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La fine di Candia Mungià

I MARENGHI.



Passacantando entrò, sbattendo forte le vetrate malferme. Scosse rudemente dalle spalle le gocce di pioggia; poi si guardò in torno, togliendosi dalla bocca la pipa e lasciando andare contro il banco padronale un lungo getto di saliva, con un atto di noncuranza sprezzante.

Nella taverna il fumo del tabacco faceva come una gran nebbia turchiniccia, di mezzo a cui s’intravedevano le facce varie dei bevitori e delle male femmine. C’era Pachiò, il marinaro invalido, a cui una untuosa benda verde copriva l’occhio destro infermo d’una infermità ributtante. C’era Binchi-Banche, il servitore dei finanzieri, un omiciattolo dal viso giallognolo e rugoso come un limone senza succo, curvo nella schiena, con le magre gambe sprofondate nelli stivali fino ai ginocchi. C’era Magnasangue, il mezzano dei soldati, l’amico delli attori comici, dei giocolieri, dei saltimbanchi, delle sonnambule, dei domatori d’orsi, di tutta la gentaglia famelica e girovaga che si ferma nel paese per carpire alli oziosi un quattrino. E c’erano le belle del Fiorentino; tre o quattro femmine affloscite nel vizio, con le guance tinte di un color di mattone, li occhi bestiali, la bocca flaccida e quasi paonazza come un fico troppo maturo.

Passacantando attraversò la taverna e andò a sedersi su una panca, tra la Pica e Peppuccia, contro il muro segnato di figure e di scritture invereconde. Egli era un giovinastro lungo e smilzo, tutto dinoccolato, con una faccia pallidissima da cui sporgeva il naso grosso, rapace, piegato molto da una parte. Le orecchie gli si spandevano ai due lati come cartocci sinuosi, l’uno più grande dell’altro; le labbra, sporgenti, vermiglie, e d’una certa mollezza di forma, avevano sempre alli angoli alcune piccole bolle di saliva bianchicce. Un berretto che l’untuosità rendeva consistente e malleabile come la cera, gli copriva i capelli bene curati, di cui una ciocca foggiata ad uncino scendeva fin su la radice del naso ed un’altra arrotondavasi su la tempia. Una specie di oscenità e di lascivia naturale emanava da ogni attitudine, da ogni gesto, da ogni modulazion di voce, da ogni sguardo di costui.

‟Ohe,” gridò egli, ‟l’Africana, una fujetta!” percotendo il tavolo con la pipa d’argilla che al colpo s’infranse.

L’Africana, la padrona della taverna, si mosse dal banco verso il tavolo, barcollando per la sua corpulenza grave; e posò dinanzi a Passacantando il vaso di vetro colmo di vino. Ella guardava l’uomo con uno sguardo pieno di supplicazione amorosa.

Passacantando d’un tratto, dinanzi a lei, cinse co ’l braccio il collo di Peppuccia costringendola a bere, e quindi attaccò la bocca a quella bocca che ancora teneva il sorso del vino e fece atto di suggere. Peppuccia rideva, schermendosi; e per le risa il vino mal tracannato spruzzava la faccia del provocatore.

L’Africana divenne livida. Si ritrasse dietro il banco. Di mezzo al fumo denso del tabacco le giungevano li schiamazzi e le mozze parole di Peppuccia e della Pica.

Ma la vetrata si aprì. E comparve su la soglia il Fiorentino, tutto avvolto in un pastrano, come uno sbirro.

‟Ehi, ragazze!” fece con la voce rauca. ‟È ora.”

Peppuccia, la Pica, le altre si levarono di tra li uomini che le perseguitavano con le mani e con le parole; se ne uscirono, dietro il loro padrone, mentre pioveva e tutto il Bagno era un lago melmoso. Pachiò, Magnasangue, li altri anche se ne uscirono, a uno a uno. Binchi-Banche rimase disteso sotto un tavolo, immerso nel torpore dell’ebrietà. Il fumo nella taverna a poco a poco vaniva verso l’alto. Una tortora spennacchiata andava qua e là beccando le briciole del pane.


Allora, come Passacantando fece per alzarsi, l’Africana gli mosse in contro, lentamente, con la persona deforme atteggiata a una lusinghevole mollezza d’amore. Il gran seno le ondeggiava da una parte all’altra; ed una smorfia grottesca le rincrespava la faccia plenilunare. Su la faccia ella aveva due o tre piccoli ciuffi di peli crescenti dai nei; una lanugine densa le copriva il labbro superiore e le guance; i capelli corti, crespi e duri le formavano su ’l capo una specie di casco; le sopracciglia le si riunivano alla radice del naso camuso folte; cosicchè ella pareva non so qual mostruoso ermafrodito affetto di elefanzia o di idrope.

Quando fu presso all’uomo, ella gli prese la mano per trattenerlo.

‟Oh, Giuvà!”

‟Che volete?”

‟I’ che t’hajie fatte?”

‟Voi? Niende.”

‟E allora pecche me dai pene e turmende?”

‟Io? Me facce meravijia.... Bona sere! Nen tenghe tembe da perde, mo.”

E l’uomo, con un moto brutale, fece per andarsene. Ma l’Africana gli si gettò alla persona, stringendogli le braccia, e mettendogli il volto contro il volto, ed opprimendolo con tutta la mole delle carni, per un impeto di passione e di gelosia così terribilmente incomposto che Passacantando ne rimase atterrito.

‟Che vuo’? Che vuo’? Dimmele! Che vuo’? Che te serve? Tutte te denghe; ma statte’ nghe me, statte’ nghe me. Nen me fa muri di passijone.... nen me fa ì ’n pazzía.... Che te serve? Viene! Píjiate tutte quelle che truove....” Ed ella lo trasse verso il banco; aprì il cassetto; gli offerse tutto, con un gesto solo.

Nel cassetto, lucido di untume, erano sparse alcune monete di rame tra cui luccicavano tre o quattro piccole monete d’argento. Potevano essere, insieme, cinque lire.

Passacantando, senza dir nulla, raccolse le monete e si mise a contarle su ’l banco, lentamente, tenendo la bocca atteggiata al dispregio. L’Africana guardava ora le monete, ora la faccia dell’uomo, ansando come una bestia stracca. Si udiva il tintinno del rame, il russare aspro di Binchi-Banche, il saltellare della tortora, in mezzo al continuo rumore della pioggia e del fiume giù per il Bagno e per la Bandiera.

‟Nen m’abbaste,” disse finalmente Passacantando.”Ce vo’ l’autre. Cacce l’autre, se no i’ me ne vajie.”

Egli s’era schiacciato il berretto su la nuca. Il ciuffo rotondo gli copriva la fronte, e sotto il ciuffo li occhi bianchicci, pieni d’impudenza e d’avarizia, guardavano l’Africana intentamente, involgendo quella femmina in una specie di fascinazione malefica.

‟I’ nen tenghe chiù niende. Tu mi siè spujate. Quelle che truove, pijiatele....” balbettava l’Africana, supplichevole, carezzevole, mentre la pappagorgia e le labbra le tremavano, e le lagrime le sgorgavano dalli occhietti porcini.

‟’Mbé,” fece Passacantando, a voce bassa, chinandosi verso di lei. ‟’Mbé, e t’acride che i’ nen sacce che maritete tene li marenghe d’ore?”

‟Oh, Giuvanne.... E coma facce pover’ammè?”

‟Tu, mo, súbbito, vall’a pijà. I’ t’aspett’a qua. Maritete dorme. Quest’è lu momende. Va; se no nen m’arvide chiù, pe’ Sant’Andonie!”

‟Oh, Giuvanne.... I’ tenghe pahure.”

‟Che pahure e nen pahure!” strillò Passacantando.”Mo ce venghe pure i’. ’Jame!”

L’Africana si mise a tremare. Indicò Binchi-Banche che stava ancora disteso sotto la tavola, nel sonno pesante.

‟Chiudème prime la porte,” ella consigliò, con sommessione. Passacantando destò con un calcio Binchi-Banche, che per lo spavento improvviso cominciò a urlare e a dimenarsi entro i suoi stivali finchè non fu quasi trascinato fuori, nella mota e nelle pozzanghere. La porta si chiuse. La lanterna rossa, che stava appiccata ad una delle imposte, illuminò la taverna d’un rossore sudicio; li archi massicci si disegnarono in ombra profonda; la scala nell’angolo divenne misteriosa; tutta l’architettura prese un’apparenza di scenario romantico ove dovesse rappresentarsi un qualche dramma feroce.

‟’Jame!” ripetè Passacantando all’Africana che ancora tremava.


Ambedue salirono adagio per la scala di mattoni che sorgeva nell’angolo più oscuro, la femmina innanzi, l’uomo indietro. In cima alla scala era una stanza bassa, impalcata di travature. Sopra una parete era incrostata una madonna di maiolica azzurrognola; e davanti le ardeva in un bicchiere pieno d’acqua e d’olio un lume, per voto. Le altre pareti copriva, come una lebbra multicolore, una quantità d’imagini di carta in brandelli. L’odore della miseria, l’odore del calore umano nei cenci, empiva la stanza.

I due ladri si avanzavano verso il letto cautamente.

Stava su ’l letto maritale il vecchio, immerso nel sonno, respirante con una specie di sibilo fioco a traverso le gengive senza denti, a traverso il naso umido e dilatato dal tabacco. La testa calva posava di sbieco sopra un guanciale di cotone rigato; su la bocca cava, simile a un taglio fatto su una zucca infracidita, si rizzavano i baffi ispidi e ingialliti dal tabacco; e uno delli orecchi visibile rassomigliava all’orecchio rovesciato di un cane, essendo pieno di peli, coperto di bolle, lucido di cerume. Un braccio usciva fuori delle coperte, nudo, scarno, con grossi rilievi di vene simili alle gonfiezze delle varici. La mano adunca teneva un lembo del lenzuolo, per abitudine di prendere.

Ora, questo vecchio ebete possedeva da tempo due marenghi avuti in lascito non si sa da qual parente usuraio; e li conservava con gelosa cura dentro una tabacchiera di corno in mezzo al tabacco, come alcuni fanno di certi insetti muschiati. Erano due marenghi gialli e lucenti; ed il vecchio vedendoli ad ogni momento e ad ogni momento palpandoli nel prendere tra l’indice e il pollice l’aroma, sentiva in sè crescere la passione dell’avarizia e la voluttà del possesso.

L’Africana si accostò pianamente, trattenendo il respiro, mentre Passacantando la incitava con i gesti al furto. Si udì per le scale un rumore. Ambedue ristettero. La tortora spennacchiata e zoppa entrò saltellando nella stanza; trovò il nido in una ciabatta, a piè del letto maritale. Ma come ancora, nell’accomodarsi, faceva strepito, l’uomo con un moto rapido la serrò nel pugno, con una stretta la soffocò.

‟Ci sta?” chiese all’Africana.

‟Sì, ci sta, sott’a lu cuscine....” rispose quella mentre insinuava sotto il guanciale la mano.

Il vecchio, nel sonno, si mosse, mettendo un gemito involontario, ed apparve tra le sue palpebre un po’ del bianco delli occhi. Poi ricadde nell’ottusità del sopore senile.

L’Africana, per l’immensa paura, divenne audace; spinse la mano d’un tratto, afferrò la tabacchiera; e, con un moto di fuga, si rivolse verso le scale; discese seguita da Passacantando.

‟O Die! O Die! Vide che so fatte pe’ te!...” balbettava, abbandonandosi addosso all’uomo.

Ed ambedue si misero insieme, con le mani malferme, ad aprire la tabacchiera, a cercare fra il tabacco, le monete d’oro. L’acuto aroma saliva loro per le narici; ed ambedue, come sentivano l’eccitazione a starnutire, furono invasi d’improvviso da un impeto d’ilarità. E, soffocando il rumore delli sternuti barcollavano e si sospingevano. Al gioco, la lussuria nella pinguedine dell’Africana insorgeva. Ella amava d’essere amorosamente morsicata e bezzicata e sballottata e qua e là percossa da Passacantando; fremeva tutta e tutta si ribrezzava nella sua bestiale orridezza. Ma, a un punto, prima si udì un brontolio indistinto e poi gridi rauchi proruppero su nella stanza. E il vecchio comparve in cima alla scala, livido alla luce rossastra della lanterna, magro scheletrito, con le gambe nude, con una camicia a brandelli. Guardava in giù la coppia ladra; ed agitando le braccia gridava come un’anima dannata:

‟Li marenghe! Li marenghe! Li marenghe!”




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