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Le Marie
Un innamorato dell'Italia

LE MARIE

Graziose signore, gentili signori, prima di cominciare, io voglio qui dichiararvi schiettamente che, apparendo innanzi a voi, dovendo parlarvi, ho una grandissima paura. Io appartengo, per dire una frase molto napoletana, ma efficace, alla gente di tavolino. Ora, questa gente di tavolino è abituata a compiere il suo lavoro intellettuale in una stanza solitaria e taciturna, nel silenzio profondo della notte, quando non voce, non persona, può farsi udire, può apparire; quando l’occhio che da nessuno spettacolo reale e distratto, può sognare tutte le sue visioni ed evocare i fantasmi più cari; quando l’anima può tendere il suo orecchio ideale ad ascoltare suoni, voci, musiche, assolutamente interiori. E, se lo scricchiolìo di un legno si ode, quale sussulto di sgomento! se la luce della lampada caduta sovra delle stoffe, delle vesti, ne forma una immagine ingannevole, quale atroce terrore! È così che nella coscienza dello scrittore si viene creando questa timidità invincibile, questo di sgomento di un’altra persona: di qualunque altra persona che partecipi al suo travaglio mentale come spettatore; è così che noi siamo perseguitati da questa paura del pubblico, che nulla varrà mai a calmare, a guarire. Come guarire, del resto? I nostri libri, usciti dalle officine tipografiche, partono per paesi lontani, vanno in mani ignote; noi non conosciamo i nostri lettori, non li vediamo; sovra tutto, non li vediamo nel momento che leggono e non possiamo scorgere sul loro viso la impressione di noia, di disgusto o, magari, di piacere; e non sappiamo niente di niente, ignorando, sempre, se siamo capaci di far piangere o di far ridere, se indigniamo il lettore o se lo costringiamo ad amarci. Ogni tanto, così vagamente, ci giunge una lettera: qualcuno ci narra una sua impressione, ma sono testimonianze fugaci e fredde; l’editore ci dice che il libro è andato male, è andato bene; e il legame col pubblico esiste, sì, ma è astratto, impersonale, irreale. Invece, qui, è, d’un tratto, la comunicazione diretta, viva, palpitante, fra l’autore e il suo pubblico; è un combattimento, cortese, è vero, ma sempre pugnace, fra una persona e moltissime persone; è il giudizio pronto, immediato, direi quasi fulmineo, che si deve affrontare. Oh, povera gente di tavolino, tante volte accusata di audacia e così paurosa, intanto; povera gente che si butta a capofitto nel periglio, ma, buttandosi, pensa con malinconia a questo inane orgoglio di voler parlare al pubblico: a quest’arte così difficile, così aspra! Questa povera gente, vedete, non ha che una sola speranza: ed è che il suo lavoro consueto, quello solingo, quelle parole nere sovra la carta bianca vi ritornino in mente; e se mai vi piacquero, se vi commossero, possano far assolvere lo scarso piacere, la niuna emozione della parola parlata!



Le Marie! Quando io annunziai questo titolo della mia lettura, molti supposero che io volessi in primo posto mettere la Maria delle Marie, Maria di Nazareth, la bruna e fine fanciulla, dai grandi occhi pensosi, su cui cadeva l’ombra azzurra del bel manto nazzareno, la creatura umile ed alta, colei che fu la più pura fra le donne, la più gloriosa, e la più infelice fra le madri. No. Il nome della Madonna bisogna invocarlo nelle segrete e ardenti preghiere; le sue laudi bisogna dirle inginocchiati sui marmi delle chiese; il suo panegirico si deve ascoltare dall’alto di un pulpito, dalla fervita parola di un pio oratore. Il nome del dolce fiore di virtù, di amore, di pietà, si è diffuso, duemila anni fa, in tutta la Giudea della Passione, da Sephoris a Gerusalemme, dal monte Carmelo al monte Thabor, dal lago di Genesareth al fiume Giordano; si è diffuso, in duemila anni, in tutta la terra, fra tutti i viventi, di generazione in generazione, come elemento di grazia, di poesia, di tenerezza; e le sillabe che lo compongono, sono una musica soavissima; ed esse hanno carezze miti, lacrime affettuose, sorrisi candidi e pur profondi; e questo nome di Maria dà, a chi lo porta, il segreto, il palese fascino che da duemila anni persiste, che non sarà mai vinto! Non parlerò la Madonna, io; ma questo suo nome, portato da pie donne, insegna di fede e di profonda fede, emblema di devozione e di sacrificio, resti su noi, fra noi, a nutrimento di poesia, narrando di altri sentimenti caldi e sinceri, dicendo di altre donne che lo tennero con onore, con ardore, che lo lasciarono alla storia mistica, come segno di immensa pietà.

Del resto, questo nome di Maria — Mariam, Miriam — era molto comunemente portato in Palestina, tanto che per distinguere le molte Marie, vi si aggiungeva il nome del loro padre, del loro marito, della loro città natìa, o almeno un secondo nome. Ed è così che in quel gruppo di donne che si votarono a Gesù sin da quando cominciò la sua mirabile predicazione in Galilea e in Giudea, fra quelle che lo amarono, che lo servirono, che lo accompagnarono dovunque, nei giorni lieti e nei giorni tristi, sino al Calvario, che lo videro morire, che lo seppellirono, che piansero sulla sua tomba, le Marie erano quattro o cinque. La storia ricorda Maria di Cleofe, cugina della Madonna, zia di Gesù e madre di apostoli e di seguaci del Figliuol dell’Uomo; Maria Salome, la moglie di Zebedeo, la madre degli apostoli San Giovanni e San Giacomo; Maria di Betania, sorella di Marta e di Lazzaro; e, infine, Maria di Magdala. Forse, ve ne fu anche un’altra, ma non se ne hanno notizie certe. Tre sono quelle ricordate dagli evangelii: tre appaiono nel libro affascinante e triste, semplice e sublime, che noi non leggiamo mai abbastanza, che contiene la più viva istoria dell’ideale, che è la pruova più diretta dell’Inconoscibile!


Maria Salome, anzi tutto. Essa era una madre felice, compiaciuta nella beltà e nella forza de’ due suoi figliuoli, Giovanni e Giacomo, giovani gagliardi, vivacissimi, di sentimenti tumultuosi, che potettero meritare da Gesù il nome di figli del tuono; e di costoro essa viveva, teneramente amorosa, seguendone la vita morale e fisica con ansietà materna. Quando, a un tratto, dalle labbra di questi figli, seduti accanto al focolare familiare, essa udì un racconto stupefaciente: ed era quello di un uomo, di un ispirato, di un profeta, che trascinava i cuori e le anime con la sua parola, ora di miele, ora di fuoco: il racconto commosso, vibrante di Giovanni e di Giacomo; i quali parlavano di Gesù come di una personalità superiore, miracolosa: che fosse l’Aspettato delle Genti: che realizzasse tutte le parole dei profeti: che mantenesse tutte le promesse di Dio al preferito popolo d’Israele: che dovesse instaurare il regno dei Cieli. In quel periodo, Israele era nel massimo dell’attesa; e un’agitazione sorda, crescente, turbava le anime nella imminente speranza del Messia. I due giovani avevano subito creduto in Lui e il grande vincolo si era stabilito fra Colui che, giovane egli stesso, sereno, pieno di una divina speranza, doveva portare il nome austero di Maestro, e i suoi ardenti discepoli, Giovanni e Giacomo, il primo di spirito più elevato, il secondo di carattere più fiero, portarono a Maria Salome, la loro madre, l’entusiasmo di Gesù! Essa cominciò ad amare il profeta nazzareno a traverso i cuori de’ suoi figli; ella si dette alla devozione per il Redentore, poichè quella era la devozione delle sue care creature.

E non è questo, forse, il bizzarro, istintivo e ammirevole modo di vivere che hanno le madri? Un padre, spesso, quasi sempre, forte del suo senno, della sua esperienza, della sua autorità, vorrà imporre ai figliuoli i suoi affetti e i suoi gusti; vorrà scegliere lui le cose e le persone che debbono amare. Non così una madre. Ella è savia, ma ella è amorosa; ella è esperiente, ma ella è tenera; ella avrebbe l’autorità, ma preferisce l’indulgenza; e, nella passione del suo misericordioso cuore materno, ella finisce col dire a’ suoi figliuoli: io amerò quelli che vi amano: io amerò quelli che voi amate! Così, dunque, Maria Salome, Giovanni e Giacomo amavano Gesù e ne erano amati: ella amò Gesù, con tutto l’abbandono del suo cuore materno, con una fede assoluta e profonda. Quando Colui che doveva per sempre liberare le anime, trasformare le leggi dello spirito e creare una novella coscienza nei popoli, principiò il suo lungo pellegrinaggio, a un tratto la casa di Zebedeo fu vuota. Giovanni e Giacomo avevano seguìto il Rabbi dalle chiome bionde e dagli occhi azzurri come i piccoli fiori dei campi, e Maria Salome aveva seguito i suoi figliuoli, per poter amare e servire lo stesso Maestro, lo stesso Messia. L’anima di questa povera e pia madre ebrea finì per ardere anch’essa della medesima fiamma filiale: ella provò l’attrazione di chi si trova innanzi alla luce e alla verità: ella fu soggiogata nel gran turbine mistico della predicazione di Gesù: ella credette nell’avvento del regno dei Cieli. Povera, pia, ingenua madre, dalla mente semplice, che nella visione apocalittica aveva il miraggio di un Figliuol di Dio, apparente nel fulgore di tutta la sua gloria, fiancheggiato da Giovanni e da Giacomo! Ella invocava questo giorno terribile e sperato, in cui, prostrata, fra la meraviglia e il terrore delle genti, ella avrebbe tese le braccia a’ suoi figli, sedenti ai piedi di un trono divino, avvolti, anche essi, in uno splendore supremo. Ah, non date il nome di ambizione, nome volgare e affannoso e crudele, al sentimento di una madre che desidera vedere la gloria de’ suoi figliuoli, o consentite che questo nome si purifichi per indicare una espansione pura e umile e innocente! A traverso le lunghe peregrinazioni in Galilea, in Samaria e in Giudea, nelle marcie faticose, nelle soste in paesi diffidenti e nemici, nelle privazioni della povertà, Maria Salome fu sostenuta dalla sua fede nel Verbo divino. E se, ogni tanto, la sua semplice anima si volgeva al Figliuolo del Signore e gli domandava se il gran giorno era prossimo, se ella chiedeva, tremando, qual posto avrebbero avuto Giovanni e Giacomo, i suoi prediletti, nell’ora della gloria, Colui che tutto intendeva e tutto perdonava, sentì il candore di questa materna premura: dovette amare il fremito di quel cuore che viveva solo per un duplice amore.

Ahi, ella non vide la consolante e tremenda scena come l’aveva sognata, nelle fresche notti stellate di Palestina, sotto la tenda dove arrivano, di lontano, i profumi delle ginestre e gli urli strani degli sciacalli! Maria Salome assistette alla tragica settimana in cui parve crollasse la fortuna del Messia e tutta la sua opera si rivolgesse in nulla, dopo la sua cruenta agonia, dopo la sua morte spietata; ella vide i suoi figli perseguitati e minacciati di morte; ella vide morire suo figlio Giacomo. Ma, più tardi, nel tempo dei tempi, con la fatalità dei destini spirituali del mondo, la fede di Gesù che era stata quella di Maria Salome, doveva rifulgere vivida quale faro inaccessibile; ma i nomi de’ suoi figliuoli dovevano veramente essere uniti a quello del Figliuol dell’Uomo e l’evangelio di Giovanni, il quarto e grande Evangelo, trionfare nell’universo; e, certo, nel mondo arcano delle anime, la piissima madre ebrea ha dovuto sentire che la sua speranza non era stata vana, che il suo sacrifizio aveva avuto un premio e che la divina promessa si era compiuta.


Bethania è un piccolo villaggio poco lontano da Gerusalemme. Per andare a Gerico, si esce dalla porta di santo Stefano; si rasenta il letto del Cedron; si scorge un lembo della tetra e negra valle di Giosafatte; e, mentre ancora la superba Sionne torreggia alle vostre spalle, alta su’ suoi colli, fra i campi dove biancheggia la via maestra, vi appare Bethania, una breve raccolta di povere case. Era in questo villaggetto che Gesù abitava, quando veniva a Gerusalemme. Egli non amava la dura e fredda città, che lo disdegnava e lo disprezzava; egli aveva ribrezzo di quel cumulo di corruzioni, di peccati, che si celava sotto l’ipocrisia dei cittadini di Gerusalemme. La sua anima, sempice e buona, specialmente nell’inizio della sua missione, quando ancora non lo abbruciavano le fiere vampe dell’ira divina, quest’anima tenera e gentile aveva bisogno di vivere fra creature semplici e gentili. Vi era, in Bethania, la casa di Lazzaro e delle sue sorelle, Marta e Maria: tutti tre erano pieni di una devota amicizia per Gesù, ed eran felici quando egli accettava la loro ospitalità. Ogni anno, per le sacre feste, egli ci veniva due volte, dalla Galilea, e vi si tratteneva per più di un mese; ogni giorno, egli saliva a Gerusalemme, ma nelle ore della sera, egli ritornava, fedele, alla sua diletta Bethania, dove trovava calma ed affetto fra gente che lo ammirava discretamente, che lo amava moltissimo. La casa era povera, ma i cuori erano caldi e sinceri; ma, nelle belle sere di primavera, Gesù sedeva sul limitare della porta e parlava dolcemente; e a Marta e a Maria si univano i fanciulli, a udire la parola eloquente e persuadente del Nazzareno! Talvolta, nelle lunghe pioggie, egli restava in casa, seduto vicino al desco familiare; e alle due sorelle, al fratello che lo interrogavano, nella solitudine dell’ora, egli diceva i precetti della novissima legge; e il suo piccolo pubblico ascoltava, sentendo diffondersi in tutta l’anima la soavità di quei sentimenti. Ora, le due sorelle, Marta e Maria, erano ben diverse fra loro. Marta era una giovane sana e svelta, vivace e laboriosa, sempre occupata del benessere materiale de’ suoi ospiti, sempre pronta a vegliare, a faticare, a servire coloro che entravano nella sua casa; Maria di Bethania era una creatura gracile e silenziosa, piena di un delicato languore orientale, assorta in mute contemplazioni, chiusa nel suo pensiero, che non si potea scorgere nei bellissimi occhi socchiusi, dalle palpebre che pareva non potessero sopportare la stanchezza del levarsi. Mentre Marta aveva nelle membra tutta la prestezza felice meridionale e nelle industri mani tutta la sapienza di una buona massaia, Maria sedeva, pensosa, con le mani congiunte in grembo: sedeva, raccolta e taciturna, lasciando che le ore passassero sul suo capo, senz’accorgersi della loro fuga.

Nella umile casa bethaniese, colui che lavorava nei campi era Lazzaro; colui che lavorava per gli ufficii più servili, lietamente, era la buona e coraggiosa Marta; mentre la fanciulla che vagava come un’ombra sparente, che si celava nei cantucci, che non lasciava udire la sua voce, che non faceva rumore dove passava, era Maria. E fu su Maria di Bethania, che il sublime insegnamento di Gesù produsse il più profondo effetto. Quando, di lontano, il Redentore appariva, nelle sue visite annuali, Maria gli correva incontro e, inchinandosi innanzi a lui, gli baciava l’orlo della tunica; quando egli si sedeva, Maria andava a mettersi sovra uno sgabello, a’ suoi piedi, levando la testa verso lui, ascoltandone le parole con una intensa attenzione, assorbendone il suono e il calore, facendone propria la forza e la grazia. Ella non diceva nulla: ascoltava e taceva. Era un’anima giovinetta, assetata di giustizia e di bontà; era un cuore palpitante per tutte le forme luminose dell’ideale; era una di quelle creature ammirabili che pare vivano solamente per lo spirito. Ve ne sono, di questi esseri formati di intime tenerezze e di squisite mute affettuosità: fragili esseri che vibrano a quanto è idea, a quanto è sentimento: fini congegni umani, di una delicatezza suprema, che tutto può alimentare, che nulla può uccidere: esseri, la cui apparizione, ogni tanto, ci compensa di tutte le esistenze comuni e vulgari, di tutti i cuori aridi e plateali, di tutte le creature umane perfide, sciocche e malvagie. Maria di Bethania! Innanzi ai ruderi della piccola casa, mentre il sole ascende glorioso dal Monte degli Ulivi e rende bionda la bellissima Porta Dorata onde, in questo giorno delle Palme, Gesù entrò in Gerusalemme, godendo l’estrema sua ora di trionfo; innanzi a queste povere pietre, è dolce ripensare alla scena affettuosa, quando il Divino Maestro, stanco di aver inutilmente parlato agli orgogliosi farisei del Tempio, affranto da una lotta dolorosa contro le cose, contro gli uomini, contro i tempi, ritornava, in sulla sera, alla sua prediletta dimora bethaniese; e mentre Marta gli scioglieva i calzari e gli porgeva qualche bevanda riconfortante, la pensosa giovinetta Maria veniva ad assidersi a’ suoi piedi, aspettando il desiato, l’invocato pascolo del suo spirito. Gesù conosceva tutta la devozione dell’anima di Maria, e se ne compiaceva; poichè nulla rendeva più eloquente la sua parola, che l’essere ascoltato con intelletto d’amore, con abbandono affettuoso. E fra lui, Marta e Maria, avvenne il discorso breve, sagace, efficace che è una delle formole più alte della morale cristiana. In un giorno, in cui vi era molto lavoro, in casa di Marta e di Maria, giunse Gesù, e, poco dopo, dovevano raggiungerlo i suoi discepoli; e si doveva apprestar cibo e giaciglio a costoro. Marta andava e veniva, per preparar tutto, e Maria era accanto al Redentore, assorta, presa dall’incantesimo. Rudemente, Marta si lagnò: Signore, disse, mia sorella non fa che ascoltarti ed, ecco, io debbo lavorar sola, senza che essa mi aiuti. E, levando i buoni occhi limpidi, dove pareva si riflettesse la bellezza del cielo sereno, il Signore le rispose: Marta, Marta, non preoccuparti di tante cose! Una sola è necessaria. Una sol cosa! Ed era quella che Maria di Bethania amava: cioè, la vita dello spirito; cioè, l’obblio di tutti i calcoli egoistici, il perdono di tutte le offese, la misericordia per tutte le infamie, la pietà verso tutti coloro che hanno peccato e sofferto, la tenerezza verso i deboli, gli umili, gli infelici. Una sol cosa necessaria: quella che Maria di Bethania sentiva ardentemente; cioè, il bisogno dell’ideale, il voler viver solo per una idea di equità e di amore, per un sentimento di carità e di conforto; il voler morire per questa idea e per questo sentimento! Una sol cosa necessaria: ed è questa dedizione della propria anima e della propria forza a uno scopo di immenso disinteresse, a una missione tutta altruistica, al desiderio di asciugare delle lacrime e di sanare delle piaghe, al còmpito di redimere tutti quelli che gemono, che patiscono, che agonizzano nei miserabili ceppi della vita. La sol cosa necessaria, che la semplice e taciturna fanciulla bethaniese, preferiva, era di assurgere a tutte le contemplazioni pure, a tutte le adorazioni, a tutti i sacrificii; e Gesù la intendeva e per questa oscura donna cresciuta in un villaggio di Giudea, fu pronunziata una delle più comprensive, più larghe e più grandi parole di Gesù. Egli la disse, e due donne soltanto la udirono; ma la sacra parola diventerà una luce, una guida, a tutte le coscienze; ma essa sarà la salvezza e la consolazione di tutti i dolori; ma quello che Maria di Bethania sentì e predilesse, sarà poi il sentimento e la predilezione di tutte le anime squisite, di tutti i cuori appassionati. Dopo, Maria appare ancora una volta nel libro santo, in atto di adorazione. Alla fine di un banchetto, in casa di Lazzaro, dove le donne non erano ammesse, fra i discepoli, i seguaci, la folla che invadeva la casa, una fanciulla apparve, stringendo al seno una fiala, dove si conteneva un prezioso profumo. È Maria di Bethania. Ella s’inchina innanzi al Redentore, s’inginocchia e versa sui suoi piedi quell’odoroso liquore, che imbalsama la casa; ella rompe la fiala in segno di omaggio. Poi, disciolti i bellissimi capelli neri, con essi rasciuga i piedi del Signore; e resta inginocchiata innanzi a lui, orando, mentre egli le posa la mano sulla testa e la benedice. Chi non la sogna così, divina, ipnotizzata dell’ideale, anima estatica, rapita nella effusione di una passione celestiale? Chi non ne desidererebbe, in questo mondo così brutto e tormentoso, l’assorbimento mistico, la vita assidua e concentrata del pensiero, questo alacre moto interiore che salva e che sublima? Ora, fra i sassi, dove, si dice, sorgesse la casa di Maria di Bethania, fra le erbe, crescono dei fiorellini rossi e gialli, ondeggianti ai venti, con lento moto: piccoli fiori che, raccolti e disseccati, sono collocati sovra i cartoncini bianchi, attaccati con gomma e portanti la scritta: fleurs de Bethanie! Ma il viaggiatore credente o fantasioso preferisce cogliere da sè un calamo di quei fiori gracili e fini, che sorgono dall’esile stelo, e, mettendolo fra le pagine di un suo libro, gli par di ricordare a sè, che la fanciulla di Bethania visse solo per l’ideale e per la fede. Amuleto mirabile, fatto di un picciolo fiore morto, di un evanescente profilo di fanciulla, di una parola sublime!


Negli evangeli sinottici, qua e là, ora precisamente, ora vagamente, la figura di una peccatrice appare. La forma del suo incontro con Gesù varia: varia il posto dell’ incontro; e, a chi legge superficialmente, può parere che queste sieno due o tre donne. Ma, se si legge bene, si vede che l’essenza morale del fatto è una soltanto: Cristo perdona a questa peccatrice. E, scrutando con occhi attenti, si scorge che è anche una sola, la donna. Essa è Maria di Magdala. La pittura antica, italiana e straniera, ci ha dato una Magdalena bellissima, sempre, per lo più bionda e formosa; i pittori le hanno disciolto sulle spalle i capelli a onde di oro e le han dato un carattere terreno, assolutamente terreno, senz’ombra di poesia. Invece, la tradizione di Palestina, tradizione a cui si deve credere, giacchè ivi è il paese dove le antiche istorie più si scende nel popolo e più sono vividamente conservate, la tradizione parla di una donna ebrea nel suo tipo alto e snello, in quell’armonia elegantissima di movenze, con un volto ovale e bruno, con gli occhi lunghi e fieri, con una bocca rossa come un fiore di granato, con una massa fine e lieve di capelli neri. Questo, a udire i racconti degli agricoltori e dei pescatori di Galilea, è il vero ritratto di Maria di Magdala. E che importa se il Tiziano non ne fece la sincera effigie, se la sua arte ha saputo legarci anche con quella forma splendida di colore e di vita? Non conta solo la verità nell’arte: conta anche, e sovra tutto, la bellezza. Forse hanno ragione i coltivatori di Magdala che mi descrissero la figura della loro grande Maria, come è giunta sino a loro: la figura flessuosa e seducente, piena di grazia muliebre, e il lampeggiare dei bruni occhi e l’irresistibile sorriso della sua bocca; ma anche il Tiziano ha ragione! Viveva ella in Magdala, quando s’incontrò col Signore e fu nel tempo delle sue peregrinazioni lungo il lago di Tiberiade, o ella lo vide in Gerusalemme? La cosa è incerta. Forse la orgogliosa donna, avvolta nelle sue ricche vesti, col manto di seta bianca che le circondava la bellissima testa e donde uscivano le treccie odorose de’ suoi capelli, poggiata la fronte alla piccola mano carica di gemme, avvolta in una nube di odori balsamici, era partita dalla sua città natia, e nell’alto palanchino aveva attraversata la distanza grande che divide Magdala da Nazareth, e la grandissima che separa Nazareth da Gerusalemme; aveva viaggiato, forse, sotto i cieli chiarissimi d’Oriente, dove volano le tortori azzurre, fra una vegetazione florida e ricca, andando alla città della Legge, che era la gloriosa Sionne, ma che era anche la città del lusso e dei piaceri. Nel suo cuore, inaridito dall’avvampante soffio dell’egoismo, Maria di Magdala non portava traccia di tenerezza veruna; e mai lacrima veniva a molcere la scintilla superba della sua pupilla. Dura e crudele, dunque; e fiera anche della sua esistenza esteriore, fiera delle sue dovizie, delle sue pietre preziose, delle sue vesti, della sua inarrivabile beltà che sollevava un mormorio di ammirazione, dovunque ella trascorresse! Ma, un giorno, la rosa di Magdala cominciò a declinare sullo stelo: ella illanguidì in un tormentoso pensiero; ella sentì intorno a sè il disprezzo della gente; ella trovò accumulato sul suo capo e sulla sua coscienza tutti i peccati che aveva commessi; e un grande orrore di sè e della vita la prese. Ella, perseguitata, beffeggiata, insultata, corse ai piedi del Signore e vi restò, prostrata, aspettando la sua condanna. Momento supremo! Cristo perdonò. Ah, fu allora che il cuore di Maria di Magdala si franse! Fu allora che un fiume di lacrime roventi uscì da quegli occhi che non avevano mai pianto; e questo fiume portò via tutte le impurità di quell’anima e la lasciò linda e nitida, tutta fervida di speranza, tutta fremente di affetto. Da questo giorno Gesù acquista a sè un’anima che vale quella di tutti gli apostoli, per la passione, per l’intensità, per l’abbandono, per la devozione; egli ha con sè, non una donna che lo segue, così, per vana curiosità, per fantasia; ma una creatura tutta a lui dedicata, ma una adoratrice spirituale, ma una sorella dell’anima, ma una serva di tutte le ore. I suoi sottili piedi che non avevano mai camminato, non si stancano nelle vie lunghe e pietrose, dietro al piccolo corteo di Gesù; le sue mani che non avevano mai lavorato, si piegano alla fatica materiale; la sua anima che non aveva pregato, mai, si inchina alla maestà del Padre, che è nei Cieli. Ella segue Gesù, dapertutto, ombra fedele e costante, spirito di previdenza e di protezione, cuore sagace e tenero e pauroso e pur valoroso; è la prima ai pericoli, ai dolori, alle fatiche; l’ultima al riposo e alla pace. Le tracce di Maria di Magdala sono dapertutto, dovunque Gesù ha posato la testa, dovunque egli ha pronunziato una parola. Nella città di Bethsaida dove egli fece i suoi maggiori miracoli, e sulla montagna di Hattine, la montagna benedetta delle Beatitudini, donde uscì dalle labbra del Redentore l’insuperabile sermone che è la base del cristianesimo; nelle campagne di Safed, dove egli predicava a un popolo di coltivatori, e sotto gli archi del Tempio, nella crudele Gerusalemme; in quel meraviglioso sentiero che dalla campagna discende al lago di Tiberiade, che Gesù, per anni, ha percorso, ogni giorno, e che conduce a uno dei più belli paesaggi del mondo, e negli orti di Getsemani. Dovunque! Ella gli deve tutto. Era morta nell'aridità e nel peccato, ed egli l’ha risuscitata; ignorava l’emozione ed egli gliene ha data una ineffabile; non conosceva la virtù nobiliante del dolore e questa forma di purezza è scesa in lei e tutta la sua redenzione morale è stata fondata sovra una semplice parola di perdono. Vedete Maria di Magdala nella settimana della Passione. Ella è nella folla plaudente, nel giorno degli Ulivi, un giorno inebbriante di poesia primaverile e di gloria del Signore, ultimo giorno di luce e di sorriso. Ma il tradimento dei Getsemani si compie: gli apostoli fuggono; ella segue Gesù la passionale donna, dall’orto dell’agonia spirituale sino al palazzo del gran sacerdote, ella passa la notte fuori la porta, aspettando la sentenza. Il suo spasimo viene subito dopo quello di Maria di Nazareth. Dovunque Gesù soffre, un altro cuore è straziato; dovunque egli patisce, un lamento represso tenta schiudere le labbra di Maria di Magdala. Ella va dal Pretorio al Golgotha; ella si ferma dirimpetto alla croce; ella vede morire Gesù e il suo grido è alto, il suo singhiozzo clamoroso; ella si ferma dal piangere, solo per aiutare Giuseppe d’Arimatea e il buon Nicodemo alla deposizione della croce; ella porta il balsamo e i profumi per imbalsamare Gesù; e, all’indomani, è lei la prima ad accorrere alla tomba; è lei che trova la pietra smossa, e corre ad avvertire gli apostoli; è lei che vede riapparire Gesù, la prima volta. Giuda ha tradito, Pietro ha rinnegato, Tommaso era incredulo, spesso gli apostoli erano incerti, diffidenti; Maria di Magdala ha tutto creduto e ha sempre creduto: Maria di Magdala ha avuto una fede assoluta, un amore assoluto, un abbandono assoluto. Tutto il buio ardore della sua anima si era cangiato in luminoso ardore: e tutta l’essenza passionale del suo cuore era diventata misticismo. Verranno, più tardi, le sante Terese e le Francesche, le sante Marie Egiziache e le sante Caterine; ma ella avrà raccolto in sè tutte le estasi e tutti i dolori, tutti i rapimenti e tutte le umiliazioni; ella sarà fedele nella vita e nella morte, sino alla tomba e più in là. Io ho visitato questo paesello di Magdala. È sulle sponde del lago di Tiberiade. Paesaggio stupendo, con l’immenso lago che meritò il nome di mare di Genesareth, simile a una coppa d’azzurro fra i bei monti che lo circondano, con una campagna tutta fiorita, tutta molle di rugiada, tutta trillante pel canto degli uccelli. Il cavallo che vi porta, trova la sua via fra gli arbusti tramandanti effluvii deliziosi e un senso di benessere, di felicità piove dal cielo, sorge dalle cose intorno. Magdala è piccola, è povera, ma esiste! Cinque erano le città del lago, in cui Gesù ha tanto vissuto: Capharnaum, Dalmanutha, Chorazin, Bethsaida e Magdala. Dapertutto egli ha parlato, ha predicato, ha fatto miracoli di amore e sapienza; ma non ebbe quel che volle, non ottenne lo scopo, e la sua parola fu inutile, la sua opera fu vana: il cuore degli uomini era duro e chiuso. Ricordate la terribile minaccia del Vangelo? Guai a te, Capharnaum, guai a te Bethsaida, poichè in voi ho parlato e ho fatto miracoli, e non vi siete convertite! Guai te, Chorazin, guai a te, Dalmanutha, giacchè se in Sodoma e Gomorra fossero stati fatti i miracoli come da voi, Sodoma e Gomorra si sarebbero pentite! Ebbene, la maledizione di Gesù ha colpito queste città. Sono cadute Chorazin e Dalmanutha, sono cadute Capharnaum e Bethsaida; delle cinque, solo Magdala resta in piedi. Essa sola parla di una vita di Gesù, sulle sponde del lago; essa rimane ferma e rimarrà, dicono gli agricoltori e i pescatori, finchè durerà il mondo. Magdala è il paese della grande Maria; e la riconoscenza di Gesù non si cancella.


La Chiesa del Santo Sepolcro, in Gerusalemme, contiene, oltre la venerata rocca ove fu deposto il corpo del Redentore e a cui si volgono i passi dei pietosi pellegrini, su cui si versano i pianti di tutti i dolori umani e a cui vanno tutte le preci dei credenti della terra: contiene, dico, molte altre sante memorie, racchiude altre cose degne di emozione, di preghiera. Appena varcata la soglia, vi è la pietra dell’Unzione, ove il cadavere fu imbalsamato e a cui si prosterna anche il glaciale touriste; e vi è il piccolo carcere dove il Messia attese il momento della crocifissione; e la cappella sotterranea della Invenzione della Croce; e quella dove egli apparve a Maddalena; e, infine, infine, alta, bruna, avvolta nelle mistiche e sgomentanti ombre, la Cappella del Calvario, il posto dove Gesù rese lo spirto immortale. Una ripida scala marmorea congiunge la Chiesa del Santo Sepolcro a questa seconda Chiesa del Golgotha: e una balaustra permette di guardare, dall’alto, tutta l’antica Chiesa della tomba e l’edicola preziosissima. Io non vi descriverò la Chiesa del Golgotha; nelle misteriose tenebre che la circondano, i ceri mettono una luce che non si spande, e gli argenti delle Madonne e dei Santi bizantini, qua e là, scintillano. Nella oscurità, qualcuno prega, accanto a voi, intorno a voi, ma non vedete la persona, non udite che un fruscio di labbra oranti; e solo un cerchello di luce mostra il buco rotondo, gemmato e aureolato d’oro, ove fu conficcata la croce. Tetra, tragica, desolante, disperante Chiesa, dove tutto pare sia finito, per sempre, nella vostra anima e nel mondo: chiesa fatta per ispaventare i timidi, per opprimere i penitenti, la chiesa della morte di Gesù, la morte, la morte, dovunque, la morte più ingiusta, più infame, più iniqua. Passa il tempo su colui che è prostrato, ma non porta consolazione. Colui che discende di lassù è pallido, è vacillante; il suo cuore ha provato gli spasimi della disperazione senza rugiada di speranza! Giù, un cancelletto di ferro vi arresta e colui che vi guida, a una vostra domanda, vaga, triste, vi risponde: Da questo posto, il gruppo delle pie donne guardava morire Gesù. Spiego meglio la topografia. La Chiesa del Golgotha sorge all’altezza di un primo piano e si affaccia, come da una loggia, nella chiesa del Santo Sepolcro. Il cancelletto è giù, nella chiesa del Sepolcro, in linea diretta del Calvario, a cinquanta o sessanta passi. Voi vi collocate presso il cancelletto, appoggiato ai ferri che lo formano e che serrano una pietra di marmo; levate gli occhi e ficcate lo sguardo nella penombra del Golgotha, quasi cercando di vedere la croce e il biondo sanguinolento capo reclinato sul petto. Così, così le pie donne, le Marie, circondanti la madre dei dolori, strette in un fascio di corpi singultanti, sostenendosi a vicenda, mescolando le loro lacrime, guardarono l’atroce spettacolo, videro gli strazii dell’agonia scomporne il sereno e divino volto, scorsero il pallore della morte invadere quella fronte dove sedeva il più nobile tra i pensieri. Qui, esse udirono il grande grido che scosse la terra, spezzò il velo del tempio, squarciò i macigni e annerì di nuvole il firmamento: il grande grido dell’estremo dolore e della liberazione. E qui, su questa bianca pietra segnante il posto dove le Marie compirono il loro doloroso ultimo dovere, assistendo a quell’agonia, cui dovrebbero venire, in persona o in ispirito, tutte le donne che credono, che sperano, che vivono nella fede, per riprendere, più salda e più vivificante, la femminil tradizione cristiana. Giacchè le Marie, o cortesi mie ascoltatrici, o pazienti miei ascoltatori, non sono un gruppo isolato di anime esaltate e di cuori fanatici, non sono un fenomeno individuale, senza cause apparenti, senza conseguenze spirituali. Le Marie sono la prima manifestazione schietta, umile e grande di tutto un movimento d’anime muliebri intorno ai più alti principii d’idealità e di moralità; sono l’apostolato primitivo, iniziato nella semplicità della coscienza e sotto la forma candida e buona dell’amor mistico. Quello che la poesia di Giovanni, l’ardore di Paolo, la devozione di Pietro, il valore di Giacomo han fatto, con la parola, con la propaganda, coi sacrifici, le Marie hanno compito col sentimento, con l’esempio, con l’abnegazione; e quattro o cinque misere, ignote, perseguitate, errabonde dopo la fine di Gesù, perdute in Oriente, smarrite per le terre e per i mari, sono le antenate della fede cristiana femminile. Fu detto che la religione di Cristo è religione di donne e di bimbi: e chi lo disse sprezzando, non intese di dichiarare una così felice verità, una forza così potente! A traverso i secoli, a traverso gli spazi interminati, in tutte le classi, in tutti gli avvenimenti, l’eredità spirituale delle Marie è passata in ogni anima femminile, di donna in donna, di madre in figliuola, di ava in nipote, di sorella in sorella. Sono morte, le Marie, morte e sepolte in Oriente e in Occidente; e le loro tombe sono sconosciute e le loro ossa sono ritornate in polvere; ma le persone muoiono, non muore l’idea, non muore il sentimento. Quello che il Nazzareno insegnò loro, dalla carità per i miseri al perdono delle offese, da una rassegnazione austera nei dolori a una speranza luminosa, dall’esercizio di tutte le gentili virtù ai tratti di un eroismo ammirabile, esse trasmisero a tutte le donne, in una non interrotta catena di dettami e di esempi. Custodi primitive di un tesoro inestimabile, esse lo confidarono ad altre guardiane amorose e diligenti; e il gioiello meraviglioso della fede, quello che porta la salute e la virtù, quello che consola e che guarisce, quello che difende e che salva, è stato dato dalle Marie, a voi, donne! Sì, voi, donne, siete l’arca nobilissima ove si racchiude il mirabile elemento di vita morale; voi siete il tabernacolo della preghiera e dell’amore; voi, la torre adamantina che le avversità giammai faranno crollare. Non vi è dato di legare i vostri calzari, di alzare sui capelli il vostro manto e di lasciare tutto, per seguire Gesù nelle sue peregrinazioni, per udire dalle divine labbra la parola di soavità: i tempi grandi e belli sono passati; ma che importa? Contro tutte le tendenze volgari, corrompitrici, ciniche, di una società senza fede e senza luce, voi potete opporre la forza di una coscienza ansiosa di purezza contro la indifferenza gelida; voi potete mettere il vostro santo entusiasmo avuto da vostra madre, dato da voi ai vostri figliuoli; contro il cinismo dei bassi istinti umani la vostr’anima può contrapporre il volo spirituale, sino a un supremo principio di bene. Come le Marie, voi avete sete di giustizia, di bontà, di misericordia; la vostra fronte conosce il segreto delle lunghe cogitazioni; le vostre ginocchia sanno piegarsi nell’orazione; le vostre mani si congiungono nel dolce e pacifico gesto; le vostre labbra sanno dire, gravemente, umilmente: Padre Nostro. Ciò che le Marie hanno dato al mondo muliebre, la fede nei grandi destini delle anime, non si estingue la sacra fiamma si alimenta nel coraggio e nel valore tranquillo delle donne. Le Marie non hanno vissuto, non hanno amato, non hanno sofferto invano; giacchè per esse, fino a che un cuore di donna palpiterà sotto il firmamento stellato, la fede di Gesù, la fede dell’ideale non perirà, mai!


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