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Capitolo Secondo
V. Nazionalità. — VI. Libertà. — VII. Unità. — VIII. Federazione.
V. Senza obbliare le verità economiche rammentate nelle precedenti pagine, e le conseguenze da esse dedotte, restringeremo le nostre considerazioni fra i confini che le alpi ed il mare segnano alla nostra patria: e prima di farci a scrutare l’avvenire verremo svolgendo quei popolari concetti che sembrano riassumerlo, mentre essi non potranno ch’essere la conseguenza e l’effetto.
In Italia il concetto sociale appena albeggia, traspare appena fra i voti e le speranze universali, il politico predomina, e la ragione è per sè medesima evidente; un popolo a cui negasi una patria crede un tal fatto cagione assoluta dei mali suoi, e conquistandola spera alleviarli; nondimeno i fugaci esperimenti del 48 e 49 hanno fatto scemare fra gli italiani, e per essi non intendo una setta, ma l’intera nazione, il prestigio che aveva il politico concetto. Se malamente sopportansi le presenti miserie, sentesi eziandio che un cangiamento di forme, di nomi, d’uomini non è rimedio efficace; ed un tal sentimento comechè sconfortante pel presente è segno indubitato di migliore avvenire, avvegnachè sarebbe impossibile abbracciare nuove idee, nuovi ordini, prima che il fatto non avesse distrutto le presenti illusioni e gli antichi pregiudizii. Inoltre sono le relazioni di stato a stato così intime e così intrecciate in Europa che gli esperimenti in politica fatti da una nazione, del pari che le invenzioni e le scoperte sono di utile universale, non potendo rimanere inosservate ed infruttuose per gli altri popoli; epperò l’Italia va ammaestrandosi non solo con le proprie esperienze, ma ancora, con quelle de’ suoi vicini.
Gli stati europei navigano di conserva verso la stessa meta; il primo a giungervi determinerà la linea sulla quale gli altri verranno ad arringarsi.
La Francia, più che ogni altra moderna nazione, ha fatto numerose esperienze nelle varie forme del suo reggimento.
Gli italiani hanno visto, tremendo esempio, crescere i loro mali senza verun vantaggio. Un tale fatto e le nostre passate speranze sono cagioni abbastanza gravi a determinarci allo studio accurato delle conseguenze a cui potrebbero condurci le nostre istintive aspirazioni. A coloro che credono che la buona scelta degli individui o qualche piccolo cangiamento facesse fruttare in Italia felicità quelle stesse istituzioni cadute in Francia nel dispotismo, è inutile rispondere: io non scrivo per costoro, i quali se non sono ignorantissimi, sono indubbiamente in mala fede.
Nazionalità è una parola che all’iniziarsi i rivolgimenti del 48 corse di bocca in bocca, ed è tutt’ora per gli italiani di grandissima efficacia, ma sempre è stata malamente definita nè mai profondamente meditata.
La nazionalità è l’essere di una nazione. Un uomo che liberamente opera, liberamente vive, ed esprime i propri pensieri, possiede completamente il suo essere, ma se un ostacolo qualunque impedisce lo sviluppo delle sue facoltà, ne interdice la volontà, ne arresta i moti, l’essere più non esiste. Nella stessa guisa per esservi nazionalità bisogna che non frappongasi ostacolo di sorta alla libera manifestazione della volontà collettiva, e che veruno interesse individuale non prevalga all’interesse universale; quindi non può scompagnarsi dalla piena ed assoluta libertà, quindi non ammette classi privilegiate o dinastie o individui, la cui volontà, attesi gli ordini sociali, debba assolutamente prevalere; è nazionalità quella che godesi sotto il giogo d’un assoluto sovrano? Quale utile ebbero i popoli dalle guerre che da tre secoli e mezzo si combattono in Europa? guerre di rivalità dinastiche e non d’altro? Gli austriaci, i prussiani, i piemontesi, gli spagnuoli quali ragioni avevano di correre alle armi, e d’assalire i francesi per vendicare la morte di Luigi XVI? Il popolo sotto tali governi è un gregge vilissimo, tosato in pace con balzelli, stromento in guerra di vendetta e di odio personale fra i principi. La ricca vita nazionale si riassume e si angustia in quella ignobilissima d’un despota o d’un suo favorito, e diventa però mutabilissima; quindi la stessa nazione la vediamo ora superba, ora umile, ora bigotta, ora religiosa, ora debole, ora forte, il continuato progresso impossibile; ogni ministero distrugge, o scieglie via diversa da quella del predecessore, sempre suo rivale, e la nazione è condannata ad un perpetuo ondeggiare. Tutto ciò ch’è collettivo, epperò nazionale, abborrito, interdetto. La storia della nazione riducesi ad una cronaca menzognera o scandalosa delle virtù o de’ vizi dei principi. Ove adunque trovasi la nazionalità? Quali vantaggi otterrebbe l’Italia con l’unità monarchica assoluta? Nuovi mali e non altro.
Tutte le miserie ed umiliazioni che ora si riscontrano in ogni principato in cui è divisa l’Italia non cesserebbero, ma a queste altre verrebbero aggiunte dell’accentramento del potere e dell’amministrazione che naturalmente risultano.
Come ora languono le provincie d’ogni stato, languirebbero allora egualmente le città che oggi sono capitali, eccetto una. Il male e l’ingiustizia che le provincie sieno governate da uomini spediti da lontane corti crescerebbero d’assai con l’unità. Gli abitanti delle varie capitali oggi usufruttano quasi tutte le cariche di ogni stato: in allora ad una sola città restringerebbesi un tale vantaggio. La probabilità di rinvenire fra tanti principi uno che sia meno cattivo, la loro debolezza che rende meno ardua l’impresa di rovesciarli, cesserebbero. Scapiterebbe l’industria che ora in ogni stato ha un centro di moto, scapiterebbe per la ragione medesima il commercio, non contrappesando i doni dell’accentramento, della più libera circolazione interna. Ogni governo, eziandio dispotico, è costretto alcune volte o perchè l’epoca il comporta o per l’indole del principe, a proteggere le scienze ed avvalersi dei distinti ingegni; quindi in ragione del numero de’ governi, cresce la probabilità che abbia a splendere qualche face tra le fitte tenebre della tirannide. Nè Boccaccio, nè Filangieri, nè Pagano, nè Romagnosi conterebbe l’Italia se fosse stata una sola monarchia. Avvegnaché in un solo centro troppo lontano dagli estremi sarebbesi favorito lo sviluppo dell’ingegno, e difficilmente un sol governo sarebbesi mostrato in breve tempo più di una volta propenso alle riforme, nè avrebbero avuto luogo le varie vicende che le promossero da capo. La forza è l’apparente vantaggio dell’unità; dico apparente, perocchè l’esercito ed il tesoro sono mezzi di cui dispone il re, non già la nazione; volti ad opprimerla e non già a difenderla; non pegno di prosperità, ma incentivo a capriccio di qualche despota avventuroso.
Qual monarchia può reggere al paragone del nostro splendido medio evo coi suoi torreggianti edifizii, col suo Dante, col suo Macchiavelli, coi suoi guerrieri di ventura, e raggiungere in sì breve tempo quel grande sviluppo dell’industria e del commercio? L’Italia surse dalla barbarie, raggiunse l’apogeo della civiltà, decadde: ed allora le altre nazioni vennero ad attingere dalle sue ruine una scintilla di vita.
Non prima dell’epoca di Luigi XIV la Francia s’avvicinò a ciò ch’era stata l’Italia nel XIV secolo. La storia di Francia sarà sempre la cronaca di una corte dissoluta; e quella d’Italia la storia di libere genti; l’una è l’immagine de’ dispotici governi asiatici, l’altra della libera Grecia. Perchê tanta differenza? Perchè l’indole svegliata degli Italiani ed il loro spirito d’indipendenza, non si prestò mai, nè mai si presterà a seguire come stupido greggie le sorti di una dinastia. La libertà e non già la forza potrà unificare l’Italia; esempio la Francia, ove la fazione che ora trionfa in Parigi dispone a suo talento di 34 milioni di francesi. Nelle grandi monarchie, salvo la capitale, le altre provincie languono quasi membra inaridite e dogliose; minori assai sono i nostri mali, divisi come siamo in tanti principati di quello che sarebbe se fossimo tutti sottoposti al medesimo tiranno.
Passiamo ora a far paragone fra la monarchia assoluta e lo stato di conquista. Un paese governato dispoticamente subisce una perenne conquista. I principi non hanno patria: loro patria è il mondo che si parteggiano. Ove cercano le spose, ove gli amici? fra i connazionali forse? mai no! fra questi cercano sgherri e cortigiani; loro amici sono gli altri principi, pronti a muovere le armi in loro difesa.
Quale interesse possono avere gli italiani di favorire una dinastia piuttostochè un’altra? il medesimo di un condannato a cui fosse concesso di scegliere il carnefice. Se mai siamo destinati ad essere tiranneggiati ed oppressi, è meglio che i satelliti del despota, i sostegni del dispotismo siano stranieri. Ne verrà risparmiato il dolore di veder rivolti contro noi stessi i nostri concittadini, ed essendo maggiore il distacco fra il governo ed il popolo, più sentito sarà l’odio, più pronta e terribile la vendetta. Non è forse più onorevole pe’ Romani che il papa debba sostenersi per forza d’armi straniere anziché appoggiarsi alle armi nazionali? Non sarebbe stato per la Francia meno vergognoso il sottostare ad una conquista, che vedersi oppressa, umiliata, venduta da francesi stessi? Sì sarebbe disgraziata la Francia, non già corrotta. La conquista può essere l’effetto di una momentanea prepotenza di forza, nè dura, se lo spirito nazionale esiste. La tirannide domestica, per contro, sorge dalle viscere stesse della nazione e vi tiene profondate e sparse le barbe. In una parola, quando i tempi sono maturi a libertà, che un despota scacci un altro despota o si sostituisca alla conquista straniera, il popolo, senza nulla guadagnare, sopporta infruttuosamente tutti i mali della guerra. Col dispotismo non v’è nazionalità; qualunque lingua parli il tiranno, qualunque sia il luogo ove ebbe i natali.
Della monarchia costituzionale dico brevemente, non perchè dopo il già detto poco sia necessario, ma ad evitare l’accusa d’averne taciuto ad arte. Tal forma di governo è assurda: altro non è che un’ipocrita tirannide. Il principe capo delle armate, padrone del tesoro, distributore di tutte le cariche, di tutti gli onori dello stato, negoziatore con le potenze straniere, sorgente di tutte le grazie, solo inviolabile ed irreprensibile di qualunque atto, mentre non avvene alcuno che non sia sua emanazione e sua volontà. Adunque, gli attributi, la forza, i privilegii del principe sono i medesimi che nella monarchia assoluta. Quali sono incontro ad essi le guarentigie del popolo? Un patto, ovvero il giuramento del principe stesso, ed un congresso che il governo, forte di tutti i favori, facilmente rende ligio a sè stesso. Credesi guarentigia la guardia nazionale? Questa istituzione è un accrescimento di forza al governo e non già una difesa del popolo. I suoi capi sono a scelta del re, e sarà perciò facilissimo se non d’avvalersi dell’opera di questi armati, paralizzare almeno la loro azione; perocché essi, loro malgrado, subiranno, quantunque leggermente, l’influenza dell’autorità dei loro capi, e moltissimi cittadini, che in qualche avvenimento prenderebbero parte attivissima, se ne astengono, se guardie nazionali. Inoltre l’inutile servizio ad essa imposto è, ai più, di gravissimo peso, sovente non proporzionato, attesa l’indole e la condizione dell’individuo ai vantaggi che esso ottiene dalle franchigie accordate dal governo.
Dalla sola volontà del re dipende l’esistenza di un tal governo, quindi è stabile per quanto può esserlo la volontà d’un individuo che un matrimonio, il credito di un favorito, la paura, o qualche impreveduto avvenimento, cangia. Si attengono i ministri alle forme perchè da esse dipende il loro utile personale, la loro carica; ma se credono necessaria una misura arbitraria come ne’ governi assoluti, e non altrimenti l’eseguono; sparla il pubblico, ne scrivono i giornali, qualche deputato ne chiede conto a’ ministri, e qui finiscono le opposizioni; a questo si riducono i diritti, le guarentigie del popolo.
Credo inutile distendere più oltre un tale ragionamento, non parendomi necessario addurre ragioni quando sonovi i fatti che parlano chiaramente. La storia delle monarchie costituzionali è contemporanea, ricca, notissima. La Francia, dopo essersi dibattuta per ventun’anni sotto un tale governo (che tale eziandio deve considerarsi l’ultima sedicente repubblica), è ritornata al puro dispotismo; nella Spagna sono corsi infruttuosi fiumi di sangue; moltissime costituzioni. Nell’anno 1848 le abbiamo vedute soffocate in fasce da’ principi medesimi che le avevano concesse e giurate.
Non è l’Inghilterra eccezione a questa regola generale; le sue grandiose apparenze non fanno che nascondere le cancrenose piaghe di quella società. Ora che scrivo, il governo inglese è una piramide alla cui cima pochi sessagenarii si ripartiscono le cariche dello stato, più sotto un congresso parteggiato non da principii politici, ma dal credito personale di quelli, quindi gli elettori, commercianti ed industriali che mercanteggiano eziandio il loro voto; alla base infine una plebe ignorante e misera oltre misura. Se meno che altrove hanno luogo nell’Inghilterra gli arbitrii del governo, ciò dipende dall’indole pacifica di quel popolo, dalle tradizioni di alcune leggi, che l’avvicinano ad una repubblica aristocratica più che ad una monarchia.
Inoltre la monarchia costituzionale è corruttrice per eccellenza, è un armistizio segnato fra i principi ed i monopolisti, in danno dell’onestà. Il dispotismo non cerca l’appoggio della pubblica opinione, la nazione soffre e tace, ma non mentisce; il governo costituzionale ha bisogno del plauso e dell’approvazione di pochi per opprimere i molti; la compra, e l’approvazione e le lodi si trasformano sotto tal governo in merci. Di qui l’ignobile e puerile schiera de’ soddisfatti ad ogni costo, che si atteggiano, parlano, scrivono, lodando sempre, come se fossero davvero liberi cittadini, e le loro opinioni avessero peso nelle determinazioni governative. Vantano i loro dritti e la loro libertà che riducesi al dritto ed alla libertà di applaudire al governo. Tra costoro, quelli che sono venduti materialmente rassomigliano a quei fanciulli i quali con elmo di carta, e spada di legno credono rappresentare Scipione o Marcello.
Il despota regna con la sciabola, il re costituzionale con l’oro; quindi appena il reggimento d’uno Stato d’assoluto cangiasi in costituzionale, le gravezze crescono in modo esorbitante. Il dispotismo incatena i capi, il costituzionalismo perverte il morale; quello comprime l’elatere dell’animo, questo lo logora e lo distrugge, ed abitua il cittadino ad una continua transazione, a quel cinismo di cui la Francia è scuola e sentina e che da lei si sparse sull’Europa intera. Sotto nome di libertà, favorito e protetto il monopolio, e quindi il proletario abbandonato affatto all’avidità dei monopolisti ed incettatori. La politica esteriore codarda ed ipocrita, dovendosi tutelare gl’interessi di una dinastia, facendo le viste di propugnare i dritti della nazione. Conchiudo, monopolisti, dottrinarii, giornalisti, editori...... vantaggiano col reggimento costituzionale, mentre le sorti dei proprietarii, e quelle del minuto popolo peggiorano. Sovente una tal forma di governo è d’impaccio ad un principe, ad un ministro riformatore; se gli Stati napoletani avessero avuto uno statuto al tempo in cui Tanucci ne resse le sorti, probabilmente a questo ministro sarebbe riuscito impossibile attuare le tante riforme. Questo governo ermafrodito impaccia un principe che voglia far del bene, ma non frena le nequizie di un despota.
Parmi di aver dimostrato che sia l’Italia divisa in varii principati, sia riunita sotto una sola monarchia dispostica o costituzionale, la nazionalità italiana non esisterà per questo; l’Italia sarà scudo di varii principotti di uno solo, e gl’italiani non altro che vassalli.
Ma voglio supporre erronee le ragioni esposte, e concedere che la nazionalità esista ogni qualvolta le dinastie o la dinastia regnante siano indigene, e farmi a studiare sui mezzi e le sue probabilità di scacciare gli stranieri dal suolo italiano, e francare il paese da ogni loro ascendente.
Autorità, tradizioni, e forza sono i principii su cui sono costituiti tutti i governi d’Europa. La sola differenza che passa fra loro dipende dalle diverse gradazioni con cui la libertà individuale accordasi con essi; perciò nella sostanza differenza non v’è. Cotesti principii sono già in discredito; libertà, nazionalità, diritto sorgono ad osteggiarli; quinci la lega dell’Europa intera contro le nuove idee. I governi occidentali più del nord temono queste idee, e quindi più immediatamente interessati ad osteggiare ogni rivolgimento; questa triade rivoluzionaria non può essere mutilata in modo alcuno, sconvolte le passioni popolari è impossibile arrestare il torrente, ed è assurdo per parte nostra il pretendere che ci facessimo a combattere per giovare altrui, i principii su cui basano la sua esistenza; può mai suscitare la rivoluzione chi la teme più di qualunque altro nemico? Potranno esservi momenti come è accaduto, in cui le potenze occidentali, per loro mire particolari, facessero le viste di proteggere i rivolgimenti popolari contro la prepotenza del nord; ma appena ottenuto il loro intento, s’unirebbero co’ nostri nemici per opprimerci, spezzare dopo essersene servito, un pernicioso strumento, e punire come delitto di maestà i fatti da loro promossi, e le speranze che hanno fatto sorgere. Se l’Austria che francamente ci osteggia merita l’odio nostro, Francia ed Inghilterra (parlasi qui del governo, non già del popolo) meritano odio e disprezzo perchè nemiche occulte. Alì Tèbèlen diceva ai Greci: «Non contate che su voi soli; Russi, Inglesi, Francesi, tutti vi saranno nemici dal momento che sapranno che volete essere un popolo; non perdete mai di vista questa importante verità.» Ed è cosa naturale che la sola ragione d’impedire che un altro stato dalla condizione di vassallo venisse a sedere a canto a loro nei congressi europei, sarebbe bastante per far volgere contro di noi tutte le loro armi. Dunque il risorgimento italiano altro non potrà essere che la vittoria delle nostre armi sull’Europa dei re. In qual modo compiere una tale impresa? Quali mezzi posseggono i principi italiani per combattere l’Europa è quello che verremo ora studiando.
Il primitivo e naturale concetto è una lega dei principi italiani contro l’Austria che dirige la loro politica, che protegge i deboli dall’ambizione de’ forti e tutti dalla rivoluzione. Quale utilità avrebbero essi di cacciarla dall’Italia privandosi così del più saldo sostegno de’ loro troni? Del Lombardo-Veneto dovrebbero creare uno stato indipendente o spartirselo, cose entrambe di somma difficoltà ed imbarazzo. Il supporre che tutti cooperino all’ingrandimento d’un solo, è un assurdo inutile a discutersi, che il senso comune ed i fatti hanno dichiarato impossibile. Ma ponghiamo che i popoli con mezzi violenti e più stabili che nel quarantotto costringessero i principi a scendere nell’agone; quale speranza potrebbe porsi in una lega che porta con sè il germe della dissoluzione, il mal volere? Concedasi vinto anche questo ostacolo; restano sempre le discordie, il dubbiare, la poca energia, con cui operano le armi collegate; la storia registra fatti innumerevoli che ne dimostrano l’impotenza. L’Europa s’è collegata con Federico II contro l’Inghilterra durante la guerra americana, contro la Francia durante la rivoluzione; Federico uscì vittorioso dalla lotta, l’Inghilterra conservò sempre una grande superiorità sui nemici; fu la costanza degli americani e la abilità di Washington che la vinsero. I francesi vinsero sempre; caddero per propria stanchezza e non già per virtù del nemico. Chi è solo, ha il vantaggio incommensurabile dell’unità, e di comando. Furono leghe coteste in cui ogni collegato da sé solo pareggiava se non superava di forze il comune avversario. Che sperare adunque da una lega di principi italiani di cui tutte le forze messe insieme sono inferiori alle austriache, e fra cui contasi il Papa cosmopolita e centro di dissoluzione e discordie?
Se l’Austria abbandonasse la sua abile politica e minacciasse di voler conquistare d’un sol tratto l’Italia, sarebbe il solo caso di una lega sincera, ma durevole quanto il periglio. Le leghe fra i despoti non sono mai concertate da mire comuni e durature; l’indole d’un principe, il suo capriccio, un matrimonio cangia la politica, e si violano i patti. Basta promettere ad uno dei collegati vantaggi in preferenza degli altri per staccarlo dalla lega, e forse da amico farlo nemico. La colleganza dei re contro i popoli è la sola possibile e conseguente; essa esiste di fatto, essendo il periglio comune e durevole.
Facciamoci ora a discorrere del caso in cui uno solo de’ principi italiani voglia assumere l’impresa di unificare l’Italia; numeriamo i nemici. Prima l’Austria, che tre o quattro disfatte non debellano; mentre la perdita d’una battaglia prostra le forze d’un piccolo Stato; con l’Austria si uniranno gli altri principi italiani facenti ogni sforzo per salvare i loro troni, ed il Papa con essi che, oltre di chiamare l’Europa intera in sua difesa, lancerebbe in campo la livida schiera dei clericali con le armi che loro son proprie, tradimento e raggiro. Armi efficacissime in quello sciame di cortigiani di cui circondasi il trono, e che temono scapitare se il padrone vien costretto a spandere in circolo più ampio i suoi favori. Non trattasi di un re che caccia gli stranieri dai proprii Stati; ma di un piccolo Stato che conquista e debella Stati ad esso molto superiori di forze. A contrappesare tanti nemici, il principe conquistatore si rivolgerà alle simpatie dei popoli italiani, che in un baleno potrebbero rovesciare i troni, soffocare le mene de’ clericali, e schierarsi sotto il suo vessillo. Ma il trionfo del popolo in ogni Stato non basta ad ottenere l’unità di voleri e di sforzi che richiede l’impresa. Il volontario cangiamento di dinastia è per sè medesimo illogico: chi può rispondere della virtù di una schiatta? In parità di potere la miglior dinastia è sempre la regnante e perchè la più affine, e perchè il paese non sottogiace all’invasione d’uomini nuovi ed ignoti. Allorchè tali cangiamenti non avvengono per forza d’armi, sono tranelli di pochi imbrogliatori, che il futuro ed il presente bene della patria sacrificano a vantaggi personali che sperano dalla nuova corte. Arrogi che nel caso di cui parliamo, siccome gli Stati a conquistare cesserebbero d’esser monarchia per diventare provincia di monarchia, maggiori sarebbero le difficoltà. A tali unificazioni ripugnano popoli e più che gli altri con ragione gli italiani. Adunque ogni città, ogni Stato imporrebbe a questo principe patti, chiederebbe tali guarentigie da suscitare in esso gravi preoccupazioni; egli vedrebbe il trono de’ suoi avi abbandonato in balia de’ muggenti flutti de’ popolari rivolgimenti, che potrebbero trarlo a guerra lunga e terribile.
Suppongasi ora cotesti ostacoli rimossi, ed il popolo italiano con illimitata fiducia abbandonarsi all’arbitrio di questo principe; e che niun partito, niun uomo sorga a propugnare idee contrarie, o a spargere diffidenza. In tale ipotesi, impossibile a verificarsi, esaminiamo se questo principe potrà osteggiare e vincere l’intera Europa. Quanti ostacoli e di sommo rilievo non si opporrebbero al rapido andamento dell’impresa? Delle tasse, della coscrizione, due muscoli della guerra, per mancanza d’ordinamento e d’unità, per diversità di leggi, d’usi, di tradizioni sarebbe quasi impossibile valersi. L’Italia deve costituirsi e guerreggiare nel tempo stesso; son miracoli questi che fanno le monarchie? Sperasi forse nell’esaltazione universale? Essa, senza dubbio alcuno, è arma terribile contro il nemico; spiana nell’interno ogni ostacolo, tien luogo di leggi e di magistratura; ma potrà un principe valersene senza temere di rivolgerne in sè medesimo le punte?
I liberi e popolari oratori che suscitano le passioni, le promesse e le speranze d’un miglior avvenire, schiusa la via a brillanti e rapide carriere, il magico nome di libertà che agita gli animi e li sospinge in cerca di moto e d’azione, l’amore che tutti sentono per la cosa pubblica, perchè a tutti è dato liberamente parlare, farà correre a torme gli uomini alle bandiere, ed entreranno nel pubblico tesoro le sostanze de’ privati. Ma potrà un principe avvalersi di questi mezzi? ordinerà invano ai suoi agenti di far suonare le parole di patria e libertà; il suono sarà fioco, il senso oscuro nella bocca di un cortigiano; mentre con le lodi della magnanimità del principe formeranno una discorde mistura. Gli uomini che fra l’universale esaltazione corrono alla pugna non possono che esser prodi; come sfuggire, se codardi, alla pubblica esecrazione? La libertà, facendo d’ogni cittadino un censore del governo, ne forma eziandio un sostegno. È cosa notissima come erano onorati presso le antiche repubbliche que’ cittadini che si facevano a scoprire e rivelare le trame dannose allo Stato e fra i moderni stessi, non appena viene adottato il reggimento a popolo, ogni cittadino non dubita farsi il persecutore de’ contumaci, opera vilissima in una monarchia. La repubblica non escludendo nessuno dal sindacato, ogni cittadino avendo il diritto di censurare la condotta del generale, non esiterà denunziare il soldato a qualunque ufficiale, e la stampa la libera parola ne’ circoli e nelle piazze, offriranno il modo onde farlo dignitosamente ed eziandio acquistarne fama. Per contro, un severo e pubblico censore trasformasi sotto il principato in un vile delatore; il silenzio è imposto, o almeno la parola limitata, è inviolabile il principe; e non è ragionevole, dicono i monarchici, trovare difetto d’ingegno, di carattere, di patriotismo negli uomini che il principe chiama a reggere lo Stato. Adunque la censura non colpirebbe efficacemente che il povero gregario e dovrebbe esporsi a voce bassa nelle anticamere delle EE. LL. Quindi, quantunque rivolto al bene del paese, diverrebbe atto obliquo e degradante. Inoltre è natura dei cuori generosi, il non sentire simpatia pei re o altro potere che s’impone al paese, e sotto tale reggimento i refrattarii trovano protezione e compatimento e non già riprovazione. Questa è una delle tante cause per cui gli eserciti regii, ad onta di pene rigorosissime, non sono mai saldi come le schiere repubblicane.
Nè qui finiscono le cagioni che danno il primato agli eserciti di un popolo libero. È istituzione fra questi il dare campo al valore ed all’ingegno di palesarsi, e d’aspirare a balzi ai primi onori: da ciò l’universale operosità e l’ambizione madre d’eroi. Un generale d’esercito avido di conservare l’aura popolare, stimolato dalla forza di una stampa libera e severa, sollecito di soddisfare alla pubblica aspettazione ed impedire che un rivale con arditi disegni lo soppianti, precipitasi in quelle audacissime imprese che sono l’impeto di un popolo corrente verso la libertà. Nei regii eserciti è ben diverso il modo di governarsi: il campo della scelta angustiato fra un cerchio di favoriti; il duce supremo contento del favore del re, scudo e difesa sicurissima a qualunque errore; un ciondolo inviato dai penetrali della reggia, segno di schiavitù più che d’onore, tenuto in maggior conto che l’opinione pubblica. Da queste varie ragioni risulta la paralisi, il dubbiare continuo, il temporeggiare, la prudenza spinta alla pusillanimità, e per conseguenza meschine imprese, disastri o patti vergognosi.
Ne’ rivolgimenti popolari, egli è vero che accanto agli eroi si veggono codardi ed impostori, ed il disordine spesso accompagna le grandi imprese: ma non perciò viene turbato il rapido corso degli avvenimenti.
Le rivoluzioni sono come le onde d’un rapido torrente che, quantunque torbide dalla mota sollevata dal fondo, non s’arrestano perciò, nè cessano di sgombrare con fremito gli ostacoli che contrastano il loro corso. Appena un principe o un potere qualunque sorge a reggere il movimento, e dice farò io: immediatamente ogni cittadino d’attore diviene spettatore, l’impeto della rivoluzione s’ammorza.
Suppongasi che dall’ignobile schiera de’ moderni cortigiani, da quella turba di generali cresciuti fra le pedantesche discipline dei quartieri, sorga come dalla brillante nobiltà del medio-evo, non serva, ma partecipe degli splendori del trono, un Condè, un Turenna, un Montecuccoli: esso non potrebbe menare a buon fine la guerra italiana; avvegnachè dovendo, durante la guerra, creare la nazione, gli farebbe d’uopo d’un potere più che sovrano. La sola libertà può risolvere il complicato problema, abrogando ogni legge, dichiarando libero ed indipendente ogni comune, ogni cittadino; si spezzano le pastoie domestiche, le differenze; i limiti de’ varii stati spariscono, e dall’eguaglianza l’unità risulta di fatto, e così non sarà l’effetto d’un nuovo patto imposto agli italiani, ma la naturale conseguenza dell’abolizione di ogni patto. Reso libero ed indipendente ogni comune avrà il solo obbligo che gli viene imposto dalla necessità di conservare l’acquistata libertà ed indipendenza di concorrere con tutti i suoi mezzi a liberare l’Italia da’ nemici esterni. Una Convenzione italiana ripartirà sui diversi comuni, ma senza ingerirsi della loro interna amministrazione, proporzionatamente le gravezze volte ad alimentare la guerra; e l’esercito eleggendosi, come è suo diritto, i capi, sarà l’esecutore de’ voleri della nazione sgomberando l’Italia dalle alpi al mare, da ogni elemento straniero tirannico. Potrà mai un principe operare in tal modo? non potendo accordare illimitata libertà o dovrà bandire in Italia nuove leggi, o pretendere che tutti si uniformino durante la guerra a quelle di uno stato; cose entrambe impossibili ad effettuarsi. In ogni provincia, in ogni Stato giungeranno i regii commissarii, ed il malcontento o l’indifferenza li accompagneranno come l’ombra i corpi. L’Italia non subirà mai il giogo d’un potere che abbia il benchè minimo carattere d’uno de’ presenti Stati in cui essa si divide. Tutto ciò ch’è esclusivamente piemontese, napoletano, romano, non è italiano. Un principe durante qualche disastro (essendo puerilità supporre una sequela non interrotta di vittorie) può scendere a patti per salvare il trono degli avi; e però all’Italia fa d’uopo una rappresentanza nazionale, per cui non siavi altro utile se non quello dell’intera Italia, e che dirà: tutto o nulla. Se vi fosse una città che venga dall’esercito considerata come capitale, sarà lo scoglio contro cui romperebbero i nostri sforzi. Carlo Alberto pensò a difendere Torino, i veneziani Venezia, i romani Roma.... tutti furono vinti perchè angustiarono l’idea italiana fra le mura d’una capitale. Durante la guerra l’Italia non dovrà averne altra, che il punto strategico determinato dal corso delle operazioni militari. Un principe non può con animo sgombro da sospetti armare l’intero popolo italiano e trasformarlo in un esercito, e per tema di non poterlo padroneggiare, e perchè la natura del suo governo nol comporta. Il principe dovrà guerreggiare con l’esercito, e la nostra è guerra da combattersi dall’intera nazione. Solo un Alessandro, un Cesare, un Napoleone.... potrebbe menare a compimento una simile impresa; ma questi grandi sempre o quasi sempre sorgono dalla rivoluzione; ed inoltre la monarchia italiana, fondata da un Alessandro, facendo cedere il fato alla prepotenza del suo genio, sfascerebbesi alla sua morte, come si sfasciano tutti gl’imperi fondati per conquista. I vantaggi che può offrire la monarchia non sono tali da far dimenticare agli italiani le loro splendide tradizioni municipali, le rivalità e l’odio fra i diversi popoli, con tale reggimento non si spengono, ma crescono, e le detronizzate famiglie non mancherebbero usufruttarle in loro favore; soltanto la libertà assoluta e l’uguaglianza ponno cancellare le rimembranze del passato. I re che da disgregate baronie formarono regni; sonovi riusciti distruggendo ed assorbendo nella corte le famiglie baronali, ed unificando i popoli con abolire il vassallaggio; ma i tempi sono mutati, ed assai diverso è il caso in Italia. La più larga promessa che farà un principe è uno statuto; cosa sia il sappiamo; promessa che non tarderebbero a fare, e più largamente, i suoi rivali, ed in parità di circostanze ognuno preferirà di essere monarchia piuttosto che provincia di monarchia. In una parola la storia e la ragione hanno dimostrato abbastanza che la forza non fonda nazione, ma conquista schiavi.
Finalmente se la sola guerra di popolo, e guerra affatto rivoluzionaria, può sola riscattare l’Italia dal suo servaggio, non vi è luogo più a dubbii se debbasi o pur no lasciar campo alla monarchia d’immischiarvisi. Una rappresentanza popolare che sorgesse in uno degli stati in cui è divisa l’Italia non potrebbe né dovrebbe porsi d’accordo per cacciar lo straniero con una delle monarchie italiane; troppo discordi sarebbero i mandati dei due poteri, troppo discordi le mire, per sortirne un buono effetto. Il principe più che all’indipendenza italiana, dovrebbe mirare alla salvezza del proprio trono, che il reggimento repubblicano, ricco in Italia di splendide tradizioni, minaccerebbe di ruina. Un potere nazionale, per contro, col mandato di sgombrare l’Italia di quanto osta alla sua nazionalità e libertà, dovrebbe in ogni modo impedire che il principato acquistasse credito e potere. L’uno direbbe: meglio io re, e l’Italia schiava, che questa libera ed io esule; l’altro non dovrebbe riconoscere altri limiti che le alpi ed il mare, altro patto che l’assoluta libertà. Ma concediamo che, o sconoscendo ognuno la propria politica, o per valore della nazione, s’accordassero: quale potrebbe essere il patto? Interrogare il paese a guerra vinta, siccome nel 48; nè pare che lo spirito di conciliazione potrebbe spingersi più oltre di quello che lo fu in quell’epoca fatale. Si mantenne il patto fra tanta concordia? No; l’atto della fusione il ruppe; e così avverrebbe sempre; da’ regi da’ repubblicani, (a chi prima capitasse il destro) sarebbe infranto. Ed è poi da supporsi che un re, eziandio nella certezza di essere eletto, rinunzierebbe al diritto divino, per surrogargli quello del popolo? Dio non può interrogare il popolo sempre; concedere al popolo il diritto di fare un re è, vogliasi o no, concedergli il dritto di disfarlo.
Ma ammettiamo tutto possibile, la colleganza, il patto, la fede al patto. A chi verrebbe affidata la suprema direzione della guerra? Ai generali regii o ai repubblicani? Permetterebbero questi che le loro forze venissero logorate e distrutte dall’indubitata incapacità e dalla dubbia fede di quelli, o affiderebbe il re il proprio esercito a generali d’un partito avverso? Egli è facile in simili momenti gridare concordia, arrestandosi alle fallaci apparenze del caso, senza discernerne i veri rapporti, ma nella pratica poi si veggono sorgere gli ostacoli che generano disordini, codardia, illusioni, disfatte.
Finalmente le speranze di vedere ingranditi i possedimenti di casa Savoia con l’aiuto delle potenze occidentali, non essendo se non calcoli ed utili parziali, o tutto al più di una provincia d’Italia, non entrano nel quadro di questo libro. Nondimeno ne parleremo di volo. Un forte regno boreale, se non è vassallo della Francia, è dannoso per essa.
La Francia ogni qualvolta muove guerra all’Austria, debbe, per ragioni strategiche, dirigere i suoi sforzi nella vallata del Po, mentre all’Austria, per contro, conviene tenersi in questa sulle difese, e schierare sul Danubio l’esercito maggiore; quindi alla prima rileva sommamente che in Italia, fra essa e l’Austria, non s’inframmettesse altra potenza capace, se non d’altro, di mantenere la propria neutralità. Il supporre questo regno sempre ligio a Francia è puerile concetto che non merita risposta. Una volta costituito, esso avrebbe proprii interessi, i quali attese le frontiere e la natura de’ prodotti, l’avvicinerebbero più alla Germania che alla Francia. E questo regno italiano non potrebbe giammai dar norma (come asseriscono i suoi propugnatori) alla politica degli altri stati: Napoli, Toscana, il Papa, per non subirne la preponderanza, si getterebbero nelle braccia del Russo, dell’Austriaco, del Francese. Negarlo è disconoscere l’istoria de’ Longobardi, degli Angioini, dei Visconti, di Venezia. Mai gli stati italiani non vollero subire un protettorato italiano, perchè natura de’ principi come de’ popoli è, allorché son costretti di avere un protettore, di scegliere sempre il più potente ed il più lontano. Quindi questa utopia che sperano o fingono di sperare i cortigiani, non vantaggerebbe, e forse ben poco, che solo i Lombardo-veneti. Dò fine a questo ragionamento persuaso di aver dimostrato abbastanza che la nazionalità chiesta ad una lega di principi, ad una monarchia, è un fantasma, una illusione, non è nazionalità, nè potrà mai attuarsi perchè leghe principesche, o principi, non possono né conquistarla, né conservarla. L’Italia per vincere i suoi numerosi e potenti nemici bisogna che combatta svincolata dalle pastoie domestiche, la guerra del risorgimento: gli italiani debbono guerreggiarla da uomini perfettamente liberi: richiedere all’esaltazione le schiere, ed al bollore delle passioni popolari quei genii che mai non mancano nelle rivoluzioni, come le folgori non mancano alla tempesta. Il credere che la libertà debba seguire l’indipendenza è funestissimo errore, è quello che nel 1848 ci ricacciò nella schiavitù.
VI. Affermano alcuni, ma non molti, che potrebbesi, benché privi di nazionalità, godere libertà. La più parte di costoro sono dotti, pei quali, a loro credere, è patria il mondo, e cotesta vanità può, in parte, adonestare il loro asserto, che, assurdo quanto quello di nazionalità senza libertà, male adequerebbesi colla loro dottrina.
L’essere privi di nazionalità vuol dire che un elemento straniero debba, nella nostra patria, preponderare, ed in tal caso è indubitato che la libertà individuale verrà lesa. L’Italia, o parte di essa, dicono costoro, potrà formar parte di un’altra nazione libera, e godere di una tal libertà. In primo luogo, come l’utile, le attitudini, le cognizioni non si riscontrano mai identiche fra due individui, del pari avviene fra due nazioni. Un italiano non sarà mai né francese, né tedesco senza una forza estrinseca che violenti il suo naturale. È questa una verità comunemente sentita, un assioma che non ha bisogno di dimostrazioni; una provincia italiana o l’intera Italia, che facesse parte di liberissimo impero, non potrebbe perciò dirsi libera; gli italiani non sarebbero che schiavi beati (per quanto possa esservi beatitudine fra le catene), ma non altro che schiavi. Se poi l’Italia, o parte di essa, fosse confederata ad un’altra nazione, in tal caso sarebbe libera se unita da volontario patto, ed allora di fatto esisterebbe la nazionalità; ma se una ragione qualunque imponesse questo patto, nazionalità e libertà sparirebbero entrambe. Tali furono i cisalpini, vergogna maggiore del bastone tedesco. Tra i cisalpini ed i moderni lombardo-veneti havvi la differenza medesima che fra un vile cortigiano ed un fiero e dignitoso cittadino condannato per delitto di maestà. Se la semplice centralizzazione italiana può intaccare la libertà, come essa può mai rimanere intera sotto l’attrito che eserciterebbe su noi un popolo straniero? eziandio riducendo il tutto alla sua libertà di stampa, pure gli scrittori che si faranno a propugnare l’utile della propria nazione, giungeranno ad un punto che intaccheranno il protettore, e la forza li farà tacere se l’oro non giungerà a comprarli.
Facciamoci ora a considerare la libertà nel suo vero aspetto, nel suo vero significato: dritto di eleggersi i propri magistrati, di essere giudicati da propri conterranei; di essere legislatori di se medesimi, di non sottostare ad alcuna determinazione senza che venga ascoltato il proprio parere, o di chi eleggerà quale suo rappresentante. Possono tali condizioni verificarsi senza una recisa nazionalità? Oltrecchè, come un individuo per esistere deve sentire il proprio essere, la propria sensibilità, ed avere un pensiero tutto suo, attributi che non solo non possono essergli comunicati, ma vengono distrutti mutilati dalla benché minima influenza altrui, del pari ogni influenza straniera non potrà mai favorire, ma ritarderà il nostro risorgimento.
Sperano altri che un popolo straniero ci conquisti per poi donarci libertà: ed è questa delle utopie la più assurda e codarda ad un tempo stesso. Il forte troverà maggior vantaggio nel comandare, che nel francare completamente il debole, senza che la libertà ottenuta in dono non potrà essere che condizionata, quindi mutilata; non è libera una nazione convinta ch’altri, volendo, possa rapirgli la sua libertà. La piena fiducia nelle proprie forze è una condizione indispensabile; fiducia, che solo dai fatti può emergere: quindi la libertà deve non solo conquistarsi, ma conquistarsi senza aiuti. Se gl’invasori d’Italia, ritirandosi, l’abbandonassero a sè medesima, non per questo l’Italia sarebbe libera: senz’alcuna fiducia, o almeno dubitando del proprio valore, ad ogni incontro non potrebbe che trattare umilmente con l’antico padrone temendo che questi gli rapisse il dono concesso: ed è spettacolo della schiavitù più umiliante lo scorgere una nazione che vantasi di essere libera subire le violenze d’un prepotente vicino. L’Italia per essere libera deve essere indipendente, e libertà ed indipendenza non altrimenti si ottengono che conquistandole; l’Italia deve: fare da sè, e tanto più salda sarà la sua futura libertà quanto più numerosi saranno i debellati nemici, più superbi i monumenti di gloria meritati per conquistarla.
Dicono i dottrinarii, i quali temono che i marosi della rivoluzione non li sommerga insieme alle lor dottrine, che bisogna educarsi al vivere libero, ottenere la libertà per gradi e non per salti, ed accettare una mezzana libertà come sgabello all’intera, come pegno di migliore avvenire. Strano ed assurdo argomento! La brama di libertà è sentimento, è aspirazione naturale dell’uomo, e non già dottrina; ed i ripetuti sforzi del dispotismo non bastano a distruggerla. L’uomo soggiace all’altrui dipendenza, non già perchè manchi in lui il desiderio di francarsene ed il convincimento di usare utilmente di sua libertà, ma perchè teme maggiore tirannia ed altri mali, che la propria immaginazione, guasta dal desiderio della quiete, gli figura; ed è al bisogno, al desiderio di conservare parte di sua libertà, ch’egli sacrifica la rimanente. Lo schiavo è forza sia educato ai voleri del padrone; ma per vivere da uomo libero basta seguire gli impulsi della propria natura, nè havvi necessità di educazione.
L’uomo, appena sentesi soverchiamente gravato dal peso della tirannia, e scorge la probabilità di rovesciarla, senza più insorge, ed i progressi della scienza, lo sviluppo della ragione che cosa valgono all’insurrezione ed alla battaglia? Quali dottrine sospinsero gli Svizzeri alle armi, o inaugurarono la guerra degli Olandesi, degli Americani? Quali dotti contava la barbara Grecia allorchè dava l’esempio del più eroico coraggio e del più sentito patriotismo?
Ghermita la vittoria, il soccorso della scienza sembra indispensabile; essa può, svolgendo i tesori dall’esperienza accumulati, additare i mezzi come consolidare le conquiste. Ma questi vantaggi il fatto li dimostra più efimeri che reali; perciocchè le nazioni non accettano i suggerimenti della scienza, ed il volgo di niun progresso è capace se non vi è balzato dall’imperiosa necessità; nè havvi ragionamento oltre il fatto che valga a convincerlo; i mali sofferti, il bene acquistato, sono i soli argomenti che fruttano. La discussione, le opinioni, i sistemi emergono dai mali che soffre la società: e la dottrina, in politica, segue e non precede i fatti. Essa dimostra di quanta levatura sia il pensiero della nazione, ma non già la maggiore o minore probabilità d’un rivolgimento. Una nazione senza dottrina sarà come un uomo semplice, e di soverchia buona fede, che facilmente cade nell’inganno, ma non mancherà per questo di forza, di coraggio, d’eroismo e dell’ardente desìo di migliorare la propria condizione. E può eziandio avvenire che un popolo dottissimo imputridito nei vizî, abbandoni non curante il proprio destino al primo venuto. Nè le nazioni si addottrinano e sortono dalla loro semplicità a furia di libri e di giornali, ma progrediscono, attuano una serie di fatti terribili e sanguinosi. L’opinione la più assurda è il supporre che una mezza libertà possa a grado, e senza veruna scossa, menarci all’intera; mentre cotesto vantato progresso legale mena dritto alla corruzione. Facciamoci a sviluppare un tale asserto.
Le condizioni indispensabili ad un popolo per conquistare una libertà duratura sono: lo sforzo per rovesciare la tirannide determinato dai mali presenti, e per evitarli nell’avvenire; la piena conoscenza della causa di questi mali ricercati dalla scienza.
Esaminiamo la mezza libertà quanto favorisca coteste cagioni determinanti e dirigenti.
I reggimenti moderati per loro natura nascondono e leniscono i mali, che non essendo abbastanza sentiti per obbligarci a ritorcere in noi medesimi lo sguardo, ci sospingono alla ricerca dei mali di popoli più infelici, che dalla nostra imaginazione esagerati, ci sembrano molto più di quello che realmente sono, facendoci perciò benedire le dorate catene.
II morale non compresso, ma logorato, illanguidito, perde la sua elasticità, ed a suoi beati, l’insorgere riesce impossibile. Accettasi senza dolore la derisione, i nervi del pensiero e dell’imaginazione sono intorbiditi affatto; metodicamente vengono i sudditi a non pensare diversamente da quello che vogliono i governanti; si avvezzano per mancanza di dolore a non rimontare all’origine delle cose; d’onde la mollezza. Per converso, dolori, afflizioni e ostacoli, l’isolamento stesso a cui astringe la tirannide, ritorcono il pensiero in sè medesimo; per la propria conservazione l’uomo tenta ogni via, si fa alacre e consideratore, e suscitandosi le passioni s’accelera la reazione.
La congiura del Rutli che divampava con la battaglia di Morganten, ed inaugurava la libertà svizzera, non avrebbe avuto luogo senza l’avversione che Alberto d’Austria ebbe per le franchigie, e l’efferata tirannide di Gessler suo proconsole. Nè l’Olanda senza il S. Uffizio ed il duca d’Alba sarebbesi francata dal terribile giogo sotto cui gemeva. E se l’Inghilterra avesse rispettata l’indipendena amministrativa delle sue colonie, l’America farebbe parte del suo impero. Avendo dimostrato come i reggimenti moderati allontanano le cagioni dell’insorgere, ci faremo a studiare sino a che punto essi favoriscono lo sviluppo delle idee.
Pochi oggi giorno sono i cultori delle scienze economiche e politiche; la noncuranza che generalmente si ha per la cosa pubblica, l’utile individuale affatto disgiunto dall’universale, sono cause di cotesto male. Quei che se ne occupano non già per farsi ripetitori, ma per trarre nuove conseguenze, scovrire nuove verità, ed elevarsi all’applicazione, riscontrano nella società, in cui vivono, non solo le cagioni determinanti a farlo, come è naturale, ma eziandio le istituzioni, i costumi di essa società prescrivono i limiti alle loro ricerche a guisa che la scienza si distende, secondo l’intensità e la purezza delle cagioni determinanti. Tra le nazioni che godono qualche franchigia le cagioni determinanti sono numerosissime, ma valgono tali studii non già all’esplorazione dei mali, sì piuttosto alla ricerca del bene; oltrecchè soddisfatto un gran numero, pochissimi attaccano radicalmente il governo, e la libertà del dire da questo concessa facendo screditare presso il pubblico gli attacchi e gli attaccanti si limita il campo della critica. Infatti presso queste nazioni il frutto che si ottiene dalle migliaia di volumi che si pubblicano da tante accademie, da tanti dotti e dottrinarii, riducesi a qualche microscopica riforma politica o ritrovato economico in apparenza utile. Gli onori, gli stipendii, di cui largheggiano questi governi coi dotti, sono incentivo a tali lavori che, mascherati da qualche umile osservazione, sono le più sfrontate apologie del presente. La tirannide, per inverso, tutto interdice; il mistero o la forza possono solamente salvare da’ suoi artigli colui che ardisce alzar la voce; rarissime perciò le cause determinanti a scovrire le piaghe della nazione; ma se sorgono purissime, e fortemente sentite, altre non possono essere che i mali da cui è oppressa la società e la nobile ambizione dell’aura popolare comprata a caro prezzo. La moderazione dà niuna difesa a chi osa; l’opinione pubblica pronta a favorire colui il quale con più ardire muove i suoi attacchi, quindi libero, franco, appassionato il dire. Per lunghi anni si tace in uno stato dispotico, ma se la pazienza del popolo comincia a scuotersi appariscono quegli opuscoletti che suscitano una rivoluzione. Vi sarà poca erudizione e sfoggio di dottrina, ma questa a che giova se non scende ai fatti? Concludiamo, che la mezza libertà, le concessioni, non sono stato di transazioni per giungere a liberarsi da ogni giogo, ma efficace mezzo di cui giovasi la forza per garantire le sue usurpazioni; è uno stato di continua paralisi. Nè qui finiscono i mali dei moderati reggimenti.
I rivolgimenti di un popolo risorto sotto un duro dispotismo sono più terribili, più recisi e più atti a gettar radici che quelli di uno stato già a metà libero. Quale differenza fra la repubblica francese del 91 e quella del 48, l’una surta sulle radici d’un lungo regno assoluto, l’altra basata sul fango d’un moderato reggimento! Quella, terrore dell’Europa, e sola pagina onorevole di quel popolo; questa oggetto di scherno e disprezzo universale, e macchia indelebile all’onore della nazione. Inoltre, istituzioni, caste, privilegi, culti, tutto è odioso sotto il peso della tirannide; perchè tutte armi volte ad opprimere le moltitudini, però tutte nei rivolgimenti distrutte; quindi sgombero il cammino da ogni ostacolo.
Invece negli stati a metà liberi, quasi tutto salvandosi, la rivoluzione da mille impacci è arrestata o sviata dal suo corso. Dottrinarii! che a voi convenga la mezza libertà, che l’industria ed il commercio fiorisca alla sua ombra, concedo; ma non asserite che essa giovi al minuto popolo, e che ci meni ad un migliore avvenire. L’uomo ha bisogno di lunga e laboriosa esperienza per giungere alla conoscenza di quelli ordini (che sono le leggi naturali) i quali guarentiscono la conquistata libertà; ma per francarsi dalla tirannide che l’opprime, procede a salti; lo schiavo non ismaglia lentamente le catene, ma le spezza.
Conchiudiamo: la libertà non ammette restrizioni di sorte alcuna, nè fa d’uopo d’educazione o di tirocinio per gustarla; essa è sentimento innato nell’umana natura: le franchigie concesse dai despoti nei momenti che non si vedono sicuri della vittoria non sono che un narcotico somministrato al popolo per addormentarlo fra le lentate catene ed annebbiarne l’intelletto; quindi senza la nazionalità la libertà non può esistere Ma oltre la nazionalità, essa per non dirsi una menzogna, una derisione, richiede un’altra condizione per molto tempo ignorata, ora ad arte disconosciuta, la uguaglianza. Egli è falso che l’uomo associandosi co’ suoi simili debba sacrificare parte di sua libertà; questa può definirsi il libero esercizio delle proprie facoltà fisiche e morali, che viene limitato dal mondo esteriore, dai bisogni, dai mezzi di soddisfarli. La società mediante la sua forza collettiva, trasforma in mille guise il mondo esteriore, giovandosi in infiniti modi delle forze naturali, e dei loro prodotti, quindi offre all’uomo un campo sempre più vasto per l’esercizio delle sue facoltà, accresce i suoi bisosni, facilita i mezzi di soddisfarli; la vita dell’uomo associato deve necessariamente essere più ricca di sensazioni di quella dell’uomo isolato, ovvero quello godrà di una libertà maggiore che questo. Proudhon scrive «la libertà di ciascuno, riscontra, nella libertà altrui, non un limite, ma un aiuto; l’uomo il più libero è quello che ha maggior numero di rapporti coi suoi simili.» Quindi se per un individuo o per una classe di individui non si verifichi tale verità, è forza conchiudere, che i loro rapporti con l’intera società non sono equi, ma vi è indubitatamente ingiustizia.
Se da un uomo non richiedesi lavoro, mentre si costringe un altro a lavorare eccessivamente, havvi privilegio per quello, ingiustizia per questo, che sarà schiavo della società.
Il solo lavoro, che ogni mano senza distinzione alcuna deve per proprio utile compiere, è quello che le sue naturali attitudini indicano, ed i suoi bisogni richieggono.
Con questa legge e non altra, tutti gl’individui componenti una società dovrebbero contribuire all’accrescimento del comune prodotto. Inoltre cotesta società dovrebbe porre a disposizione di ognuno dei suoi membri, senza veruna eccezione, tutti quei mezzi che essa possiede, onde facilitare lo sviluppo delle loro facoltà fisiche e morali e porlo in grado di riconoscere e utilizzare le proprie attitudini. Solo in tal caso dall’assoluta libertà d’ognuno risulterebbe massimo prodotto e massima felicità. Ma quanto siamo lungi da un simile stato!
Come provvedesi all’educazione del proletariato? In un modo negativo, costringendolo dall’infanzia a continuato lavoro che aggiunge alla mancanza dei mezzi, quella del tempo e delle forze. E sotto qual pena cotesta numerosa classe vien condannata all’ignoranza? la più terribile: la morte per fam in mezzo all’abbondanza! E mentre la fame interdice lo sviluppo delle facoltà, che la natura concesse al proletario, e lo spinge, suo malgrado, sulla via faticosa ed aspra percorsa dal padre; uno stolido, un idiota, dal quale mai potrà cavarsi frutto, perchè ricco, avrà tempo e mezzi esuberanti per la sua educazione che verranno inutilmente sprecati. L’uguaglianza politica è derisione, allorché i rapporti sociali dividono i cittadini in due classi distintissime, l’una condannata a perpetuo lavoro per miseramente vivere, l’altra destinata a godersi il frutto dei sudori di quelli. L’uguaglianza politica non è che un ritrovato per isgravarsi dall’obbligo di nutrire gli schiavi, per privare il fanciullo, il vecchio, il malato d’assistenza, è un ritrovato per concedere al ricco, oltre i suoi diritti politici, la facoltà d’usurpare quelli dei suoi dipendenti.
Sonosi sciolte le catene degli schiavi recidendo loro i garetti. Una tale ingiustizia, che sacrifica a pochi i moltissimi, è eziandio danno manifesto all’intera società, perchè riesce impossibile ai null’abbienti ingegnarsi, ed ai troppo facoltosi manca ogni stimolo per farlo, e, crescendo così la disuguaglianza, essa corre, siccome dicemmo, al deperimento, alla dissoluzione.
In una società ove la sola fame costringe il maggior numero al lavoro, la libertà non esiste, la virtù è impossibile, il misfatto è inevitabile; la fame e l’ignoranza, sua conseguenza immediata, rendono la plebe sostegno di quelle medesime instituzioni, di quei pregiudizii da cui emerge la loro miseria, rivolgono la spada del cittadino contro i cittadini medesimi a difesa di una tirannide che opprime tutti. La fame imbriglia il pensiero, aguzza il pugnale dell’assassino, prostituisce la donna. La società intera viene abbandonata al governo di coloro che posseggono, ed il suo utile, la sua volontà sarà sempre quella di cotesti pochi i quali ammolliti dalle ricchezze che temono di perdere, sacrificheranno sempre l’onore, la dignità, l’utile universale ai loro ozi beati, e l’ignoranza e la miseria interdicendo al maggior numero la libera espressione della loro volontà distruggono affatto la nazionalità espressa dalla volontà collettiva senza eccezione e senza prevalenza di classi.
Concludiamo; la libertà senza l’uguaglianza non esiste, e questa e quella sono condizioni indispensabili alla nazionalità, che a sua volta le contiene, come il sole la luce ed il calorico.
VII. — Gl’italiani sono unitarii; tali furono gli antichi, ed una tale aspirazione fra moderni comincia da Dante. L’idea che nel 1814 ha cominciato a farsi popolare, che ha progredito sempre, che s’è mostrata dominante in tutti gl’istanti di vita vissuti dal popolo italiano è l’unità; ma gli ostacoli per attuarla sono più che moltissimi.
Un governo unico, pei più liberali, emanazione diretta dal popolo, responsabile, e revocabile, e per tutti poi, energico, compatto, distributore di cariche, premiatore del merito, è il concetto volgare. Ma se non vogliamo disconoscere l’umana natura, sarà facile scrivere le conseguenze di una tal forma di governo.
L’uomo o gli uomini componenti il governo, non potranno spogliarsi delle loro passioni, rinunziare ai loro concetti, abdicare infine alla loro individualità; questa pretesa sarebbe assurda e ridicola. Chi il crede possibile non legga questo libro, io non scrivo per esso. Eglino, come tutti gli uomini, vedranno le cose sotto quell’aspetto, che le loro passioni lor presentano, ed adattando i provvedimenti alle loro convinzioni opereranno coscienziosamente, e faranno quanto ad un uomo è dato di fare; quindi i loro desiderii, i loro concetti prevarranno su quelli dell’intera nazione, ed avverrà precisamente che, volendo il bene pubblico, conseguiranno uno scopo affatto contrario, imperciocchè i desiderii, i concetti, le passioni di pochi non potranno essere quelli di tutti; inoltre tal governo dovrà essere forte; quindi diverrà immancabilmente tiranno, imponendo con la forza ciò che egli con fini rettissimi vuole, e la tirannide sarà più dura per quanto maggiore sarà la forza dell’ingegno e della volontà degli uomini prescelti al reggimento; in altri termini, per quanto migliore sarà stata la scelta fatta. La nazione sarà libera nel momento delle elezioni, poi abdicherà la propria sovranità nelle mani di coloro che l’aura popolare condurrà al potere; i candidati saranno varii, quindi il popolo si scinderà in partiti ed avverrà quello che è sempre avvenuto; il partito prevalente sarà tirannico con gli altri, e questi schiavi ed in permanente cospirazione contro di esso; e le continue lotte intestine roderanno le viscere della nazione e sarà impossibile la continuità di sforzi, la perseveranza, la costanza che formano la felicità e la grandezza dei popoli, come nel medio evo; l’opera di un partito verrà distrutta da quello che lo soppianta. Questo scoglio contro cui rompe immancabilmente la democrazia, lo scansarono gli antichi popoli italiani, poi i romani, più tardi i veneziani con l’istituzione del patriziato; questo potere dava a tutta la macchina sociale un continuato ed uniforme impulso, che solo può condurre a grandi risultamenti. Adunque, democrazia ed unità così concepite conducono al governo dei partiti, e nazionalità e libertà sono nomi che servono loro di maschera, di pretesto onde lacerare la patria; nè qui finiscono i mali. L’unità, facendo fluire tutti ad un centro gli umori vitali della nazione, ne consegue, come dicemmo nelle pagine precedenti, che l’altre parti d’Italia deperiranno quasi membra inaridite e dogliose.
VIII. — La federazione è concetto di pochi ma di uomini di svegliato ingegno e solleciti di libertà. Credono costoro, dividendo l’Italia in vari Stati, che un patto comune unisca nella politica esteriore, garantirsi dal dispotismo; ma una tale opinione non ha fondamento. La tirannide del governo in un piccolo Stato non è diversa da quella che opprime una grande nazione; anzi è peggiore, spesso, e più tremenda perchè più difficilmente si sfugge dai suoi artigli; e se eglino credono con una sana costituzione evitarla, in una piccola repubblica; perchè in tal caso non applicare tale costituzione all’intera Italia? Lo stesso potremmo dire per la proprietà materiale del paese; se i privilegi d’una capitale sono dannosi al resto della nazione, in ogni stato avverrà lo stesso, il male sarà minorato, è vero, ma non evitato; e nel caso che potranno esservi provvedimenti da evitarlo in un piccolo Stato, questi provvedimenti stessi saranno applicabili ad uno Stato più vasto.
Oltrecciò, se i varii Stati, in cui si dividerà l’Italia, avranno simili interessi, perchè non potranno reggersi coi medesimi ordini? se interessi diversi, allora gli stranieri saranno arbitri fra noi. Vedremo riprodotto il miserabile spettacolo delle repubblichette del medio evo, che civilissime com’erano, chiamavano i semi-barbari a decidere le loro contese. Gli Stati che soccomberanno in una lotta parlamentaria, in un congresso federale, se non forti abbastanza per farsi ragioni con le armi, invocheranno l’aiuto straniero. È questo un fatto storico innegabile, è un fatto che lo vediamo riprodotto nell’Elvezia, e ciò vedrebbesi eziandio in America, se il vasto Oceano non la separasse dall’Europa. Non appena troncasi una parte di una nazione, per costituirne uno Stato, questo immediatamente prende la propria autonomia, sorgono i suoi interessi, che non sono quelli dell’intera nazione, e ne sono tanto più discordi quanto maggiore è la sua estensione, e più sentita la possibilità di esistere da sè. Non havvi una teoria più assurda e volgare nel tempo stesso, di quella, che nell’ingrandimento successivo degli Stati italiani, e nel minorarsi il numero di essi, scorge la tendenza all’unità; avviene precisamente il contrario. Se l’Italia si dividesse in due soli Stati, l’unità diverrebbe quasi impossibile, i loro sacrifizii sarebbero troppo grandi per sottomettersi volontariamente ad un tal patto: l’uno dovrebbe conquistare l’altro, che dopo esaurite le proprie forze chiederebbe l’aiuto straniero; un grande Stato vuol conservar sempre l’esistenza propria, quantunque meno splendida. Per contro, se l’Italia venisse suddivisa in tanti Stati per quanti sono i suoi comuni, ne risulterebbe di fatto l’unità, i sacrificii che gli verrebbero imposti da un patto comune non potrebbero essere che lievi, e non sperando di reggersi e grandeggiare, ognuno da sè, in faccia agli stranieri, troverebbero un giusto compenso nel patto comune, nonchè nell’unità.
Finalmente, se il concetto di una federazione di Stati italiani, è assurdo, e ruinoso nei particolari, lo è eziandio se vien riguardato sotto un aspetto più generale. La federazione altro non è che uno Stato di transazione per giungere all’unità, e quando i costumi, il clima, le razze, la lingua, la religione, la geografia non costituiscono che una sola nazione, l’unità è un fatto superiore ad ogni calcolo, che non può disconoscersi senza rinnegare le leggi della natura. La federazione, come dice il Mazzini, sarebbe in tal caso: «simulacro di patria e non patria, un gretto calcolo d’aristocrazia o di partiti.» E nobilitando questa idea, non avremmo che gretto municipalismo. Fra il contrastare la sovranità d’una capitale per non volerne alcuna, e contrastarla per diventar capitale, corre la medesima differenza che fra due individui, di cui l’uno attacca il governo per sostituirvi libertà, e l’altro l’attacchi per sostituirsi in sua vece; il primo è un eroe, il secondo è bassamente ambizioso.