Medici, spingendo la loro tirannia all’estremo e provocando cosí contro di essi la reazione. Ecco quanto si è detto in difesa. Ma che valore hanno e l’accusa e la difesa? L’accusa è rettorica, perché allora essa avrebbe forza, quando dimostrasse che coi mezzi morali o immorali del Machiavelli non si mantengono, ma si perdono gli Stati. Nessun accusatore del Machiavelli è passato ai posteri Un gesuita disse «machiavellismo» quello che dipoi doveva dirsi «gesuitismo». La difesa è sofistica, e non giunge a riabilitare Machiavelli. Insomma, due secoli e mezzo di critica, fatta intorno al gran pensatore politico, non sono altro che una quistione posta male. Il Machiavelli, quale ce lo han presentato finora, è una creazione delle passioni politiche; è un riflesso subbiettivo, non è il Machiavelli per sé stesso. Per ritrovarlo, bisogna spogliarlo delle sue esterioritá ed entrare nei misteri della sua produzione intellettuale.

Io ch’amo secolo non la ordinaria misura del tempo, ma quelle grandi tappe dell’umanitá, in cui appariscono dei principii nuovi e si trasforma la faccia del mondo. Questo avviene per una lenta e costante elaborazione di tutti gli elementi sociali, i quali vi lavorano inconsapevolmente; ma, prima di dare il colpo mortale all’edificio crollante, si aspetta un uomo che è destinato a riassumere in sé tutto quel movimento, al quale tanti elementi cospirarono senza saperlo, e che è destinato a dargli il nome. Machiavelli fu l’uomo appunto di questo passaggio da un secolo all’altro.

Machiavelli vede lo Stato dei suoi tempi, sente la «corruttela» che lo circonda, e vi getta dentro l’immagine di tempi migliori, facendo rivivere le memorie del classicismo romano. Negando il Medio evo, facendo rivivere l’antichitá gloriosa, egli afferma i tempi moderni, e si dimostra cosí il piú moderno di tutti i suoi contemporanei. In altre parole, Machiavelli comprendeva che quella «corruttela» che lo circondava era la putrefazione di tutto il Medio evo, e cominciò a scavare sotto quell’edificio per trovare la base intellettuale, e pose le fondamenta di un altro tempo e di un altro edifizio. Egli, adunque, si presenta alla posteritá appunto come la negazione del Medio evo e come l’affermazione dei tempi moderni.

Noi, per conseguenza, per intendere Machiavelli, dobbiamo seguire il suo intelletto a traverso la corruttela dei tempi in cui viveva, e tenergli dietro in tutto il suo lavorio. Allora, alla frase vacua: «tanto nomini nullum par elogium», sostitui remo l’altra, significativa: «al fondatore dei tempi moderni».

II


È innegabile che l’Europa ancor mezzo barbara fra il decimoquinto e il decimosesto secolo sopraffece l’Italia civile. Come spiegare questo fenomeno? Bisogna vedere innanzi tutto in quale stato si trovavano 1’ Europa e l’Italia. L’ Europa era nel suo periodo di formazione. Essa poteva dirsi il vasto campo di una lotta generale: i vassalli lottavano contro i feudatarii, questi contro i feudatarii maggiori o piccoli monarchi, e questi contro l’imperatore. La Spagna cacciava i Mori e si costituiva sotto le case di Aragona e di Castiglia; la Francia usciva dalla sua lotta contro l’Inghilterra; l’Alemagna era in aperta insurrezionezione contro i due piú grandi poteri che l’occupavano, il papato e l’impero. Con ciò l’Europa veniva compiendo il suo periodo di formazione ed entrava in quello della sua costituzione. L’Italia, per contrario, in qual periodo si trovava della sua vita? L’Italia aveva giá prodotta una civiltá; per lei era giá un passato quello che era l’avvenire pel resto dell’Europa. Ma perché essa non ebbe la forza di condurre piú innanzi la sua civiltá?

Quando le idee, che hanno prodotto la vita di un popolo, muoiono, la vita può continuare per poco, ma giá si prepara la morte. Ciò accade costantemente degli individui, ma non è men vero dei popoli. Essi, quando perdono le idee da cui ripetono la propria civiltá, conservano le apparenze della vita; ma di essi può ripetersi col Berni: «Andavan combattendo ed eran morti!».

Quali erano le idee che avevano prodotto in Italia la grandezza del Medio evo? Erano la Chiesa, il Comune, l’Impero. Ma all’epoca del decadimento che cosa furono piú queste idee? Vera forse piú la Chiesa coi suoi concetti arditi di monarchia universale? col suo giure canonico che s’era sostituito al feudale? A tutto ciò era succeduto l’interesse personale. Togliere qualche brandello di Stato ai vicini, arricchire i nepoti: ecco a che eran ridotte le grandi aspirazioni della Chiesa!

E l’idea dell’Impero, a che era essa ridotta? l’idea ghibellina dove stava piú? L’Italia indubitatamente si credeva regina del mondo non solo pel concetto del papato, ma anche perché credevasi l’erede naturale dell’ impero romano a causa del ghibellinismo: ma, se, all’epoca di cui discorriamo, il partito guelfo non aveva piú idee, il partito ghibellino era spento. Molti Comuni, vedendo da vicino i Cesari tedeschi, ebbero a toccar con mano la picciolezza di questi e scadde nella coscienza universale anche l’idea dell’impero. Ed i Comuni, che cosa divennero? Essi, nella loro epoca di splendore, furon la libertá: furono i cittadini che disfecero le castella e costrinsero i signori a soggiacere al diritto comune, furono la lotta della borghesia contro la feudalitá. La libertá, rappresentata allora dai Comuni, era qualche cosa di concreto, non di sentimentale o di astratto come ai tempi nostri : onde il Machiavelli ebbe a definire Stato libero quello in cui tutto è a beneficio di tutti.

Ebbene, questo concetto splendido del Comune libero era eziandio scaduto, perché i Comuni divennero monopolio di pochi ambiziosi ricchi e potenti, che ne agognarono il dominio: onde si vede un nuvolo di tirannelli, che fu la degenere trasformazione dei Comuni medesimi. L’antico valore dei guerrieri degenerò anch’esso, e la potenza del brando si riassunse negli avventurieri, specie di briganti dei tempi nostri, che taglieggiavano dovunque e mercanteggiavano coi piccoli Stati per vendere la loro potenza. L’Italia adunque, a differenza dell’ Europa che si formava, s’era giá formata, ed aveva anzi oltrepassata la sua civiltá, di cui erano morti tutti i fattori. Ma, se è cosí, perché mai quel secolo fu chiamato «il secolo del risorgimento»?

Anche la decadenza ha la sua storia ed il suo processo. Essa nel suo primo momento è tutta interiore, è una specie di vuoto che si forma nella coscienza; ma l’esterno è galvanizzato ed ha ancora le sembianze della vita. Cosi accadeva allora dell’ Italia, la quale non aveva avuto tempo sufficiente per svolgere la sua civiltá del Medio evo, del XII e XIII secolo: due secoli appena non potevano bastarle. Erano, adunque, gli ultimi bagliori di una civiltá al tramonto, i quali si perpetuavano nel periodo di decadenza, quasi per allargare i confini del precedente ciclo troppo angusto; ma anche questi avanzi di civiltá subivano l’influenza dei tempi e avevano in sé i germi della morte. Infatti, ultimi fenomeni di questa civiltá furono il lusso e l’eleganza. Il lusso è la ricchezza non adoperata a produrre ricchezza, ma a godimento materiale: gl’infingardi nepoti godono delle fatiche degli avi! L’eleganza non è il portato dell’ingegno vero, ma di quello che ammaniera, che liscia, che abbella. L’arte, infatti, manifestavasi nelle sue ultime pulitezze e finitezze colle opere di Raffaello e del Tiziano, colle produzioni letterarie del Poliziano e dell’Ariosto. Lucrezia Borgia, quella donna che tutti sanno, era una signora elegantissima. Cesare Borgia era uno dei piú distinti cavalieri dei suoi tempi. Su questa societá tutta lisciata soppraggiunsero i barbari. Quale antemurale essi potevano trovare? Trovarono uno sciame di principotti dissoluti e banchettatoli, con tutto quel séguito di vizii e di putredine, che il Machiavelli chiamò «corruttela italiana». L’Italia cadde, perché era corrotta.

Savonarola avverti questa corruzione, e l’andava predicando per ottenerne l’emenda. Ma per questa minaccia di morte della nazione non c’ è forse un rimedio? Si; ci è la riforma. Epperò tutti coloro che in quei tempi avevano lo sguardo lungo non pensavano che alla riforma. Quando però la corruttela è infiltrata dovunque, non può bastare piú la riforma a dare la vita: bisogna che si compiano i destini; e la riforma può preparare solo la lontana resurrezione. Allora vedete sorgere dei pensatori solitarii, che, spingendo il loro sguardo nel futuro, consegnano nei libri la parola dell’avvenire. Essi rimangono ignoti od oscuri nel loro paese per un certo tempo; ma intanto i semi da essi gettati cominciano a germogliare contemporaneamente fuori, dove per avventura il terreno è piú adatto a comprenderli. Accanto a Machiavelli, ricordate i nomi di Bruno, Campanella, Galileo, Giannone. Di qui due modi di riforma.

Il primo modo s’indirizza a correggere coll’esempio e coi precetti morali la vita ed i costumi corrotti di un popolo; il secondo agisce colla scienza e tenta di rifare addirittura lo spirito. Il primo fu tentato da Savonarola dal pergamo. Egli vagheggiò nel segreto della sua cella di rifare la base imputridita dell’edifício sociale, rifacendo la Chiesa, che voleva ricodurre alla purezza dei suoi primi tempi, e ridonando la libertá all’antico Comune, che l’aveva perduta; ma il popolo lo abbandonò, la Chiesa lo uccise.

Perché intanto il Savonarola non riuscí nel suo compito? Perché non comprese né la malattia che affliggeva la patria, né le medicine di cui aveva bisogno: egli si arrestò ai fenomeni del morbo senza rintracciarne e curarne le cagioni. L’ascetismo ed il misticismo furono la negazione della vita operosa ed utile. Chi si ritira dalla vita attiva e sconosce la sua missione in questo mondo, è indegno di questa e dell’altra vita.

Ciò avrebbe segnato un regresso anche rispetto al papato, il quale ebbe i suoi momenti di maggior grandezza quando, uscendo dalla vita inerte e contemplativa, si mischiò nel movimento della vita esteriore ed ebbe ambizioni secolari. Ora, il Savonarola voleva curare il male dei suoi tempi colle penitenze e colle giaculatorie, credendo cosí di moderare il mal costume; ma egli doveva invece combattere l’ozio. All’ozio ed all’infingardaggine sociale egli propose dei rimedii da convento. Una riforma tentata su queste basi non poteva certamente riuscire.

Disperato di riuscire colla persuasione, e’ ricorse alla violenza; onde si videro le pene corporali per il mal costume, ed ai bestemmiatori si dovevano bruciar le lingue, ad altri peccatori infliggere altre specie di torture. Però la fine di Savonarola, tutti la sanno, fu una fine tragica. Quando Savonarola cadde, cadde con lui la libertá di Firenze; e questo ha contribuito a tramandare il nome di lui ai posteri circondato d’una certa aureola gloriosa. I Medici rientrarono in Firenze col solito corteggio di scherani vendicatori e di persecutori. I seguaci del Savonarola furono tutti puniti; ma si risparmiarono coloro a cui fu schermo l’etá soverchiamente giovanile. Fra questi però vi erano di quelli piú tenaci e persistenti nel seguire le teorie del maestro; e si narra che un giovane a sedici anni, seguace del Savonarola, fosse punito con un’ammenda di duecentocinquanta fiorini. Sapete chi era questo giovane?

Era Niccolò Machiavelli!

Il Machiavelli aveva udito dal Savonarola parlar della corruttela del secolo e dei mezzi occorrenti per guarirne l’Italia.

Niccolò Machiavelli nacque nel i469, mori nel i527, vivendo cinquantasette in cinquantotto anni: fu una vita che abbracciò la fine del secolo XV ed il principio del secolo XVI; e, non altrimenti che quel secolo fu la preparazione di questo, Machiavelli si formò nel primo e si rivelò nel secondo. Povero, ebbe bisogno di procacciarsi un posto per campare la vita; ed a ventinove anni ottenne un posto nella segreteria della Repubblica. Per circa quindici anni fu negli affari della Repubblica ed è ancora noto col nome di «segretario fiorentino».

Che cosa fu questo tratto di vita per Machiavelli? Fu un periodo di vota perduto per l’immortalitá. Io me ne passerei volentieri, se non ci restasse un tesoro di lettere e di scritti suoi d’ufficio. In questi scritti si trovano cose, di cui l’Europa per lo innanzi non aveva idea. Vi si trovano dipinture di popoli e di costumi fatte da lui in occasione delle sue missioni diplomatiche, leggendo le quali si vede in qual modo egli comprendeva gli uomini e concepiva i principi. Appena avvicinava un potentato, confessa egli stesso di non occuparsi di altro che di sapere che cosa vuole, a che mira; quali sono i fini, quali mezzi e forze possiede per raggiungerli. E qui, rispondendo a queste indagini, nei rapporti ch’egli faceva a Firenze esamina minutamente le condizioni del paese dove è stato mandato, ed i costumi dei popoli. In ciò trovate un primo indizio del fondatore futuro della commedia italiana. Machiavelli guardava gli uomini come colui che indaga le altrui azioni, tenendosi però fuori la scena della vita: egli faceva dei ritratti in caricatura, di cui si tenterebbe indarno di uguagliare la bellezza. Udite questo passo in cui vuol dipingere la natura dei francesi e degli spagnuoli:

Il francese ruberia con l’alito per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi l’ha rubato: natura contraria alla spagnuola, che, di quello che ti ruba, mai ne vedi niente.

La Repubblica cadde con Pier Soderini, «ultimo dei repubblicani ed il primo degl’imbecilli». Allora Machiavelli fu gettato sul lastrico, o destituito, come direbbesi ora. Mentre il povero Machiavelli si adoperava a curare un poco il suo scarso patrimonio, usci in campo una congiura contro i Medici, e Niccolò, preso tra i sospetti, fu torturato.

Ma tralasciamo codesto; chi vuol sapere di piú, non dee far altro che leggere due suoi sonetti, o piuttosto epigrammi; e vi troverá dipinte al vivo le sue sofferenze, e il modo altero e sdegnoso con cui le sopportava. È nota la sua vita a San Casciano, dove si manteneva facendo tagliar legna dal suo piccolo bosco e vendendole. È una tragedia vera, sotto la forma piu volgare : il mattino va nel bosco, si accapiglia co’ taglialegna e coi compratori per una moneta, che serve a sostentare la sua famiglia. Partiti gli uni e gli altri, entra nel folto bosco, e lá, in compagnia di uno dei suoi classici antichi autori, comincia a «libertineggiare» con lo spirito che non voleva rimanersene ozioso. E ci descrive poi la sua vita nell’osteria, dove giuoca a «cricca» e a «tric-trac» con gente vilissima, «e nascono mille contese e infiniti dispetti di parole ingiuriose, e il piú delle volte si combatte un quattrino, e siam sentiti non di manco gridare da San Casciano». Niccolò Machiavelli sentiva tutta la viltá di quella vita :

Cosi rinvolto tra questi pidocchi, traggo il cervello di muffa, e sfogo questa malignitá di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per questa via per vedere se la se ne vergognassi.

Ma la sera, quando non vi erano né faccende né osterie, l’uomo ripigliava il suo posto; entrava nel suo studio, e si metteva in comunicazione coi grandi pensatori dell’antichitá.

Il Machiavelli ebbe coscienza di questa sua nuova fase: egli sentiva di non essere piú uomo politico, ma pensatore, e si accorse della grande importanza di questi suoi studii. Riandando il processo seguito dal Savonarola per guarir l’Italia dalla «corruttela», vide che non si poteva arrivare a questo scopo né rifacendo la Chiesa, né rifacendo il Comune. Studiò profondamente la storia, e si dimandò se in essa non vi fossero delle leggi, delle condizioni che comunemente s’appellano la forza delle cose. E, guardando dappoi i fatti storici, che spogliò della cronaca, rinvenne la genesi di quei movimenti e di quegli Stati giovani e vigorosi che lo circondavano. Egli fece dei fatti una specie di logica vivente. Con ciò il Machiavelli creò la filosofia politica e accennò alla filosofia della storia: ecco quali furono i risultamenti delle meditazioni del solitario di San Casciano.

Un giorno fu tratto dalla solitudine e gli fu affidata una commissione ufficiale. Fu invitato a portare un’ambasciata dei Medici a un certo capitolo di frati minori. Egli non se ne indispettí, né se ne adirò. Anzi, da uomo di spirito, accettò invece come augurio di migliori cose; e ne trasse profitto, perché in questa congiuntura pigliò a studiare la «repubblica de i zoccoli», come gli diceva Guicciardini.

È molto curiosa la corrispondenza scambiata in questa occasione tra il Machiavelli e il Guicciardini. Per raccomandazione di quest’ultimo, il Machiavelli fu ospite in casa Gismondi. Un giorno, rallentando lo zelo dell’ospite, Niccolò scrive a Guicciardini: — Vedi di mandare un qualche segno per cui io appaia un pezzo grosso e si rinvigorisca la gentilezza del mio ospite — . Infatti, poco dappoi giunse un pacco di lettere con suggelli papali, ed il Machiavelli in grazia di ciò ebbe un pasto lautissimo. Nella sua missione però non riuscí, perché il priore si mostrò piú astuto di lui. E svanirono via via le speranze di Machiavelli. Ebbe dappoi altri ufficii; ma sempre di poco conto.

Perdute cosí le illusioni per sé e per l’Italia, appare nell’ultima epoca della sua vita come la piú amara ironia di quella societá, di cui giá aveva meditato i difetti.

La commedia italiana, prodotta dal Machiavelli, è l’ultima forma del suo spirito. Egli, infatti, moriva col sorriso beffardo sulle labbra. Aveva cominciato guardando a Savonarola; finiva accennando a Voltaire.

Migliore epitaffio non si sarebbe potuto scolpire sulla sua tomba di quello uscito dalla bocca di un suo figliuolo: «Nostro padre, questi diceva, è morto poverissimo: noi abbiamo per ereditá il suo nome e il suo esempio».

Questa, a grandi tratti, è la vita esterna di Machiavelli. Vediamo ora i frutti del suo intimo pensiero.

III


Chi era Savonarola e chi era Machiavelli? Savonarola fu l’ultimo raggio di un passato che tramontava sull’orizzonte; Machiavelli fu l’aurora precorritrice de’ tempi moderni. L’uno, l’ultimo tipo del vecchio uomo medievale; l’altro, il primo tipo dell’uomo moderno.

L’eroe se ne va: sparisce il cavaliere, il crociato, il santo. Succede in suo luogo la grandezza naturale, quella che viene dall’ingegno e dal sapere, senza segni esteriori che l’accennino, senza che vi sia bisogno di pompa e d’apparenza.

Savonarola sul pergamo, suo piedistallo, apparisce ancora come il messo di Dio, l’apostolo, il profeta, il martire. Niccolò Machiavelli è l’uomo borghese, l’uomo della scienza e del lavoro, mescolato con la moltitudine fino alla volgaritá. Volgare diceva il Guicciardini la vita del Machiavelli; ed è appunto la grandezza che apparisce nuda, perché non le occorrono lenocinii di forma.

Ambedue volevano riformar l’Italia, il primo con l’entusiasmo, il secondo con la scienza Savonarola adopera il fanatismo, la collera, che non comprende e non tollera; Machiavelli la tolleranza, che comprende ed assolve: non giá la tolleranza indifferente dello scettico, dell’ebete, dello sciocco; ma la tolleranza dello scienziato, che non sente odio contro la materia che egli analizza e studia, e la tratta coll’ ironia dell’uomo superiore alle passioni, e dice: — Ti tollero, non perché ti approvo, ma perché ti comprendo — .

Tale è l’uomo moderno. Machiavelli. Savonarola aveva predetto l’invasione di Carlo VIII, attribuendola alle solite cagioni: lo sdegno di Dio, i peccati degli uomini; e gridava: — Penitenza, penitenza! — . Innanzi a questo stesso fatto, Machiavelli ne studia le cagioni, cerca d’indagare gl’interessi che poterono originare la chiamata dello straniero, e, dopo avere tutto spiegato, finisce con queste parole:

Onde è che a Carlo re di Francia fu lecito pigliare Italia col gesso; e chi diceva che ne erano cagione i peccati nostri, diceva il cero: ma non erano giá quelli che credeva, ma questi che io ho narrato.

Accanto alla scienza qui sentite l’ironia: perché vi è «peccato» in doppio senso. I peccati pel frate erano i delitti e i vizii degli uomini, e per Machiavelli le condizioni d’Italia.

E a Dante e al suo sdegno contro i principati ecclesiastici contrapponete le fredde parole di Machiavelli sui principi ecclesiastici:

Costoro soli hanno Stati e non gli difendono, hanno sudditi e non gli governano; e gli Stati, per essere indifesi, non sono loro tolti, e li sudditi, per non essere governati, non se ne curano, né pensano se possono alienarsi da loro. Solo dunque questi principati sono sicuri e felici. Ma essendo quelli retti da cagioni superiori, alle quali la mente umana non aggiugne, lascerò il parlarne; perché, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d’uomo presuntuoso e temerario il discorrerne.

Altro tratto mirabile d’ ironia. Egli, analizzando e definendo, esclude gli Stati ecclesiastici dal mondo della scienza, e li manda con Dio!

Savonarola vuol correggere la base. Machiavelli vuol cambiarla. Il primo vuol restaurare, il secondo far opera di creazione.

Alla creazione precede la distruzione. Non è facile raccogliere e riassumere il pensiero di Machiavelli su questo punto; giacché egli non ha certo scritto un libro semplice col titolo semplice di «Confutazione del Medio evo» o di «Riforma de’ tempi moderni». Vediamo il suo atteggiamento rispetto ai fatti, ai sentimenti, alle idee del Medio evo: fatti, sentimenti ed idee sono gli elementi costitutivi di ogni civiltá.

Era caduto del tutto il ghibellinismo, e Machiavelli non perdé il tempo a combattere i ghibellini, ossia i morti. Che non avesse simpatia per essi si può vedere dal suo giudizio su Cesare, l’eroe prediletto dei ghibellini. Dei quali sopravvivevano avanzi e rimasugli, gli avventurieri usurpatori delle libertá dei Comuni, e i gentiluomini.

Contro gli uni e gli altri si esprime nettamente e fortemente Machiavelli. Egli non ha nemmeno l’idea che con simili elementi si possa formare una nuova feudalitá e instaurare la monarchia; anzi giunge ad invocare la mano ferrea del dispotismo perché ne purghi l’Italia. Ecco quello che dice dei gentiluomini :

Gentiluomini sono chiamati quelli che ociosi vivono dei proventi delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare o di alcun’altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia; ma piú perniciosi sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella, ed hanno sudditi che ubbediscono a loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è stata mai alcuna repubblica né alcuno vivere politico; perché tali generazioni di uomini sono al tutto nemici d’ogni civiltá.

E degli avventurieri parla in terribili parole; essi «hanno condotta Italia schiava e vituperata».

Quale è poi l’atteggiamento di Machiavelli rispetto all’altra formazione medievale, al Comune? Si soleva prima annettere l’idea di liberta al Comune, e di servitú al principato. Machiavelli non approva il tacitiano: «duas res dissociabiles, principatum ac libertatem». Egli dice che quando la forma di governo è tutta Comune o tutta principato, non può essere stabile; e mostra come ogni Comune nella sua storia sia andato dalla liberta a finire nella licenza e nell’oligarchia, ed ogni principato sia riuscito a dispotismo : onde vagheggia una certa contemperanza tra i due reggimenti.

Per Machiavelli, dunque, il Comune cessa di essere il solo simbolo della libertá. Un altro suo concetto è che non vi ha una forma assoluta che possa applicarsi ad ogni sorta di materia. A nuove condizioni nuove forme, come il contemperamento di principato è comune nella forma del principato civile.

Egualmente entra in lotta coi sentimenti medievali, con la esagerazione delle forme, ch’egli distrugge col suo comico riso. Non sente gioia maggiore che di poter squarciare quegl’involucri ch’egli chiama «trattenimenti del volgo», e cercarvi il nòcciolo reale. Ricorderete la dedica dei Discorsi, dove trionfa il suo sentimento superiore rispetto alla volgaritá qrdinaria delle dediche ai grandi e ai principi :

Onde io, per non incorrere in questo errore, ho eletti non quelli che sono principi, ma quelli che per le infinite buone parti loro meriterebbono di essere; né quelli che potrebbono di gradi, di onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non potendo, vorrebbono farlo. Perché, gli uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno a stimare quelli che sono, non quelli che possono esser liberali, e cosí quelli che sanno, non quelli che, senza sapere, possono governare un regno. E gli scrittori laudano piú Jerone siracusano quando egli era privato, che Perse macedone, quando egli era re, perché a Jerone a esser principe non mancava altro che il principato; quell’altro non aveva parte alcuna di re, altro che il regno.

Di fronte alla religione egli osserva che la religione di Cristo è stata male interpretata: doversi ammettere ch’essa vuole l’amore della patria, le azioni gloriose, l’educazione civile. L’educazione vile ed effeminata, per effetto della falsa interpretazione, ha fatto si che «l’universalitá degli uomini per andare in Paradiso pensa piú a sopportare le battiture che a vendicarle». Ma «se considerassino come ella permette la esaltazione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi ramiamo e onoriamo, e prepariamo ad esser tali che noi la possiamo difendere».

Ma perché la religione è caduta sí basso, e si è corrotta, e si sono corrotti i costumi? Machiavelli pronunzia quella sentenza che fu l’ultimo colpo di scure alla Chiesa di Alessandro VI e di Leone X («né si può fare altra maggiore coniettura della declinazione d’essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono piú propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione»), poco prima che Lutero venisse a realizzare la sua profezia («... giudicherebbe essere propinqui o la rovina o il flagello»).

Machiavelli ritiene che la religione è la condizione della prosperitá degli Stati : che grande responsabilitá incoglie a chi ne rende il sentimento meno forte negli Stati. Paragona la religione declinata in Italia fino al cinismo e al pubblico dispregio col movimento vivo dello spirito religioso negli altri paesi. Consiglia alla Chiesa che, invece di predicare l’ascetismo ai laici e tuffarsi essa nei beni della terra, inverta le parti, serbando per sé l’ascetismo ossia il cielo, e dando ai laici la terra. Segue finalmente la sua celebre osservazione sul dominio ecclesiastico, troppo debole per assorbir l’Italia, ma abbastanza forte per non lasciarsi assorbire da un nuovo Stato italiano. E della disunione e debolezza dell’Italia, finisce col dire, «noi altri italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri».

Ghibellinismo, Comune, ascetismo, Chiesa, forme esterne, tutto ciò Machiavelli ha condannato del Medio evo. Vediamolo ora di fronte al Medio evo intellettuale, alla mente del Medio evo.

Consisteva questa in un misto d’ ideale teologico e di ideale filosofico fondato sull’autoritá di Aristotile. S’esprimeva nel sillogismo: con certi dati «a priori», ammessi e non di¬ scussi. Nel sillogismo è la maggiore che tiene schiava la conseguenza: onde quando si viene alla questione della questione essa rimane implicita nella maggiore.

Di tutto ciò non è traccia in Machiavelli, il quale è negazione recisa della scolastica. In lui non ammasso di citazioni, non autoritá chiamate a comprovare, non sillogismi, non luoghi comuni, non rettorica : insomma, nulla che non sia prodotto della sua mente. Immenso distacco tra il Medio evo e i tempi moderni!

Ma Machiavelli aveva a una mano la spada ed all’altra la zappa: egli non distruggeva solo, ma edificava.

Scompare la Chiesa con la sua autoritá temporale, ed appare lo Stato in Machiavelli è giá una prima faccia di Giannone. Scompare l’impero, e vi si sostituisce la nazione: al diritto imperiale e feudale il diritto nazionale. Al Comune succede nella sua mente il governo misto. La teologia, la mistica si dileguano, e resta la «cosa effettuale», non veduta con l’immaginazione, ma trovata dall’esperienza. Il sillogismo cede il posto all’induzione.

Finalmente, nella forma letteraria, il didascalico, lo scolastico cadono, e dal Machiavelli si comincia ad adoperare il discorso, quasi-la conversazione, la forma semplice e alla mano della letteratura moderna.

IV


Il Giannone disse: — Il regno terrestre deve detronizzare il celeste — . Ma, per dirla con miglior garbo ed esattezza, è il cielo stesso che nell’epoca moderna si spoglia del nebuloso, dell’ascetico e scende fino a toccar la terra. Conoscere la realtá, assimilarsela e trasformarla: questo è il processo del pensiero umano. Se l’Europa non avesse avuta questa virtú, secondo un arguto detto del Campanella, sarebbe stata la Turchia cristiana.

Machiavelli, che si prefigge di costruire il mondo moderno, ha bisogno di due soli istrumenti : la natura, che offre i fatti, e l’uomo, che li analizza. E, per dirla colle sue stesse parole, quei due mezzi sono «l’esperienza ed il discorso».

Ma sotto quale forma si presenta questa nuova costruzione? Sulle prime non si hanno che semplici aspirazioni, e per trovare qualche cosa che le concretizzi si ricorre ad alcune delle forme del passato, le quali piú si accostano a quel tipo che si ha in mente. Cosi il Medio evo si comincia a formare colle reminiscenze antiche, vale a dire l’ascetismo orientale ed il cesarismo romano: il principio e la fine del mondo antico. Il mondo greco-romano ha esercitato grandissima influenza fino al tempo della Rivoluzione francese. E sebbene oggi noi non siamo altro che noi, vale a dire né romani né greci, pure non possiamo rigettare le memorie di quegli inizii di civiltá. Questo mondo greco-romano esercitò grande influenza su Machiavelli: ma in qual modo? Il mondo greco-romano non era piú il bramino ascetico che contempla; ma era l’uomo di Socrate col sorriso intelligente sulle labbra. Era insomma, rispetto all’Oriente, quello che vuol essere il mondo moderno rispetto al Medio evo. Era naturale adunque che l’ideale futuro di Machiavelli trovasse un certo riscontro in quella civiltá matura: ed egli, infatti, trova tre parole sacre: la virtú, la patria, la gloria. La virtú, non quale s’intende ai tempi nostri; ma, invece, l’operare gagliardamente: nel senso romano, la virtú era tempra, energia. E quale era l’obbiettivo di questa virtú? La patria, alla quale l’individuo immolava sé stesso. Il premio poi di questo fine conseguito era la gloria. Ecco le leve con le quali il Machiavelli voleva muovere il mondo moderno.

Ma questo pensiero nuovo, prima di acquistar coscienza di sé, era inviluppato in un certo guscio, che a noi oggi fa mestieri rompere. Quale era la prima idea, la sommitá del nuovo edilizio cui il Machiavelli apprestavasi a costruire? Il Medio evo, egli disse, ci ha dato anarchia : dunque, vi deve essere alla cima dell’edificio il potere civile e sociale, lo Stato. Questo è il nuovo imperatore.

Lo Stato ha i suoi fini ed i suoi mezzi in sé stesso, e perciò ha in sé la sua legittimitá; onde non ha bisogno né dell’investitura del papa, né di quella di Cesare, né della sanzione del diritto municipale. Lo Stato non solo è per tal modo indipendente, ma è autonomo: esso non è né religione, né moralitá, né scienza. Però tutti questi elementi sono nel suo seno senza essere lo Stato. Quindi la religione che vuol divenire Stato è usurpatrice; come usurpatore sarebbe del pari ogni altro di quegli elementi che si trovano nello Stato, se volesse a questo sostituirsi. Quegli elementi si trovano nello Stato medesimo col nome di « forze sociali ». Da ciò deriva che lo Stato si spoglia di tutti gli elementi estranei, acquista coscienza, acquista un fine proprio e mezzi proprii, e con ciò si genera la scienza dello Stato. Infatti, quando è nata l’estetica? Quando è stata distinta da tutti gli elementi, coi quali era confusa, ed è divenuta scienza della forma. La reazione del particolare e dell’io contro la sintesi confusa è un immenso progresso.

Ma quale sará la base della scienza politica? Machiavelli dice che nella storia non si ha né fortuna né caso, ma qualche cosa di immanente, che sono le facoltá dell’umana natura: le passioni, gl’interessi possono variare d’ intensitá per diversitá di luogo o di tempo, ma la sostanza è sempre la stessa. Dunque, Machiavelli mette per base della storia le facoltá dell’uomo che, secondo lui, non perdono mai la loro forza produttiva. Onde avviene che le nazioni nascono e muoiono, ma nell’umanitá sopravvive l’opera di ciascuna nazione.

Con ciò avete non solo il principio d’una scienza politica, ma anche i primi accenni della filosofia della storia, su cui hanno lavorato dappoi Vico ed Hegel.

Questo è il concetto fondamentale deH’edificio di Machiavelli. Trovate poi in lui parole che rivelano tanta altezza morale da assicurarne che egli aveva piena coscienza della sua missione:

È offizio di uomo buono quel bene che per la malignitá de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché, sendone molti capaci, alcuno di quelli, piú amato dal cielo, possa operarlo.

In tutte le societá nasce un perpetuo dualismo, che in Roma si appalesa sotto il nome di patrizii e di plebei; nel Medio evo, di signori e popolani, e piú tardi di abbienti e non abbienti. Onde nel cuore umano sorgono due molle: una è la paura di perdere il giá acquistato, e l’altra è la voglia di conseguir le ricchezze : da una parte, la paura, e dall’altra, la speranza. Se lo Stato è bene ordinato, tutto ciò è leva di progresso. Ma quando non è bene ordinato, quei due elementi producono le rivoluzioni. Quale di questi due incentivi è piú possente? Machiavelli dice essere piú possente la paura del perdere che la voglia dell’acquistare; quest’ultima mette radice nella prima, giacché allora si è sicuri di quello che si ha, quando si acquista ancora di piú. D’altra parte, i viziosi portamenti dei possidenti ingordi stimolano in altrui il desiderio di acquistare, sia per il cattivo esempio, sia per sottrarsi alle vessazioni degli abbienti col cessare di essere nullatenenti.

Che cosa fará lo Stato fra questi due elementi? Appoggerá: conservatori o quelli che hanno voglia di guadagnare? Nella prima ipotesi avreste l’oligarchia, nella seconda l’anarchia. Per non farli esorbitare bisogna trovare una specie di equilibrio, e far in modo che tutti i due elementi vengano giustamente rappresentati. A Roma il Senato ed il Tribunato rappresentano questo concetto. Ma non basta : questo equilibrio è una specie di meccanismo, che ha bisogno di essere animato; è necessario ancora che si cacci via il malumore, che si metta una specie di valvola di sicurezza per tutti gli elementi impuri che fermentano; e questa non può essere che la liberta. Volete bandir la calunnia? Organizzate l’accusa pubblica.

Ogni scienza deve avere anche la sua arte : vi ha dunque anche un’arte politica. E che cosa deve fare chi è chiamato a governare? L’arte politica è il calcolo delle forze sociali: è il conoscere la macchina che si ha bisogno di adoperare. Se le forze sociali si lasceranno svolgere secondo la propria natura, la societá camminerá. L’uomo di Stato deve conoscere l’uomo; ma non l’uomo fisico e antropologico, sibbene l’uomo sociale. E quale è la scienza che nasce dal bisogno di questa cognizione? È la scienza del ritratto morale, in cui il Machiavelli fu valentissimo. Il ritratto politico ha immensa importanza pel mondo moderno. Esso è la vera psicologia sociale.

Il principato ai tempi di Machiavelli era la conseguenza dello squilibrio di quei tali due elementi che vedemmo rappresentare la conservazione ed il progresso, poiché la societá sconvolta cade nelle mani del primo che colla forza o colla scaltrezza si proponga di soggiogarla. Machiavelli vede principi siffatti entrati per forza o per frode, e, sperando di dirigerli alla comune utilitá, rammenta loro la gloria.

La prima cosa che raccomanda al principe è quella di ordinare lo Stato. Ma su chi appoggiarsi? Se sui potenti, presto o tardi costoro governeranno lui. Mettersi accanto al popolo per combattere i potenti: ecco la missione presente del principato.

Dopo la libertá, quello che è piú caro al popolo è la sicurezza; cioè la garentia delle leggi, dell’onore, della vita; cose assai pregiate a’ tempi di Cesare Borgia e degli avventurieri. Egli, dunque, raccomanda di ordinare con questi mezzi efficacissimi gli Stati. Altro consiglio soggiunge a quei principi : dovete rispettare le tradizioni e le credenze del popolo. Come uomo politico, dice anche ai principi che il parere è piú importante dell’essere. — Non vi domando che siate morali e religiosi : ma procurate almeno di parer tali, perché cosí riuscirete a farvi amare. Ma non basta farsi amare, bisogna anche farsi temere, perché la paura spinge piú della gratitudine. Non farsi però temere fino ad essere odiati; ma non farsi amare fino ad essere spregiati. — Ecco in sostanza il contenuto del Principe.

Anche nei dialoghi dell’Arte della guerra il Machiavelli si appalesa l’uomo moderno: la fanteria, da lui raccomandata, è l’esercito cittadino come contrapposto alla cavalleria, che è l’arma della feudalitá e degli avventurieri.

L’uomo, secondo una brusca espressione del Machiavelli, è ancora una bestia; quindi, soggiunge, il principe deve sgomentarlo. Bisogna che egli sia a vicenda volpe e leone: volpe per iscorgere i lacci, leone per infrangerli. Dei nemici bisognerebbe sbarazzarsi, ammazzandoli; ma, non potendoli sempre ammazzare, bisogna conoscere l’uomo, e fargli fare quello che si vuole, in un certo modo che gli sembri quasi che lo faccia spontaneamente.

In tutto ciò si ravvisa il concetto dello Stato moderno. Ma, oltre il concetto dello Stato, sorge anche quello della Nazione, che esamineremo nella prossima conferenza.

V


Noi abbiamo giá abbozzata una parte dell’edificio moderno costruito dalla mente di Machiavelli. Alla sommitá di esso vedemmo esservi lo Stato; alla base l’individuo coll’immortaliti del suo spirito creativo. Il corpo è la societá. E che cosa è questa per Machiavelli? È la nazione. E questa, alla sua volta, che cosa è? É un’ idea, il cui corrispondente oggetto era nascosto a quel tempo, perché era soffocato tra una grande generalitá e una grande particolaritá, tra l’Impero e la Cittá. Dante, nel libro della Monarchia, ci presenta l’avvenire coi sogni di monarchia universale, a capo della quale immagina un Cesare reverente al papa, ma padrone. A Roma che piagne e di e notte, fa dire: «Cesare mio, perché non m’accompagne?». Questo era il pensiero penetrato in tutte le menti del Medio evo. Ed, in esso, dove era, dunque, il concetto di nazione? Questo dominio universale non era forse la negazione di tutte le nazioni? E, se prendete qualche scrittore teologico del XIII e XIV secolo, trovate, per esempio, che uno di essi vi dice: — Daniele profeta ha detto che nel mondo non vi possono essere piú di quattro grandi monarchie, e poi viene l’Anticristo. La monarchia romana è appunto la quarta. Dunque, è l’ultima — . Questa esclusione del concetto di nazione la trovate anche nel Concilio di Costanza, e poi in quello di Trento, nel quale ultimo fu adottata questa proposizione: che la pluralitá delle monarchie è come una negazione dell’unitá di Dio. Uno è il Signore in cielo, uno deve essere in terra. Come, dunque, con siffatte teorie poteva esservi l’idea di nazione? Machiavelli non dice giá che la nazione è un individuo distinto della gran famiglia umana; non enuncia il principio in modo astratto come noi; ma lo intuisce come storico e come politico. Leggete la sua introduzione alla storia di Firenze. Egli vi segna come inizio di civiltá quel momento in cui comincia a cessare la mescolanza delle razze per dar luogo agli Stati singoli. Parlando della Francia, fa una fine osservazione: la Francia è possente non solo perché ha confini ben circoscritti, ma perché ha all’intorno popoli molto deboli. Ecco detto dal nostro Machiavelli quello che oggi ripetono alcuni politici francesi, che rimpiangono la politica di Richelieu. È il ritornello di Thiers.

Machiavelli ha preceduto di tre secoli il suo paese, quando ha preveduto la situazione che nove anni fa è penetrata nei sentimenti popolari. Analizzando l’Italia occupata dallo straniero e le nazioni che si formavano, diceva che la caduta d’Italia dipendeva dal non aver avuto la virtú di Francia e di Spagna, di rannodare cioè le sue membra. «Alcuna provincia, egli diceva, fu mai unita e felice se la non viene tutta nell’obbedienza di una repubblica o di un principe.» In questo rimpiangere per l’Italia la mancanza della virtú di costituirsi è l’intuizione del concetto unitario nazionale. E qui viene una parte bella, quella che diremo l’utopia di Niccolò Machiavelli.

— L’ Italia, egli diceva, non è nazione; perciò è calpestata dallo straniero. Può essa divenirla? Vi ha nelle membra la materia acconcia a costituirla. Specchiatevi nei duelli dei pochi, dove trovate il valore individuale. — Ci è in questa materia il concetto dell’unitá? — No, egli soggiunge, ma vi ha un sentimento che ne fa le veci. — Lo straniero allora era qualche cosa di vivente, e lo si vedeva dovunque. Vi ha dunque qualcosa contro cui deve concordemente traboccare l’odio italiano; e questo qualcosa è appunto lo straniero. Allora Machiavelli fantastica se mai vi sia qualcuno che possa innalzare la bandiera contro lo straniero e chiamare a raccolta tutti gli oppressi. Vi era nella sua mente qualcuno, a cui egli pensasse per questa impresa? Volgare investigazione storica! Allora in Italia di paesani non vi erano che i Medici, cosí a Roma come a Firenze.

Machiavelli diceva: — Quando i tempi sono corrotti, si presenta nella storia un grande uomo a compiere la redenzione dei popoli — . E rammentava Ciro, Mosé e altri grandi. Quale sará il Ciro italiano? E qui dava libero corso alla sua fantasia fino a divenir poeta e cantore di questa idea, conchiudendo coi noti versi del Petrarca: «Virtú contra furore, etc.».

Machiavelli parlando tre secoli fa, si espresse con colori cosí vivi che le sue parole sembrano fresche e moderne. — Per vedere, egli dice, la virtú d’un grande spirito italiano, era mestieri che l’Italia cadesse nella miseria in cui giace. Ora ella ricerca chi possa essere quegli che ponga rimedio alle sue piaghe. Essa vedesi disposta a seguire tutta unita una bandiera, quando vi sia uno che la levi.

Né posso esprimere con quale amore ei fusse ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illusioni esterne; con qual sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietá, con che lacrime! . . . — .

Vedete se in queste parole non vi sia tutto il concetto della nazione moderna, contrapposto a quei sogni di monarchie universali e di altre generalitá, che si concepivano a quei tempi! Ma i Medici misero a dormire il manoscritto di Machiavelli. Non è certo che Giuliano dei Medici lo abbia pur letto. Papa Clemente VIII dava sussidii di cento ducati al Machiavelli. Sotto le apparenze di principi era rimasto nei Medici l’animo di merendanti.

E fin qui abbiamo l’edificio con la nazione per corpo, lo Stato alla sommitá, l’individuo per base. Ma basta questo? — La nazione è cosa mortale, diceva Machiavelli; ma il mio edificio è eterno, perché, al di sotto, vi è l’immortalitá della forza produttrice dello spirito umano. — Onde s’allargò il concetto di nazione nella mente di Machiavelli, ed egli concepí l’umanitá.

La parte nuova di questo concetto è non solo nell’aver volto le spalle al «caso», alla «fortuna», alla «provvidenza», ma nell’aver concepito la storia come un prodotto della facoltá dello spirito umano, che si svolge secondo alcune leggi insite in lui. E cosí rinascono le nazioni collegate fra loro da vincoli, per cui ciascuna nazione sente il suo posto nel mondo, e dall’altra parte nasce l’unitá del genere umano. Onde si sviluppa quel doppio concetto, che fu poi rappresentato da due solenni pensatori, dal Grozio e dal Vico. Che rappresenta in ciò il Machiavelli? Egli pone le basi della scienza moderna, ma non costruisce l’edificio di essa. Questo lavoro è lasciato ai tempi nostri.

Il padrone del mondo non è la Fortuna: è l’uomo. Machiavelli rassomiglia la fortuna ai fiumi o ai torrenti che, quando si gonfiano, invadono i piani ed abbattono gli edificii; e ciascuno fugge spaventato d’ innanzi ad essi; ma, benché siano cosí fatti, ciò non toglie che gli uomini, quando i tempi son quieti, non possano farvi gli argini e dominarne i corsi con opere di preveggenza. La fortuna è potente e mostra la sua forza devastatrice dove non trova. la virtú che le faccia resistenza. — L’ Italia, egli diceva, è una campagna senza argini e senza ripari; altrimenti, o la piena dei torrenti non sarebbe venuta o non avrebbe fatto grandi variazioni. —

Dopo questo lavorio dell’ ingegno di Machiavelli, che cosa è rimasto del Medio evo? Tutto è scomparso. Non papa, non baroni, non Comune. Alla base monastica ed oziosa si è sostituita la virtú operosa, alla teologia è succeduta la scienza armata di esperienza e di ragione. Oggi si rende grazie per tutti questi progressi a Cartesio, a Galilei, a Bacone; ma si è dimenticato Machiavelli, che ne fu l’iniziatore.

Senonché, se finora abbiamo visto abbattuta la sostanza del Medio evo, non abbiamo ancora discorso delle forme, che dobbiamo ancora veder distrutte dal Machiavelli.

Il Medio evo ebbe le sue idee primarie, date come dommi e non discusse né discutibili : esso le aveva attinte nella fede o in Aristotile; quindi il cervello, essendo ozioso, si volgeva non alla ricerca delle idee prime, ma a quella delle loro combinazioni, dei loro rapporti, del loro formalismo: di qui nacque la Scolastica. Quali sono gli effetti di quest’ozio del pensiero? Esso comincia a mangiare e divorare sé stesso, e sottilizza sui rapporti e sulle minutezze quanto meno può lavorare sul grande. Questo segna in filosofia il decadimento del pensiero, come lo segna nella letteratura la sottigliezza delle forme. Fu possibile adunque sostituire alla realtá della vita la vacuitá dello spirito ozioso. Era una specie di meccanismo colle sue categorie prestabilite. Il sillogismo era la forma metodica ed ordinata, in cui si rinchiudeva il pensiero. Esso conteneva una maggiore, presa e non discussa, o discussa con testi e metodo dommatico: questo fu la rettorica. E la conseguenza che cosa era? Era il particolare, che non aveva bisogno d’esser dimostrato per sé stesso. Si dava la vuota generalitá, nella quale si credeva di ritrovare il particolare. Il mondo moderno ha preso questo particolare altra volta trascurato e dispregiato, e lo ha analizzato. Il pensiero odierno comincia a porre innanzi il fatto, il reale naturale, ed unisce insieme la natura ed il pensiero: «cogito ergo sum»! Dunque, abbiamo il articolare ribattezzato, prosciolto dalle categorie. Bisognava però trovare quello che Vico ha chiamato il «particolare pregno», che fosse capace di generare qualche cosa, cioè tutta una serie di fatti, e tale che per essere spiegato non avesse mestieri di ricorrere alla maggiore Adamo ed Eva, ossia al domma della creazione.

Questa io chiamerei idea media, posta tra il particolare ed il generale. Io non vi dirò fin dove questo processo sia andato; solo dirò che, se vogliamo comprendere il pensiero moderno, dobbiamo dire che esso consiste nell’idea media, la quale genera tutta una serie di fatti, e che perciò è anche idea madre.

Vediamo ora in qual modo tutto ciò sia stato il prodotto dell’ingegno di Machiavelli: vediamo come egli sviluppò il suo pensiero. Valga a questo fine un esempio. Una volta il popolo fiorentino mosse guerra a Pisa per ricondurla nel suo dominio. Ma, siccome le spese dispiacciono a tutti, specialmente ai contribuenti, cosí il popolo se ne infastidí; e, vedendo che i Dieci erano il magistrato preposto all’ufficio delle spese, disse il popolo: — Sopprimiamo i Dieci — . Ecco un esempio di ragionamento dozzinale, che non aveva base. Machiavelli osserva che la guerra non cessò, perché non si era risaliti alle origini, perché il popolo non vede tutta la serie dei fatti e si arresta invece alla parte piú apparente. Ed egli, senza aver l’aria di criticare, pensò e si espresse diversamente: egli ritrovò cosí l’idea prima, che produce tutta la serie:

Avendo la cittá di Firenze perduto parte dell’ impero suo, fu necessitata a far guerra a coloro che la occuparono.

Ecco l’idea madre.

E perché chi la occupava era potente, ne seguiva che si spendeva assai nella guerra senza alcun frutto: dallo spendere assai risultava assai gravezze, dalle gravezze infinite querele del popolo, e perché questa guerra era amministrata da un magistrato di dieci cittadini, ... l’universale cominciò a recarselo in dispetto come quello che fosse cagione e della guerra e della spesa di essa.

Ecco completata la serie delle idee. Il pregio della forma del Machiavelli sta appunto in questo afferrare l’ossatura, l’organatura del pensiero, dove ritrova l’idea madre. Per questo metodo si spiega perché Voltaire sia superiore a Rousseau, come Machiavelli è superiore di tanto a Guicciardini, ed a’ tempi nostri Cavour ha avuto tanta potenza intellettuale da superare tutti i suoi emuli e contemporanei. Era la forza generativa che primeggiava in lui. Prendete invece Gioberti. Che cosa manca a quest’uomo e si ravvisa anche attraverso della sua magniloquenza? Egli si distrae quando scrive, e distrae noi quando lo leggiamo. Egli non piglia sul serio il lavoro produttivo del suo cervello e svaga di incidenti in incidenti, e spende tanti volumi in una polemica coi gesuiti. A lui mancano la serietá e l’idea media. Questa non produce soltanto sé stessa come pensiero, ma anche come parola; voi la vedete come immagine, espressione artistica. Questo lavoro ha la virtú di produrre la forma, perché, quando il pensiero si presenta a quella guisa, esso si presenta giá come stile. Lo stile del Medio evo era il parto del cervello ozioso, del pensiero erudito, imitatore. Ma da Machiavelli nasce altro stile, senza convenzionalismo e senza meccanismo.

Egli crea non parole vacue, ma sostanza; egli mette fuori una parte del suo stesso cervello. Quando avete innanzi questa forma, non c’ è piú possibilitá di distrarsi. Ecco quello che chiamasi la rapiditá dello stile, che obbliga l’uditore ad un lavoro penoso, ma fruttifero. Ma quando avete la lucidezza e la continuitá non avete ancora lo stile.

Quando si guarda un bambino, oltre l’esame speciale delle forme e del colorito, si cerca qualche cosa di non determinato, ma che deve rivelare l’immagine del padre. Cosi anche nello stile fa bisogno di un certo colorito, che è come le impressioni e le ricordanze paterne sul bambino. Questo si ravvisa ancora nello stile di Machiavelli. Guardate, per esempio, quello che egli diceva di alcuni popoli suoi contemporanei: — I genovesi, or liberi, or servi, inonorati vivevano ed il popolo ballottato. I veneziani, come si volsero alla terra, si trassero di dosso quelle armi che in mare li avevan fatti gloriosi — . E, per averne un saggio anche piú bello, ascoltisi quest’altro brano:

Intra queste rovine e questi nuovi popoli sursono nuove lingue... Hanno... variato il nome non solamente le provincie, ma i laghi, i fiumi, i mari e gli uomini; perché la Francia, l’Italia e la Spagna sono ripiene di nuovi nomi e al tutto dagli antichi alieni:... gli uomini ancora di Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventarono.

In questa forma è il colorito tutto proprio di Machiavelli.

Fin qui noi abbiamo trovata una serie di grandi concetti che prendono con Machiavelli il luogo del Medio evo. Abbiamo trovato lo Stato, la nazione, lo spirito umano, l’uomo colla sua osservazione e colla sua ragione. Ed abbiamo trovato ancora il metodo naturale dello sviluppo del pensiero, sostituito all’artificiale, cioè a dire una forma nata insieme col pensiero.

Volete però vedere Machiavelli che «boccacceggia»? Sorprendetelo quando il suo cervello è ozioso. E ciò accade quando egli è costretto a fare discorsi di uso e di occasione. Memorando in questo genere è quello da lui recitato in una congregazione, di cui faceva parte, nel quale fra l’altro ebbe a dire: — Bisogna ricorrere alla «penitenza» per le molte nostre colpe «e gridare con David ’Miserere mei Deus’» — . Questo però è il Machiavelli accademico, confutato sempre dal Machiavelli che crea.

Senonché, tutto quanto abbiamo osservato finora come negazione del Medio evo è ancora il mondo moderno? Esso è il mondo moderno, ma quale suol presentarsi ne’ primordii di ogni nuova formazione. Onde in Machiavelli vi ha della esagerazione. Voi avete, per esempio, il principio della salvezza pubblica opposta alla usurpazione della Chiesa. Avete nel Machiavelli il concetto del cittadino; ma non ancora quello dell’uomo come ente inviolabile anche verso lo Stato. Ad ogni modo, a traverso le lacune e le esagerazioni, la sostanza del suo pensiero rimane inalterata. Egli ebbe anche le sue utopie; voleva fare colla scienza quello che Savonarola tentò di fare colla religione e colla rettorica. Voleva risvegliare l’entusiasmo fra i contemporanei; ma la scienza è un seme che ha bisogno di molto tempo per germogliare e produce i suoi frutti a lunga scadenza. Machiavelli non vide che le istituzioni politiche non sono cause, ma sono effetti. Bisogna far prima l’uomo romano, e poi sperarne le istituzioni. Egli riformava bensí l’uomo, ma lo riformava per l’avvenire. L’altra utopia del Machiavelli era nel credere che quel suo mondo ideale fosse l’atto di vita della nazione; invece, esso era il testamento d’uno spirito solitario.

La nostra educazione intellettuale ha essa la tempra sognata dal Machiavelli? Fu giá tempo in cui la lode potette giovare all’Italia per ritrarla dall’avvilimento ed infonderle coraggio ad operare; oggi quella lode sarebbe ignobile.

L’Italia, bisogna dirlo con dolore, è il paese meno moderno di tutta l’Europa. Dove sta l’uomo del Machiavelli? Non vive piuttosto dentro di noi un avanzo di quell’uomo dei tempi suoi, ch’egli mirò a distruggere? Noi abbiamo ancora qualche cosa dell’educazione monastica! E, per parlar di studii e di pensiero, dov’è presso di noi quel laboratorio, in cui discepoli e maestri, uniti insieme, producono la scienza?

In quanto a me, io sento giá di essere un uomo del passato; ai giovani però, da cui la nazione tutto si aspetta, debbo dire che noi, uomini della generazione precedente, abbiamo data l’unitá e la libertá della nazione: ma guardatevi dal credere che questo sia tutto il rinnovamento! Esse sono i due istrumenti per conseguirlo, i quali se debbono rimanere irruginiti nelle vostre mani, meglio è gittarli via fin da ora.

Io vi ripeto quello che un di diceva Machiavelli ai Medici: — Il rimanente lo dovete far voi! — . Intanto, non posso non esprimervi la mia gratitudine per la benevolenza, colla quale costantemente mi avete seguito. Oggi, formata tra noi una specie di parentela intellettuale, che spero rimanga superiore alle miserie di altre vicende, io potrò dirvi, col motto affettuoso di questo popolo, non addio, ma a rivederci!

[Conferenze tenute a Napoli nella Gran Sala del Capitolo dell’ex convento di S. Domenico Maggiore, i giorni 23, 27 e 30 maggio, 3 e 6 giugno i869.]

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