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CAPITOLO QUATTORDICESIMO: L'ASSEDIO.
Se una granata fosse scoppiata ai piedi dei due Tigrotti di Mòmpracem e del vecchio "Cacciatore della Jungla Nera", avrebbe certamente prodotto minor effetto di quel nome, gettato là, quasi con noncuranza, da Kammamuri.
Teotokris, il greco dannato, l'ex favorito del rajah dell'Assam, che aveva dato loro tanto filo da torcere, si trovava nel Borneo, alla testa delle selvagge orde dei dayaki!...
Sandokan era stato il primo a rimettersi dallo stupore immenso che aveva prodotto quel nome.
«Che cos'hai detto, Kammamuri?» chiese. «Ripetici quel nome».
«Sì, Teotokris è qui, signori» disse l'indiano.
«È impossibile!...» esclamarono a una voce Sandokan, Tremal-Naik e Yanez.
«Sì, Teotokris è qui!...» ripeté Kammamuri.
«Chi te lo ha detto?» domandò Yanez.
«Chi me lo ha detto?... Se l'ho veduto io!...»
«Tu!...»
«Sì, signor Yanez. È stato lui che mi ha catturato e ha ammazzato il bufalo selvaggio con quattro colpi di pistola, mentre continuava a correre attraverso la foresta».
«Non ti sei ingannato?» chiese Sandokan. «Forse era uno dei due figli del rajah del lago di Kinibalu».
«Lo conosco troppo bene, capitano, per potermi ingannare» rispose Kammamuri. «Era proprio Teotokris in carne ed ossa. È stato lui a relegarmi nella capanna aerea, dove ho trovato quel bravo negrito».
«Ti sei rimorchiato dietro un bel serpente, mio caro Yanez» disse Sandokan.
«Ma come è giunto qui quel molosso arrabbiato?» si chiese il portoghese.
«Non verrà certamente lui a dircelo. Il fatto è che si trova qui, e che a me dà più fastidio quell'uomo che tutti i dayaki presi insieme».
«Sandokan, mi viene un dubbio».
«Quale, Yanez?»
«Che sia stato lui a farmi saltare l'yacht».
«Non mi stupirei; però in tal caso bisognerebbe che avesse avuto un complice».
«Che io credo di aver trovato» disse Tremal-Naik.
«Il chitmudyar, è vero, amico?» disse Sandokan.
«Sì» rispose l'indiano.
«Eppure mi pareva devotissimo» disse Yanez.
«Bah!... Fìdati degli assamesi!...» rispose la Tigre della Malesia, sorridendo. «Nei tuoi sudditi io ho ben poca fiducia. L'yacht saltato misteriosamente, il tuo chitmudyar scomparso, il greco qui!... Ecco un bel tradimento».
«Ma io strapperò il cuore a quei cani!...» urlò Yanez furibondo.
«Prima bisogna avere i loro corpi, e non sappiamo, almeno per il momento, dove siano. Ah!... Mi viene un altro sospetto!»
«Parla».
«Che il greco sia riuscito a corrompere anche quel furfante di Nasumbata e che se lo sia portato via. Ecco la compagnia al completo».
«Siamo al completo anche noi però, ora» disse Tremal-Naik.
«Vorrei però avere sottomano i miei malesi e anche gli assamesi di Yanez per dare una furiosa battaglia a quel miserabile Teotokris che viene a guastare anche i miei affari».
«Un giorno o l'altro lo avremo nelle nostre mani e lo finiremo davvero» rispose il portoghese. «E noi che avevamo creduto di averlo ucciso!...»
«L'ho veduto cadere io sopra un cumulo di cadaveri» disse Sandokan.
«Doveva aver preso parecchi colpi di fuoco».
«Ed ecco che ce lo troviamo ancora fra i piedi e più vivo di prima. È vero che in Europa i greci hanno fama di avere la pelle durissima».
«E qui ne abbiamo la prova» disse Tremal-Naik.
Kammamuri, che si era nuovamente allontanato verso l'uscita della caverna, in quel momento ritornò.
«Ci porti qualche altra novità?» gli chiese Tremal-Naik.
«I dayaki sono giunti dinanzi alla caverna».
«Sono molti?» domandò Yanez.
«Non ho potuto vederli perché si tengono nascosti fra le piante».
«Hai veduto il greco?»
«Uh!... Quel furfante si guarderà bene dal mostrarsi!»
«E il negrito che cosa fa?»
«Sorveglia i suoi pitoni».
«Ve ne sono tanti?»
«Almeno dieci dozzine, e tutti di mole gigantesca. Finché avremo quelle terribili sentinelle dinanzi alla caverna non avremo nulla da temere».
«Non è escluso però un assedio in piena regola» disse Sandokan. «E se ci bloccano qui dentro, non so come finirebbe per noi. È vero che si potrebbe, in caso disperato, immolare qualcuno di quei giganteschi rettili».
«Puah!... Ah, Sandokan!...» esclamò Yanez.
«Forse che a Sarawack non hai mangiato delle cavallette fritte?»
«Quelli erano altri tempi» rispose Yanez, scoppiando in una risata.
«Già, allora non eri il principe consorte della bella rhani dell'Assam!...»
«È proprio vero, Sandokan».
«Ah!... Come si guastano gli uomini quando si avvicinano al trono».
«Che il diavolo ti porti, fratellino!...»
«Un fratellino che ha già la barba brizzolata come me» disse Tremal-Naik.
Le note acute dell'angilung interruppero bruscamente quell'allegra conversazione.
Il negrito aveva ripreso il suo strumento e ricominciava a suonare con gran forza.
«Quell'uomo ci tradisce!» disse Sandokan. «Con quel suo maledetto istrumento avverte i dayaki che noi siamo qui, chiusi come in una gabbia».
«V'ingannate, Tigre della Malesia» rispose Kammamuri. «Quel brav'uomo spinge le sue avanguardie verso l'entrata della caverna».
«Ho più fiducia nella mia carabina che in quei rettili».
«Va' a scherzare con quei pitoni, tu» disse Tremal-Naik. «Io non vorrei aver da fare con loro a nessun prezzo. Quando quei rettili prendono, non lasciano più. Ne so qualche cosa io che ho passato la mia gioventù nelle Sunderbunds del Gange. Fanno paura a tutti».
«Li conosco anch'io» rispose Sandokan. «Non impediranno però un assedio».
«Questo è vero».
«Tanto più che non abbiamo nulla da porre sotto i denti» aggiunse Yanez.
«Nemmeno le famose cavallette fritte di Sarawack».
«Che ora, sebbene ormai tu sia diventato principe consorte, divoreresti senza fare nemmeno una smorfia».
«È probabile, amico. Lasciamo stare gli scherzi e andiamo un po' a vedere che cosa fanno questi dayaki. Cominciano a diventare un po' troppo noiosi».
«Si vede che ci tengono molto ad avere le nostre teste» disse Tremal-Naik.
«Sfido io!... Possedere una così magnifica collezione!... Una testa europea, una bornese autentica, una bengalese ed una maharatta. Nessun capo di una kotta ne avrebbe un'altra così meravigliosa».
Presero le carabine e s'avanzarono cautamente verso l'uscita della caverna, ma, dopo aver percorsi quindici o venti metri, tutti s'arrestarono bruscamente facendo un gesto di ripugnanza.
Una massa enorme di smisurati serpenti, giaceva là, sussultando ad ogni nota che usciva dall'angilung del negrito.
Quanti erano? Nessuno avrebbe potuto dirlo, regnando ancora una profonda oscurità nell'immensa caverna.
Di quando in quando quella massa si scuoteva bruscamente, come se fosse stata galvanizzata, e delle teste si ergevano bruscamente sibilando, per poi abbattersi di colpo.
«Per Giove!...» esclamò Yanez indietreggiando. «Chi oserebbe attraversare quella barriera? Per mio conto vi rinuncio subito».
«È infatti un ostacolo insormontabile e terribilmente pericoloso» aggiunse Sandokan. «Questi rettili valgono, almeno per il momento, più di due dozzine di spingarde. Finché rimarranno lì nessun dayako porrà i suoi piedi entro questa caverna».
«È uno spettacolo terrificante!» disse Tremal-Naik. «Nelle Sunderbunds io ho incontrato talvolta dei gruppi di serpenti, ma mai così tanti. Come si sono radunati qui?»
«Forse sono venuti a cercare un po' di frescura, ed avendola trovata, si sono annidati qui» rispose Yanez. «Tu sai già che mangiano a lunghissimi intervalli e che dormono molto. La vicina foresta non deve essere priva di selvaggina e può bastare a nutrire questi rettili colossali, i quali poi non domandano gran che per il loro ventricolo».
Un sibilo appena percettibile attraversò in quel momento l'aria.
«In guardia!...» disse Sandokan. «I dayaki ci hanno uditi e si prendono il lusso di regalarci qualche freccia avvelenata».
I quattro uomini, con una mossa fulminea, si erano gettati verso la parete di destra, mentre il negrito, il quale si era pure accorto che i nemici tentavano di atterrare, pure a casaccio, qualcuno degli assediati, si lasciava cadere a terra, dietro l'enorme massa dei colubri.
Si udì un secondo, poi un terzo sibilo. Le frecce cominciavano a fioccare, scagliate dalle sumpitam dei cacciatori di teste, ma senza ottenere effetto alcuno, poiché nemmeno i pitoni potevano soffrirne, essendo difesi da solide scaglie.
«Se sparassimo qualche colpo di carabina?» chiese Tremal-Naik.
«A quale scopo?» disse Sandokan. «Risparmiamo le nostre munizioni. Più tardi potremmo rimpiangerle, quantunque i nostri uomini debbano possederne parecchie casse».
«Lasciamo che consumino le loro frecce» osservò Yanez. «Non avranno sempre sottomano dell'upas. Ehi, Kammamuri, che cosa fa dunque il negrito che non l'odo più suonare?»
«Guarda i suoi serpenti, signore» rispose l'indiano. «Non vuole spingerli né aizzarli troppo, per paura che escano dalla caverna e non servano più di ostacolo. Ve l'ho già detto che è un furbo, quantunque sia un omiciattolo».
«È un selvaggio, e basta» disse Tremal-Naik.
Le frecce continuavano ad entrare battendo contro le scaglie dei pitoni, senza che questi s'inquietassero per quella leggera gragnola.
Le punte si spezzavano contro le scaglie saltando via senza produrre alcuna lesione.
Il negrito, disteso dietro alla enorme massa, non si muoveva. Teneva però sempre in bocca il suo istrumento, pronto a ridestare ed irritare i suoi colossali colubri, se i dayaki avessero osato forzare l'entrata.
Sandokan e i suoi compagni, addossati alla parete, colle carabine armate, aspettavano che i nemici si decidessero per l'attacco.
«Aspetteranno l'alba» disse Yanez.
«E allora daranno indietro» rispose la Tigre della Malesia. «Quando si accorgeranno della presenza dei rettili perderanno ogni speranza di entrare».
«E ci assedieranno» aggiunse Tremal-Naik.
«È quello che soprattutto temo» rispose Sandokan. «Devono essere numerosissimi, e non sarà cosa facile per noi forzare il passaggio con tre sole carabine. Ah!... Se avessi qui i miei malesi!... Che carica darei io!...»
«Credi tu che si trovino sempre sull'isolotto?» chiese Tremal-Naik.
«Conosco troppo bene i miei uomini. Finché non mi vedranno giungere non abbandoneranno la loro posizione. È gente che muore sul posto».
«Saranno abbastanza seccati di non vederci ritornare».
«Conoscono le vicende della guerra e sanno pazientare. È probabile d'altronde che Sapagar abbia mandato degli uomini sull'una o sull'altra riva, per sapere che cosa è avvenuto della nostra barcaccia. Io sono perfettamente tranquillo riguardo a loro. Noi li troveremo tutti uniti, pronti a riprendere la marcia in avanti per Kinibalu... Oh!... Che cosa succede ora? Kammamuri, va' a domandare al tuo amico se i pitoni sono stanchi di guardare l'uscita della caverna senza stritolare nessuno fra le loro formidabili spire».
Il negrito aveva ricominciato a suonare ed era una vera fanfara guerresca che usciva dal suo bambù, facendo rintronare tutta l'immensa caverna. I pitoni rapidamente ridestati ed elettrizzati da quella strana musica avevano ricominciato a strisciare sibilando furiosamente.
«Il negrito li spinge all'attacco, a quanto pare» disse Yanez.
«Che i dayaki cerchino di forzare l'entrata della caverna?» si chiese Sandokan, slanciandosi innanzi colla carabina in pugno.
La fanfara, continuava, sempre più stridente, più furiosa. Pareva che suonassero non uno, bensì dieci flauti.
Ad un tratto un immenso urlo echeggiò dinanzi all'entrata della caverna.
Non era quell'urlo selvaggio che annuncia un attacco, bensì un grido di spavento. Si erano accorti i dayaki della presenza dei formidabili rettili? Era probabile.
«Giù una scarica!...» gridò Sandokan.
Tre lampi squarciarono le tenebre, seguiti da tre detonazioni che l'eco della caverna centuplicò. Pareva che fossero stati sparati tre colpi di spingarda.
Al di fuori si udirono dei clamori spaventevoli che durarono alcuni secondi, poi il silenzio ritornò. Anche l'angilung del negrito taceva e i pitoni avevano cessato di sibilare.
«Che cosa tentavano dunque, Kammamuri?» chiese Sandokan.
«Di sorprenderci, signore» rispose il maharatto, il quale si teneva dietro al negrito.
«E sono scappati dinanzi ai pitoni?»
«Come babirussa, signore».
«Ne sono convinto. Li vedi tu?»
«Si sono nuovamente nascosti fra i cespugli».
«Hai veduto il greco?»
«No».
«Il birbante non esporrà così facilmente la sua pelle» disse Yanez. «Sono furbi i pescatori dell'Arcipelago».
«Preferirei che fossero minchioni» osservò Sandokan. «Quel briccone ci giuocherà, quando meno ce l'aspetteremo, qualche pessimo tiro. Eh!... Che cosa fanno gli assedianti?» Tutti si erano messi in ascolto. Pareva che delle persone camminassero sopra la volta della caverna e che percuotessero, a gran colpi di parang e di kampilang delle rocce.
«Che cerchino di aprirsi un passaggio dall'alto?» si chiese Sandokan con inquietudine.
«Si direbbe che stiano eseguendo qualche lavoro misterioso» rispose Yanez, il quale non cessava di ascoltare attentamente. «Ehi, Kammamuri, chiama un po' il negrito. I suoi serpenti per un momento possono fare a meno della sua cornetta».
«Che cosa vuoi sapere da lui?» chiese Tremal-Naik.
«Aspetta un po'. Cerco di non finire i miei giorni qui dentro come una mummia egiziana, per Giove!...» Il negrito, avvertito da Kammamuri, lasciò i suoi pitoni, i quali erano tornati ad adagiarsi presso l'uscita della caverna e si presentò, dicendo: «Eccomi, orang».
«I tuoi serpenti non si muoveranno senza di te?» chiese Yanez.
«Finché non udranno l'angilung non si scuoteranno dal loro letargo».
«Allora possiamo discorrere senza esporci al pericolo d'una improvvisa invasione da parte dei dayaki».
«Hanno già veduti i pitoni, e non oseranno avanzarsi».
«Benissimo, mio piccolo uomo dei boschi. Conosci tu questa caverna?»
«Mi ci sono rifugiato un giorno insieme alla mia intera tribù, per sfuggire a un furioso inseguimento da parte d'una grossa colonna di cacciatori di teste».
«Ha nessuna uscita?»
«No, orang. Non vi è che l'entrata».
«Sei proprio certo di quello che dici?»
«L'ho esplorata tutta; nondimeno la mia tribù è riuscita egualmente a sfuggire all'assedio, senza lasciare una sola testa nelle mani dei dayaki».
«Allora esiste un altro passaggio?»
«Un buco, orang, o meglio un crepaccio».
«Per il quale potremo passare anche noi».
Il negrito scosse il capo.
«No, orang: troppo grossi i tuan-uropa».
«Tu ci sei passato però».
«È vero».
«Dov'è quel buco?»
«In fondo alla caverna».
Yanez si volse verso i suoi compagni, dicendo: «Vi è nessuno di voi che possegga una miccia?»
«Io ho un pezzo di corda incatramata, ma deve essere ben bagnata» disse Tremal-Naik. «Non brucerà».
«Vuoi del fuoco, orang?» chiese il negrito, il quale si sforzava di non perdere una sola sillaba.
«Sì, piccolo uomo».
«Lo avrai, orang. La mia tribù aveva, prima di rifugiarsi qui dentro, portata della legna che non aveva potuto tutta consumare».
«Ma che ci sarà impossibile accendere» disse Tremal-Naik. «Le nostre esche sono pure bagnate».
«Quest'uomo ne farà a meno» rispose Sandokan. «Basta che trovi due pezzi di bambù e la fiamma brillerà. I selvaggi del Borneo non hanno mai conosciuto né l'esca né l'acciarino e tanto meno gli zolfanelli».
Il negrito si era allontanato, seguendo la parete di destra. La sua assenza non durò che qualche minuto.
«Ecco il fuoco!» disse.
Poi, volgendosi a Kammamuri, aggiunse: «Dammi il tuo parang, mio orang».
Teneva in mano due pezzi di bambù in parte consunti dal fuoco.
Prese la pesante sciabola del maharatto e, quantunque cominciasse appena allora ad entrare un po' di luce attraverso l'apertura della caverna, essendo già sorta l'alba, ruppe prima l'uno e poi l'altro in due diverse maniere.
«È fatto» disse Sandokan a Tremal-Naik. «Fra poco avremo la luce».
«Hum!...» fece l'indiano. «Sarei curioso di sapere in quale modo».
«Si tratta d'una cosa semplicissima, amico. Il negrito ha tagliati i due bambù a metà, nel senso verticale, in modo da ottenere due margini taglienti. Sulla superficie convessa d'uno ha fatto una intaccatura sulla quale fa passare rapidamente la costa dell'altro. Il pulviscolo, purché il legno sia ben secco, prodotto dallo sfregamento, s'incendia facilmente ed ecco il fuoco. Vedi?» Il negrito si era appoggiato contro la parete e fregava rabbiosamente i due pezzi di bambù, lasciando cadere al suolo una vera pioggia di scintille.
Sotto aveva collocati dei frammenti di legna ben secca e delle foglie.
Il fumo s'alzava, disperdendosi lentamente.
A un tratto una fiamma brillò, illuminando i cinque uomini.
Il negrito gettò i due pezzi di bambù, andò a raccogliere dell'altra legna e alimentò il fuoco non senza produrre fra i pitoni una certa agitazione.
«Che scappino?» chiese Yanez, il quale ci teneva ad essere protetto da quelle masse di rettili.
«Non temere, orang» rispose il negrito. «Col mio angilung saprò fermarli e anche tranquillizzarli. Quelle brave bestie sono la nostra salvezza».
«I dayaki però non pare che abbiano l'intenzione di lasciarci. Li odo rompere le rocce sopra la nostra testa».
«Ho già capito che cosa vogliono fare, orang. Anche quando mi rifugiai qui dentro colla mia tribù ci hanno rinchiusi».
«Rinchiusi, hai detto?» chiese Sandokan.
«Sì, orang. La volta della caverna è coperta di massi enormi che anche dei fanciulli potrebbero far rotolare facilmente se scavassero un piccolo canale. Se i dayaki lavorano sopra le nostre teste, vuol dire che si preparano a far cadere dinanzi all'entrata dei pezzi di roccia per chiuderci dentro».
«Tu però hai detto che conosci un'altra uscita».
«Che non servirà per voi, temo».
«Non importa: basta che uno di noi possa uscire. È acceso il tizzone?»
«Sì, orang».
«Fammi vedere quel buco attraverso a cui è fuggita la tua tribù».
«Vieni: non è molto lontano».
Il negrito aveva messi a bruciare due rami resinosi, trovati fra il legname accumulato dalla sua tribù prima di asserragliarsi nella immensa caverna, e si era messo in cammino agitandoli continuamente con un moto circolare, onde mantenere la fiamma. S'avanzò per circa duecento passi, seguendo sempre la parete sinistra, poi si fermò dinanzi a un ammasso di rocce il quale si spingeva quasi fino verso la volta.
«È lassù il buco» disse.
«Spegni le tue torce» comandò Yanez.
Il negrito sbatté i due rami contro la parete ed allora si vide in alto un occhio luminoso, abbastanza rotondo.
L'alba spuntava; forse anche il sole era sorto sull'orizzonte e quella spaccatura semicircolare era visibilissima.
«È per di là che la tua tribù è fuggita?» chiese Sandokan.
«Sì, orang».
«Kammamuri, da' la scalata a questo ammasso di rocce e va' a vedere se è possibile a noi di uscire da quel pertugio».
«Hum!...» fece Yanez. «Noi abbiamo fatto male a diventare un po' grassi».
«Tutto non si può prevedere» rispose la Tigre della Malesia. «D'altronde non abbiamo ancora messo su pancia».
Il maharatto si era già arrampicato sulle rocce, attratto da quel buco luminoso che prometteva la libertà, e il negrito lo aveva seguito.
«Va la cosa?» chiese Tremal-Naik, il quale seguiva attentamente le mosse del suo fedele servo.
«No, padrone» rispose il maharatto con voce rauca. «Solo un negrito potrebbe passare e che fosse anche ben magro. Maledizione a Siva, a Visnù ed anche a Brahma!»
«Ehi, miscredente!...» gridò Yanez. «Ti denuncerò ai bramini dell'Assam!...»
«Voi farete quello che vorrete, signore, ma né io né voi riusciremo a passare».
«Lo credo, perché io sono il più grasso di tutti» rispose il portoghese, il quale non perdeva mai, anche nelle più terribili circostanze, il suo buon umore.
«È un brutto affare diventare rajah».
«E principi consorti d'una superba rhani» aggiunse Sandokan.
«Fulmini dell'inferno!... Si direbbe, fratellino, che tu diventi geloso del mio potere».
«Non ne ho il motivo! Non sei qui tu, insieme a Tremal-Naik, per darmi un regno dieci volte più vasto del tuo? Di che cosa vuoi che mi lamenti?»
«Di non potere essere magro come questo negrito per scappare a quei cani di dayaki».
«Ah!... Questo sì, fratellino».
«Dunque, Kammamuri!» gridò Tremal-Naik.
«Non si passa, padrone».
«Nemmeno lasciando un pezzo di pelle?»
«Sarebbe necessario, padrone, lasciar tutte le costole».
«E noi non le vogliamo perdere» disse Yanez. «Che bella figura faremmo dinanzi agli assedianti!... E l'uomo dei boschi dov'è?»
«È già passato» rispose Kammamuri.
«Come? È già fuori?»
«È scivolato attraverso il buco come un pesce».
«Fortunato mortale. Che scappi?»
«No, signor Yanez. È un brav'uomo, e ritornerà subito».
Infatti aveva appena pronunciate quelle parole che il negrito si lasciava scivolare attraverso il foro.
«Hai veduto i dayaki?» gli chiese subito Sandokan.
«Sì, orang. Sono a tre o quattrocento passi da noi».
«Non ti avranno veduto?»
«Oh, no, orang. La collina è coperta di folti cespugli».
«Che cosa stanno facendo?»
«Lavorano intorno allo stagno nero».
«Lo stagno nero!... Che cos'è?»
«Non lo so nemmeno io, orang. È una grande escavazione piena d'un liquido viscido che tramanda un odore insopportabile».
Sandokan si volse verso Yanez, il quale aveva sporto il capo attraverso il buco e pareva aspirasse violentemente l'aria.
«Ci capisci qualche cosa tu, fratellino?» gli domandò.
Il portoghese ritirò la testa e guardò i suoi compagni con una certa inquietudine. Invece di rispondere a Sandokan, chiese: «Avete osservato nulla voi, mentre attraversavamo la grande caverna?»
«Che le pareti sono formate da ammassi di pietre gialle?» domandò Tremal-Naik.
«Precisamente».
«Che cosa vuoi concludere?» chiese Sandokan.
«Che noi ci troviamo dentro una zolfatara».
«E così? Questo non mi dà la spiegazione di quel bacino pieno di materia nera di cui ha parlato or ora questo negrito».
«Volevo dire che presso le zolfatare non è difficile trovare dei bacini di nafta».
«Non so veramente che cosa sia la nafta. Ho solamente udito narrare che si accende facilmente e che i dayaki talvolta se ne servono per fissare meglio sulle punte delle loro frecce l'upas».
«Allora qualche cosa hai capito» disse Yanez. «Vorrei sapere ora perché gli assedianti lavorano intorno a quel deposito di nafta».
Guardò il negrito il quale stava ritto dinanzi a lui, ascoltandolo attentamente.
«Fra i dayaki hai veduto un tuan-uropa?» gli chiese.
«Sì, orang».
«Che cosa faceva?»
«Stava segnando a terra delle linee colla punta d'un kampilang».
«Ah!... Miserabile greco!...» gridò Yanez con un improvviso scatto d'ira.
«Che cos'hai ora?» domandò Sandokan.
«Ho capito il suo infernale progetto. Non vi è un istante da perdere se vogliamo sfuggire a una morte spaventevole».
«Impazzisci, Yanez?» chiese Sandokan.
Invece di rispondere, il portoghese si frugò nelle tasche, levò un libriccino e una matita, staccò con precauzione un foglietto, essendo la carta ancora un po' bagnata e vergò rapidamente alcune righe.
Quand'ebbe finito, senza dire nulla ai suoi compagni, i quali lo guardavano con crescente stupore, lo piegò e lo mise in mano al negrito, dicendogli: «Ti recherai subito al fiume, lo salirai a tutta corsa finché troverai un isolotto occupato da una tribù di uomini armati di canne che tuonano e vestiti come noi. Là attraverserai il Maludu, urlando ben forte: Tigre della Malesia, Yanez!... Non scordare questi nomi, o correrai il pericolo di ricevere una dozzina di pezzi di piombo in pieno petto. Al primo che trovi consegna questa carta, ma è necessario che tu faccia presto. Se compirai bene la missione, ti regalerò una canna che tuona e ti insegnerò ad adoperarla. Possiamo contare sulla tua amicizia?»
«Io sono un amico degli orang» rispose il negrito con voce grave. «Io farò tutto quello che vorrai».
«Bada di non farti sorprendere dai dayaki».
«Sono troppo occupati per badare a me».
«Va', amico, e non scordare i nomi».
«No, no, orang: Tigre della Malesia e Yanez».
S'aggrappò ai due margini della fessura e scomparve.