< Saggio sopra l'Imperio degl'Incas (Laterza 1963)
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SAGGIO

SOPRA L’IMPERO DEGL’INCAS



Tra le false opinioni delle quali s’imbevono coloro che si danno unicamente alle lettere, non tiene l’ultimo luogo quella che le sole nazioni, i cui fatti porti il pregio di studiare, sieno i Greci e i Romani. Talché la più gran parte de’ letterati non degnano gettare nemmeno un guardo a que’ popoli, che piacque loro di chiamar barbari, perché non sortirono un Tucidide o un Livio per istorici. Non così pensano coloro che, non contenti a viaggiare con la scorta di pochi scrittori nel mondo degli Antichi, sanno scorrere con la mente tutto il globo, e veggono che da quelle nazioni che i dotti dispregiano il più, si possono trarre insegnamenti per la vita civile ed esempi utilissimi; quasi a quel modo che le materie più nobili che servono agli usi dell’uomo, ne vengono la più parte forniti da quel genere di animali creduti comunemente i più vili.

Largo campo di filosofare potrebbe porgere agl’intelletti speculativi la constituzione politica di varie parti del nuovo mondo. Ché siccome dal suolo di America furono recate in Europa tante cose, che arricchirono il regno della Fisica, così dalla istoria di quel paese se ne possono estrarre delle altre, che non meno arricchirebbono la scienza della Legislazione e della Morale. Nell’America settentrionale tiene il campo tra le altre popolazioni la repubblica degl’Irochesi: e meritamente lo tiene così per le conquiste da essi fatte, come per un amore caldissimo della libertà, una sete inestinguibile di gloria e un’opinione radicatissima di essere la più eccellente di tutte le nazioni; opinione che, congiunta con l’attività e col valore, può esser causa che una nazione tale veramente divenga quale si figura di essere. Il dispregio che hanno delle ricchezze i loro capitani o sachemi, non trova esempio tra i popoli culti; l’onore e la vergogna sono le principali ricompense e i principali gastighi tra loro, il primo mobile delle loro azioni. La maturità nei consigli, la prontezza nell’esecuzione, il riguardo che ne’ loro trattati spicca grandissimo alla pubblica fede e alla equità, e singolarmente la costanza che dimostrano nel fare e nel patire le cose le più dure, gli uguaglia veramente, se non gli rende superiori, ai Romani1. Ma siccome la virtù di questi venne finalmente corrotta dal lusso asiatico, così la virtù di quegli Americani è guasta in gran parte dalla intemperanza europea, che è entrata tra loro.

Che se nell’America settentrionale quelle nazioni che ne piace di chiamare col nome di barbare, sarebbono pur degne di essere imitate da noi, nientemeno lo sono nell’America meridionale i Peruani, che noi riputiamo degni al più di fornir materia a’ nostri romanzieri. E certamente tra gli avvenimenti che ne sono descritti dalle istorie degnissimi di considerazione e di discorso sono i fatti degl’Incas, principi di quella nazione. Quivi singolarità di mezzi per giungere a un fine grandissimo, massime della più consumata politica, esempî di pietà, di magnificenza, di virtù. In somma una famiglia dai più deboli principî, siccome abbiamo dalla storia di Garcilasso della Vega, pervenne alla signoria del Perù e del Chili, paesi di grandissima estensione e ricchezza, e vi fondò un imperio fioritissimo, col quale pochi oggi sono in Europa da potersi uguagliare2.

Manco Capac, da cui ebbe origine la schiatta degl’Incas, fu circa la metà del secolo decimo terzo il Romolo di cotesto imperio; se non che Romolo con l’armi in mano e seguito da una banda di malfattori si diceva figliuolo di Marte; e Manco inerme e senza partigiani si diceva, come Orfeo, figliuolo del Sole, mandato da lui a ritrarre gli uomini dalla vita che menavano simile alle fiere. Mostrando loro quelle arti che sono più confacenti all’uomo, seppe occupargli, fargli più mansueti e piacevoli, e seppe moltiplicare i loro bisogni per rendersegli soggetti: e con tale prudenza governò la cosa, che tirò dal suo buona quantità di barbari, e di quelli fattosi capo fondò la città di Cozco, la quale in brevissimo tempo arrivò ad esser la Roma di quel vasto dominio. I successori e i nipoti di Manco cooperarono tutti con maggiori forze a colorire il gran disegno da esso lui adombrato; e si vide la prudenza degli uomini, l’occasione e la fortuna concorrer tutte ad un fine.

Gl’Incas erano una qualità di uomini tra i missionarî e i conquistatori. Predicavano con la spada in mano, e combattevano col lituo. Pochi e semplici erano i loro dogmi: un Dio invisibile creator d’ogni cosa detto Pachecamac; di Dio insegnavano essere immagine visibile il Sole, che come suo ministro maggiore impregna la terra della virtù del cielo e dà vita all’Universo; e del Sole, come si è detto, si vantavano eglino di esser figliuoli, da esso mandati a ritrarre il genere umano dalla barbarie, a insegnare gli ordini della vita civile, la vera religione, la punizione de’ tristi in un’altra vita e la ricompensa de’ buoni. Godevano questi dopo morte di una tranquillità perfetta di animo e di corpo; laddove i tristi sofferivano senza tregua veruna ogni generazione di malattie, e i dolori tutti, a cui va soggetta la umanità.

Tali erano i dogmi ch’essi predicavano alla testa di un esercito, il quale stava sulla difesa sino a tanto che il catechismo fosse ricevuto da’ barbari, e non offendeva se non provocato dalla ostinazione e dalla incredulità. I prodigi, che avvaloravano la missione degl’Incas, erano la felicità de’ popoli soggetti al loro dominio. Mostravan loro l’arte di filar la lana e la bambagia, di coltivare e adacquar le terre, rendevano ogni cittadino utile alla società; punivano l’ozio come un furto sul comune. Ai ciechi e ai zoppi era assegnato un particolar mestiero in cui esercitar si potessero; ai vecchi, che venivano nudriti dal pubblico, era imposto il carico di scacciare dai seminati gli uccelli; e, nelle pubbliche vie, trovavano di tratto in tratto dove ripararsi e avere agiatezza e ristoro i viaggiatori. Provvedevano in somma d’ogni maniera quei savî principi alla sicurezza d’ognuno e al sostentamento dell’universale; si mostravano veramente padri della patria. E così l’avere negli occhi la felicità altrui rendeva i barbari docili al giogo e creduli alla missione.

In tre parti uguali si dividevano le terre che di mano in mano venivano conquistate: una era del Sole, l’altra dell’Inca, la terza era assegnata agli abitanti del paese. Per la qual distribuzione accrescevano la industria nel popolo, a cui rimaneva picciola porzione del terreno; accrescevano forza all’imperio e maestà alla religione, a’ quali ne toccava la maggior parte.

La maestà della religione era altresì accresciuta da una certa austerità, con che aveano saputo condirla. Del che ne sono un esempio quelle Vergini che co’ più solenni voti si consecravano al servigio del Sole, le quali erano soggette a leggi così severe e forse anche più che non furono altre volte in Roma le Vestali.

La magnificenza poi di tutte le cose spettanti al tempio e alle feste che si celebravano in onor del Sole, e di quelle cose similmente, che servivano agli usi e alla corte del Principe, mantenevano gl’Incas in riputazione di divinità presso popoli sobrî e poveri nel seno di lor ricchezze. Oltre di che, capi della religione, delle giurisprudenze, della milizia, aveano concentrato in esso loro tutta l’autorità, e divenivano sotto più di uno aspetto al popolo reverendi: come se nel fondare il loro imperio si fossero consigliati con uno de’ più profondi politici del nostro continente, il quale inculcando al principe come egli, se è savio, ha da comunicare altrui il meno che può dell’autorità sua, ricorda, con modo conveniente al secolo in cui visse, che i raggi che nel Sole sono d’oro, prestati alla Luna si fanno d’argento. Non menavano mai moglie se non che della propria loro schiatta; quasi fosse una degradazione l’accomunarsi cogli altri uomini, a’ bisogni de’ quali sapevano però discendere ed esser loro quasi sempre presenti col visitare di tempo in tempo le provincie dell’imperio e col mantenere continuamente in vita la giustizia e le leggi.

In tal modo aveano costoro congiunto il sacerdozio con l’imperio, la umanità del governo col terror delle armi, il fasto de’ monarchi orientali con la popolarità degli europei. In una parola era da essi eminentemente posseduta l’arte de’ principi più accorti; di velare sotto speciosi pretesti i disegni delle loro passioni, e co’ mezzi più amabili indurre gli uomini a far quello che amano meno e meno sono disposti di fare. E che dovremmo noi dire considerando come quei principi da noi reputati barbari non solo si reggevano sopra principî di governo bellissimi, ma senza derogare alla propria dignità sapevano ancora, secondo che meglio tornava, temperargli e correggergli, che è il sommo dell’accortezza? Benché la professione dell’Inca fosse quella propriamente del conquistatore, ed egli fosse quasi sempre alla testa dell’esercito, pur nondimeno non restavano d’approfittarsi delle discordie che talora insorgevano tra’ popoli ond’era circondato l’imperio. Favoreggiavano il debole contro al più forte, aizzavan l’uno senza mostrar di farlo contro dell’altro, e infine gli riducevano tutti in servitù contentandosi bene spesso di vincere senza trionfare.

Sopra ogni ordine dello stato innalzavasi senza comparazione alcuna, anzi quasi sopra la umana condizione dovea esser tenuta, la schiatta degl’Incas, di cui capo era il Re; ragione fondamentale ed unica della loro sovranità. Ciò però non ostante, i primi popoli che Manco Capac ridusse sotto la divozion sua, gli onorò del titolo d’Incas; credendo doversegli affratellare, in quel modo che fecero i Romani co’ Latini più tosto per avergli adiutori nelle imprese, che compagni nell’autorità. E quantunque paresse che la religione presso gl’Incas fosse la causa motrice e l’anima delle loro espedizioni militari, in fatto di credenza non erano rigorosi a segno che e’ non tollerassero il culto de’ vinti, purché non contrario e diametralmente opposto a quello de’ vincitori. Non vollero mai per questo venire a liti che dividessero il popolo in varie sette, che lacerassero lo stato, e molto meno allo spargimento del sangue; come si vide quando Viracocha, convocato una specie di sinodo, non disdisse a quei di Lima che ritenessero un loro idolo famoso pe’ suoi oracoli ed anche facessero a lui onore di sacrifici, quando essi all’incontro adorassero il Sole, e si sommettessero a’ figliuoli di lui.

Simile connivenza avevano rispetto alle leggi. Lasciavano ancora ne’ primi ufizî i curacas, o sia generali de’ vinti, ma con una autorità subordinata a un Inca che avea le redini in mano della provincia. E nel medesimo tempo tenevano i figliuoli di quelli presso di sé sotto colore di onorargli; ma in fatti gli custodivano come ostaggi, e dando loro l’educazione e l’aria della corte, stillavano in loro modi e costumi diversi da quelli che, stando alle lor case, avriano naturalmente seguito. Venivano a sconvolgere e cambiare in tutto i loro principî, i concetti, le idee; simili in certo modo a quei botanisti che, svelti di terra degli arboscelli e ripiantatigli capovolti, forzarono i rami di quelli a metter barbe e radici, e le radici a rivestirsi di foglie. Così a’ popoli fatti soggetti toglievano saggiamente il modo di rivoltarsi, e lasciavano loro a un tratto una qualche immagine di libertà; cosa che, siccome a tutti è noto, fu uno de’ gran segreti della politica de’ Romani.

In un’altra cosa necessaria non che utile ad assicurarsi il possesso delle loro conquiste convenivano con quella nazione maestra nell’arte di reggere i popoli: e questa è che mandavano colonie nelle soggiogate provincie, vi edificavano fortezze e insieme le ornavano di tempî, di acquedotti, di strade; e volevano sopra ogni cosa che tutte le nazioni soggette al loro imperio parlassero la lingua della capitale. Ben sapevano che non vi ha cosa che più leghi gli uomini in amistà, quanto il comune linguaggio, parendo che gli uomini, come quelli che sono soliti confondere i segni delle cose con le cose medesime, veggano le cose allo stesso modo, quando allo stesso modo le esprimono. Pachacutec, uno de’ più gran principi che sorgesse tra gl’Incas, pubblicò un editto, che non fosse lecito a niuno parlare altra lingua fuorché quella di Cozco. E come Guglielmo il conquistatore sparse in tutti i monasteri dell’Inghilterra uomini Normanni, e pubblicò leggi nella sua lingua francese, della quale si veggono anche in oggi vestigî chiarissimi nelle formole della giurisprudenza e della legislazione di quel regno; così Pachacutec mandò in tutte le provincie dell’imperio maestri di lingua, i quali dovessero apprendere a’ sudditi la favella della capitale e la scrittura medesimamente dei chipù, o sia di quei nodi dove i varî colori e la varia loro disposizione erano tra’ Peruani, a guisa de’ nostri caratteri, la espressione e il segno dei concetti dell’animo. E se importantissimo era l’editto di Pachacutec, non era meno severa la pena che egli imponeva a’ trasgressori di esso: la esclusione da’ pubblici uffici, che è il più crudel martirio che contro a’ Cristiani sapesse immaginare quel malizioso ingegno di Giuliano.

Ma quello che sopra tutto fece alla sicurezza e all’aumento dell’imperio, fu la disciplina militare. In qualunque tempo grandi provvedimenti per la guerra; ogni trasandatura negli ordini della milizia era irremissibilmente punita; fortissime erano le prove che esigevano da’ giovani Incas avanti che gli armassero Cavalieri; come dire desterità nella lotta e nel maneggiar l’armi, agilità nel corso, accortezza e bravura nel difendere o assalire una fortezza. E certo convien dire che quelle loro genti eran ben disciplinate, dappoiché per tutti i loro conquisti non ebber mai eserciti più grossi che di cinquanta in sessanta mila uomini. Oltracciò tenevano un censo esatto del numero degli abitanti dell’imperio. Ciascun corpo di cittadini era come diviso in più corpi minori e ogni picciol numero di uomini veniva subordinato a un capo. La pace era in certo modo una continua esercitazion della guerra. Né veruno era promosso al grado di comandare, se prima non avea appreso egli medesimo ad ubbidire.

Dopo così buoni ordini stabiliti nelle armi e in ciascuna altra parte dello stato, e tanto simili a’ migliori che tengono od hanno tenuto fra noi, i più aspetteranno di sentire quali provvedimenti facessero gl’Incas perché nel loro imperio venissero a fiorire anche le lettere; e da non picciola maraviglia saranno naturalmente presi all’udire che quei principi pensarono per lo contrario ad impedire che le lettere si spargessero e si facessero nel popolo comuni. Pare che fosse preveduto da esso loro, non dalla universale cultura delle scienze ne dovessero nascere quei disordini, che sonosi veduti insorgere in tanti stati di Europa, dove esse hanno maggiormente fiorito. Non avviene così di rado che uomini di privata condizione trasportati dall’ardore del loro ingegno o tronfi della lor dottrina, vogliano inframettersi a ventilare quelle materie di somma dilicatezza e sdegnosità, sulle quali posano i cardini dello stato. Dal che ne nasce che la obbedienza alle leggi e la riverenza alle opinioni necessarie al bene dei sudditi viene ad essere contrariata e indebolita dalle discussioni filosofiche; e ordinariamente gli uomini finiscono di esser buoni, quando i dotti incominciano a far figura. Non ci è quasi persona di senno tra noi, la quale di una gran parte dei libri, e di quelli segnatamente onde tanto ingombrato è il mondo e tanto ne sono intorbidate le menti, non desiderasse che in Europa se ne facesse quello che della biblioteca di Alessandria fece Omar in Egitto; né assegnar se ne potrebbe una miglior ragione di quella che ne assegnò quello indotto bensì, ma savio conquistatore. La scienza era dagl’Incas generalmente interdetta al popolo, come uno arcano dell’imperio; gliene faceano soltanto parte, quando il credeano necessario, per via di leggi che quasi una voce scagliata dal cielo comandavano, non davan luogo a dispute;3 ed essi volevano che la virtù si praticasse, non si studiasse dai sudditi.

Le sole cose nelle quali gli volevano addottrinati, erano le arti manuali e meccaniche: esercitando queste il corpo e facendolo robusto, gli distoglievano dal mulinare contro allo stato; anzi gli rendevano utili allo stato medesimo. E non si può dire abbastanza quanta cura ponessero in questo quei principi, e come riuscir la vedessero a buon fine. Coloro che, dimorati lungo tempo in America hanno potuto conoscere a prova quanto i Peruani sono naturalmente d’ingegno addormentato e la più parte stupidi, sono forzati di confessare i miracoli che può operare la legislatura. Chi potria credere che una tal nazione abbia uguagliato i popoli d’ingegno più svegliato e i più consumati nelle arti? La prima nudrice di tutte le altre, l’agricoltura, sulla quale i Romani fondarono l’imperio e la miglior milizia del mondo, e per cui ora gl’Inglesi di tanto hanno disteso il lor traffico e la loro potenza, era da esso loro singolarmente coltivata. Ne dava in certo modo l’esempio il re, il quale un certo giorno dell’anno metteva la mano ad un aratro d’oro che, quasi uno instrumento sacro, era religiosamente custodito nel tesoro. Nel distribuire regolarmente l’acqua alle terre, onde accrescerne la fertilità, aveano una cura grandissima; e in ciò non la cedevano a’ Persiani presso a’ quali l’Idrostatico sedeva tra’ grandi del regno; né agli stessi Mori, i cui bei lavori in tal genere si veggono tuttavia in Ispagna.

Qual fosse poi la bellezza, e la magnificenza delle fabbriche del Perù, quali fossero le fortezze, i ponti, i canali e le comode e lunghissime strade che si estendevano per quello imperio, ne fanno pienissima fede le grandiose reliquie che ne rimangono tuttavia. Alcune di esse furono poste in disegno dagli Europei che per determinar la figura della terra, intrapresero novellamente il viaggio di quel paese; e da esse sole noi formare possiamo, per quanto si spetta alla eccellenza nelle arti, un grande concetto di una nazione della quale poco o niun caso, per meglio dire, facevasi da noi. Di tutte le nazioni che sono fuori, a parlar così, del nostro mondo, noi siamo soliti magnificare per tale rispetto i Cinesi, con cui abbiamo direttamente traffico e de’ lavori della cui industria si fa giornalmente uso in Europa. Quella nazione antichissima, data tutta agli studi della pace, alle cui leggi e costumi si dovettero sottomettere i suoi medesimi conquistatori, a noi pare che tra le forestiere aver debba i primi onori; ed anche ci furono dei letterati uomini tra noi non meno dei Cinesi devoti, che ve ne sieno degli antichi Greci e Romani.

Ma per verità, se da una parte vorremo considerare come i Cinesi, avendo specule da un tempo immemorabile, non sapevano comporre un almanacco, non gettare artiglierie avendo la polvere di archibuso, pochissimo conoscevano di navigazione, con tutto che si vantassero di aver trovata la bussola gran tempo innanzi a noi, e come da noi dovettero apprender l’arte di far sostegni in quei canali con cui, per la comodità de’ traffici, tagliato avevano il lor paese; se tutte queste cose vorremo considerare da una banda, e se vorremo considerare dall’altra come i Peruani, senza aver cognizione delle scienze meccaniche, né di macchina niuna, onde agevolare la manuale fatica, e senza né meno aver l’uso del ferro fecero opere che per la difficoltà, grandezza e sontuosità loro non la cedono alle opere de’ Romani e degli stessi Egizi4, non so quale delle due nazioni, de’ Peruani o de’ Cinesi, si dovrà meritar maggiormente la nostra stima.

Ma la cosa per la quale i Peruani meritano di esser posti al di sopra di qualunque nazione, è un bellissimo provvedimento da essi fatto nel loro imperio, da cui dipende così il privato come il pubblico bene. E questo è intorno alla educazione de’ figliuoli. Non si può dire abbastanza della virtù che ha l’educazione per far di una nazione ciò che più vuole il legislatore, per render valoroso chi è vile, forte chi è debole, e di tristi che sono gli uomini fargli buoni. Ella può far dell’uomo quello che fa giornalmente la Chimica del ferro, che aggiungendovi colle operazioni sue nuovi principî d’infiammabilità, dandogli una elasticità e un lustro che per sé non aveva, lo converte in acciaio e ne fa si può dire un altro metallo. Quanto famoso, altrettanto instruttivo è quel tratto di Licurgo, quando in mezzo all’assemblea dei Lacedemoni ei recò quei due cani di umore differentissimi; l’uno tutto domestico, l’altro tutto selvatico, l’uno si gittava avidamente sopra le dilicatezze che se gli mettevano innanzi, l’altro non le fiutava neppure, ed era solamente goloso della caccia ch’ei poteva comperarsi con fatica ed istento. Del che maravigliandosi forte i Lacedemoni, «Sappiate, disse loro Licurgo, che questi due cani sono usciti non per tanto dal seno della istessa madre, che e’ sono nati a un parto, ma tali sono divenuti, quali voi gli vedete solamente per avergli io da piccini in su differentemente allevati».

In ogni città, asserisce un rinomatissimo autore, dove sieno famiglie per modi e instituti diverse, veggonsi in quelle certi proprî e particolari costumi che, più che altro, le distinguono tra loro. Non nasce dal sangue, variandosi co’ matrimonî, ma dalla educazione che in ciascuna famiglia è sempre la stessa. Un giovanetto sino da’ più teneri anni comincia a sentire dir bene o male di una cosa; di necessità ne fa impressione, e da quella regola il modo di procedere in tutti i tempi della vita sua. Quindi in Roma i Manlii ostinati e duri, i Publicoli uomini benigni e amatori del popolo, gli Appii ambiziosi e nemici della plebe. La qual verità, lasciando gli antichi esempî, chiaro si manifesta anche oggigiorno. L’imperio del Giappone, in virtù di una educazione feroce, si trova abitato da un popolo imperturbabile ne’ più gran sinistri della vita, da un popolo di Stoici. Nell’America settentrionale, prima che vi si radicassero tanto gli Europei, si poteva fare oste di Muzi Scevola e di Regoli; e per ragion della educazione le Porzie nel Coromandello sono cosa volgare. Ma niun legislatore meglio conobbe la forza che ha in noi l’abitudine, di formare in grandissima parte il genio e di ammanierar la natura, e fece della educazione uno affare di stato, quanto fecero gl’Incas. Per formare uno adeguato concetto dei provvedimenti che intorno a ciò aveano fatti bellissimi, basta dire che, se un giovinetto commetteva un qualche mancamento, ne veniva leggermente punito; ma all’incontro erane punito gravemente il padre di lui, il quale non avea saputo di buon’ora e nella età più tenera recare a bene, in virtù di buoni abiti, le inclinazioni del figliuolo; troppo essendo vero che la indolenza o la condescendenza dei padri verso i figliuoli è la principalissima origine dei mali portamenti e dei delitti di quelli. Arrivarono gl’Incas a conoscere da sé stessi quella importantissima verità inculcata da quel legislatore in ogni scienza, Bacone di Verulamio; che alla più parte delle repubbliche non sarebbe stato necessario far tante leggi per riformare gli uomini, se avessero avuto di buon’ora la debita cura nel formare i costumi de’ fanciulli. A questo attendevano principalmente i Peruani. Ed essi avranno con gli antichi Persiani comune la gloria, che la storia delle loro instituzioni venga creduta un romanzo di filosofia.

Fortunati veramente aveano da chiamarsi quei popoli per esser governati da principi savî di grande sagacità e di fermo giudizio, i quali sapevano inclinare i loro sudditi là dove di condurgli intendevano, e più che con altro pareva che comandassero con l’esempio. Quella prudenza e quella bontà, che a pochi il cielo destina, si videro essere a tutti gl’Incas virtù familiari e comuni. Di tredici re che ebbe il Perù, il solo Atahualpa, l’ultimo di essi, si mostrò in ogni suo atto, al riferire di Garcillasso della Vega, un altro Caligola, il quale cercò di sovvertire ogni buon ordine da’ maggiori introdotto; gli altri dodici che succedettero immediatamente l’uno all’altro, somigliarono in gran parte a Traiano, a quell’ottimo tra i principi, pio, virtuoso, magnanimo, per cui fu non meno felice che glorioso l’imperio di Roma, che parea nato per fare onore alla natura umana e per essere una immagine della divina5. Vide il Perù per lo spazio di più di dugento anni risplendere sopra il suo cielo il secol d’oro, non già immaginario e poetico, ma istorico sì bene e reale. E non poteva non prosperare moltissimo quell’imperio, dove il principe era la mente del comune, le cui membra operavano a norma de’ dettami di quella, dove erasi saviamente provveduto contro all’ozio che snerva gli stati, la varietà delle sette che gli conturba e i pericoli delle guerre esterne che gli sottomettono, dove la religione e le leggi erano sotto la tutela delle armi, dove in fine si era pervenuto a riunire insieme ubbidienza perfetta e intera contentezza nel popolo: lapis della Politica trovato solamente dagl’Incas nel Perù e dai Gesuiti in appresso nelle missioni da esso loro fondate nel vicino regno del Paraguay.6

Ma come fu mai, dirà taluno, che a una picciola mano di Spagnuoli venisse fatto di soggiogare in così breve tempo un così vasto imperio munito di tanti e così buoni ordini? Primieramente troppo era naturale che popoli al tutto ignari dell’arte del navigare dovessero isbigottire all’apparire di nuove genti, che vennero loro addosso quasi volando su per il mare. Inoltre gli spari delle nostre armi da fuoco parvero loro altrettanti fulmini e gli uomini a cavallo centauri. E questo fu ben altro per gl’Indiani, che non furono i trinceramenti e le macchine militari de’ Romani per li Galli, che da prima ne furono tratti in ammirazione e poscia in servitù. Con tutto ciò agli Spagnuoli non sarebbe forse riuscito mai d’insignorirsi dell’America, o almeno assai difficilmente, come la fortuna non avesse loro fatto la via. La qual volle che Cortés trovasse sul trono del Messico Montezuma, principe irresoluto pusillanimo, che mostrò agli Spagnuoli di non credergli amici e non si oppose loro come nemici; e che Pizarro trovasse il Perù diviso per la prima volta in fazioni, e sul trono di quello imperio Atahualpa, principe alla più sana parte della nazione odiosissimo, il quale in poco d’ora ebbe rovesciato quanto per più di due secoli aveano saputo fondar di migliore la virtù e la sapienza del nuovo mondo.

  1. Vedi Colden, The History of the five Indian Nations of Canada etc.
  2. Si stendeva da Quito fin di là dal Chili, e avea 1300 leghe di lunghezza.
  3. «Legem perbrevem esse oportet, quo facilius ab imperitis teneatur, velut emissa de coelo vox sit: iubeat, non disputet» etc.: Seneca, Ep. XCIV.
  4. Vedi Essais de Montaigne, liv. III, chap. VI, Des Coches. Nella fortezza di Cozco ci erano pietre di più di 40 piedi di lunghezza trasportate di paesi assai lontani. Da Cozco a Tumipampa (la distanza è di 400 leghe circa e il paese difficilissimo) trasportarono pietre grossissime per fabbricare un tempio al Sole. «Il faut avouer malgré cela, que lorsqu’on compare les uns et les autres (les Indiens de diverses contrées) à la peinture admirable qu’en font quelques historiens, on n’en croit pas ses propres yeux: tout ce qu’on rapporte de leurs talens, des différens établissemens qu’ils avoient, de leurs Loix, de leur Police, deviendroit suspect, s’il étoit possible d’aller contre le témoignage d’un si grand nombre d’auteurs dignes de foi et s’il ne restoit outre cela plusieurs monumens, qui prouvent invinciblement qu’il ne faut pas juger de l’état ancien de ces peuples par celui où nous les voyons maintenant.
    «On ne peut comprendre comment ils ont pu éléver les murailles de leur temple du Soleil, dont on voit encore les restes à Cusco; ces murs sont formés de pierres qui ont 15 à 16 pieds de diamètre, et qui, quoique brutes et irrégulières, s’ajustent toutes si exactement les unes avec les autres, qu’elles ne laissent aucun vuide entr’elles. Nous avons vû les ruines de plusieurs de ces édifices qu’ils nommoient tambos... Les murailles en sont souvent d’une espèce de granite, et les pierres qui sont taillées paroissent usées les unes contre les autres, tant les joints en sont parfaits. On remarque encore dans un de ces tambos quelques mufles qui servent d’ornement, dont les narines qui sont percées soutiennent des anneaux ou boucles qui sont mobiles, quoiqu’ils soient faits de la même pierre. Tous ces édifices étoient situés le long de ce magnifique chemin, qui conduisoit dans la Cordelière de Cusco à Quito, et même en deçà, qui avoit près de 400 lieues de longueur, et dont nous avons souvent suivi les traces»: M. Bouguer, Fig. de la Terre, Relat. abrégée du Voyage etc., art. V. Vedi ancora Mémoire de M. de La Condamine sur quelques anciens Monumens du Pérou du temps des Incas, dans le vol. de l’Académie de Berlin, 1746.
  5. «Enfin l’homme le plus propre à honorer la nature humaine et à representer la divine»: Montesquieu [Oeuvres, t. III, p. 457].
  6. «That grand desideratum in politicks of uniting a perfect subjection to an entire content and satisfaction of the people»: An account of the European settlements in America, vol. 1, Paraguay.

Note

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