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DELLA EDUCAZIONE
― 18291 ―
- In primo luogo tu hai a sapere in generale, che tutto quello che è vera utilità degli spiriti dispiace agli uomini comunemente; onde ti guarderai come dal fuoco di profferire parole o fare opere, che dieno indizio che tu voglia beneficare l’intelletto, o il costume di quelli.
Gozzi, Osservatore.
Quei pochi eletti cui venne in sorte l’agilità del pensiere, concitati vivamente dal desiderio della scienza, investigarono sempre le occulte ragioni delle cose, ma non ebbero tutti il medesimo intendimento. – Alcuni più benigni, considerando funesto il dono della sapienza, dove non cospirasse al bene dei loro fratelli, palesavano quella parte del vero, che poteva renderli felici o meno sfortunati; e a quella parte, cui disvelata seguitava il gemito, e l’aridezza dello sgomento, surrogavano invece il conforto delle illusioni necessarie a mantenere una vita, che altrimenti non avremmo ragione di reggere. – Altri più severi, collo sguardo acuto dell’anima penetrando l’ombra dei secoli, videro e dimostrarono le razze umane peregrinare la terra gravi d’ignoranze, di sventure, e di colpe. E forse dissero bene: ma qual frutto ne colsero? – La scienza del dolore non aveva mestieri d’insegnamento, perchè nacque congiunta al cuore dell’uomo; le ignoranze, le sventure, e le colpe, stettero immobili, perchè sono elementi indivisibili della nostra umanità, e tutto il frutto si strinse alla compiacenza d’aver profferito poche massime amare di sconforto durissimo, che fecero piangere, e maledire. Ma se non merita grazie quel fiero spirito, che scende nei segreti del cuore e gli scompiglia, e gode delle ruine, crederanno di leggieri gli animi temperati a bei sensi, che molti bramino la nostra specie digradata più che i suoi fati non chiedono, nè altri le dieno potenza se non di far gregge, e di pascere, e le gridino incessanti il silenzio delle poche generose passioni, che uniche fanno corruscare quella sacra scintilla usa talvolta a scaldare la creta dell’uomo? Veramente l’uomo lasciato all’inerzia mostra profondo il segno d’una schiatta caduta e annodata alla polvere; ma se, per impulso proprio o d’altrui, muove l’interno pensiere e lo spande su l’universo, e, percosso da quello spettacolo immensamente vario e perenne, lo accende, e lo fa corrispondere, per quanto è dato, alle immagini quasi infinite, allora l’uomo disciogliesi in parte dalla terra, e risguarda i cieli, e vive in essi col desiderio dell’esule. – Ma per coloro, che la nostra bassezza vorrebbero curvare fin dove non piegasi, la fiamma non arde, la grandezza non ha spazio, e dappertutto veggono angustie, perchè altra dote non hanno che di affetti mediocri, nei quali alberga per anima la ruggine dell’invidia. – E perchè l’umiltà degli affetti mediocri non osa prorompere nella sua nudezza, velano gelosi le strettezze del cuore, e della mente, e danno al velo il nome della prudenza, – cara e santa virtù, allorchè corregge, ma non ferma l’impeto delle passioni magnanime, – non già quando ella consiste solo in andare adagio, e concentrandosi in un senso di paura, e d’interesse, ti si lega alla vita, nè va più oltre. E perchè i prudenti per amor proprio aborrono da ogni guisa di cimento, hanno alzato un tribunale donde predicano il dispregio dei tempi che sono, e dispensano moto e norma ai bisogni delle passioni vivissime presenti, attingendo moto e norma dal deserto degli anni che sparvero, senza avvertire che l’uomo è pur sempre unico figlio dei suoi tempi, e nel vano del passato non si perdono età distinte solamente dalla durata, ma tutte portano impressa l’orma di novelle virtù, e di novelli delitti, – e le prime, e i secondi, non meno del Sole, hanno fin qui misurato l’estensione del tempo umano. E perchè i prudenti hanno scorto che nell’anima nostra ferve continua una inquietudine, e vi sta come la principale espressione della vita, per quietarla ci vanno rammentando le glorie antiche, così dicendo ai nipoti che si contentino di vivere oscuri, perchè gli avi vissero illustri. – Bella è la gloria degli avi, e soave di conforto e di onore a cui le risponda cogli atti, ma non è retaggio, e sta nei secoli monumento solitario, che rappresenta eterna la vece del mortale che l’ha creata. Ma quanto costoro danneggino la sacra impresa di migliorare la specie, i discreti sel veggano, considerando gli uomini disposti naturalmente a giacersi, e a maledire sovente la mano che tenta di sollevarli, – se narrano il vero, che Socrate conseguisse il rimerito della cicuta, perchè osava trasfondere nei suoi concittadini la bellezza e l’amore della virtù, – e l’ardimento di Bacone, che imponeva la vita al pensiere per tanto corso di tempo assopito, fosse dai suoi contemporanei scambiato colla pazzia. E quei divini morivano senza una parola di rampogna consolandosi delle glorie future, perchè l’alto spirito, sorpassando il volo del tempo, fa sorgersi innanzi le generazioni increate. Ma in ogni petto non muovesi un cuore più che mortale per operare il bene senza riguardo di premio presente, fidandosi alla giustizia dell’avvenire. Quanti Italiani, sfiduciati dal sofisma degl’invidiosi, e dalla timidezza propria agli animi nostri, se manchi a suscitarli generosa una voce, percorrono l’esistenza chiusi nell’abbandono della viltà, persuasi che il nostro terreno sia rimasto sfruttato dal lungo numero delle anime grandi, e dalle sventure? Ma il lungo numero delle anime grandi ha da reputarsi piuttosto singolare felicità di cielo, che giusta ragione perchè debbano a un tratto cessare. L’argomento in qualche maniera terrebbe, laddove fosse proposito sempre delle medesime teste. Ma questo non consentì la Natura, che alternò con mirabile armonia la vita e la morte nelle sue creazioni, e in forza di questa vicenda stabilì la infinita varietà delle forme, la eternità delle sostanze, nè mostra di volere per lunghezza di tempo invecchiare, o per l’atto incessante del produrre esaurirsi, a meno che prima non si annientino le leggi per le quali ella è costante: e gli umani, soggetti allo stesso governo, via via cadono e sorgono in modo, che ad ogni breve misura di anni potresti dire che il mondo del pensiere rinasce vigoroso, e lieto dell’ardimento che infonde la giovinezza. Chi non sente che gl’Italiani non hanno peranche placata l’ira della Fortuna, quantunque le abbiano offerto in sacrificio secoli consumati nel pianto? Ma sapete voi, se a portare l’ale dell’ingegno valgano più le triste o le liete venture? I tempi tramandano infelici le memorie del Grande costretto a combattere l’odio, che vive immortale tra due nature contrarie; e se questa ineguaglianza generatrice di tanta discordia sia giustizia, o viceversa, non è l’ora da poterlo vedere: ma quando anche il Grande ebbe pace con gli uomini, la guerra gli venne dal sentimento d’una misteriosa afflizione, che gli gemeva eterna nel cuore. Dante cantava la novella poesia negli affanni dell’esilio, Ossian nell’amarezza della caduta potenza, il Byron nell’arcano d’una mestizia onde furon sempre velati i suoi giorni mortali. – Poichè la mente creatrice del bello e dell’immenso va sciolta di vincoli, la plebe umana non giunse a scoprire giammai la segreta potenza che animava alla vita quei canti, e li vide lontani come il raggio del Sole; ma come il raggio del Sole illumina e scalda le creazioni sottoposte, così que’ canti, derivati dalle più ascose viscere del dolore, spirano all’anima un suono d’affetti onnipotenti, e tutta l’anima risponde a quel suono, mercè di colui che formando la nostra natura chiamò l’infortunio a costituirne la massima parte, e mandò la felicità così di rado e veloce a trasvolare la terra, che appena è concesso di vederne il baleno. Ma la sventura mantiene irritando l’ingegno, e i concetti dell’uomo sgorgano originali e profondi di altissimi sensi, perchè da lei muove una forza, che lo stringe a vivere nel suo pensiere, mentre dubitano molti che quel modo di esistere da noi chiamato felice non sia piuttosto conseguenza delle nostre facoltà intorpidite, nè più atte a ricevere in piena luce, ma per barlume, le sensazioni; e l’hanno veduto grave di fastidiose passioni, e sovente affratellato coll’ignoranza, e dicono che spunti l’acume del desiderio; e mancanza di desiderio accenna anima prostrata, e di volgo. – Oh perchè non ho io un altro mondo da conquistare! – sospirava Alessandro. E dove si ponga mente ai conforti di coloro che bramano la nostra bassezza, quanta differenza trovate voi tra gli uomini e i bruti. – Appena la nuda favella: e niuno consente che articolare soltanto la parola sia valevole differenza, se i concetti significati coll’opere non provino l’esistenza dell’interno pensiere. Nè la facoltà del pensiere ci fu data per nulla. – Se l’uomo fosse destinato solamente a nascere, cibarsi e morire, la Natura non ci avrebbe fatto quel dono, tristo o buono che sia, perchè hanno sperimentato la Natura non averci mai conceduto potenza, senza farci sentire la necessità dell’ufficio cui la destinava. E potremmo noi vegetare in quello stagno di vita, noi, cui non si offre immagine di quiete meno la morte? Potremmo noi distruggere l’atto di quelle poche anime immense, che afferrando il secolo in che son nate gli aggiungono il proprio moto, e il secolo concitato si affretta precipitando al suo fine? Rinnegheremo noi le passioni, che pur sempre ci agitano irrequiete al bene ed al male? Dove è la forza che valga a tanto? In Dio solo, perchè sono opera sua, e le ha poste nel cuore dell’uomo, cui vivono eterne, indivisibili, compagne della vita, e muoiono con esso. –
Poichè le passioni si spengono nell’ultimo sospiro, e queste, pur sempre agitandoci, al bene e al male ci spingono, ufficio degno d’un pensiere divino è quello di frenarle, e di escludere, per quanto è dato, la vicenda del male. L’argomento della ragione, e l’esperienza del passato, dimostrano unico mezzo a tanto conseguimento l’educazione; la quale, facendo conto delle passioni come della parte più viva dell’uomo, e capace di qualunque impressione, ne trarrà l’effetto migliore, o il men tristo, col dirizzarle, per quanto è possibile, a segno lodevole. E se molta parte di amore alla patria è dire il vero quando le giova, (e a dirlo ci vuole più grande animo che a sentirlo,) così chiunque abbia fiato di senno e di pudore confesserà primo bisogno dell’Italia nostra l’educazione, e vergognerà palpare l’ignoranza dei suoi, lo sconforto degl’invidiosi, e farà voti, e darà opera, perchè al male venga posto efficace e pronto il rimedio. – A questo fine verranno, laddove cospirino santità d’intenzione, e vicendevole aiuto di liberali ingegni, e sarà bella di bellezza italiana l’impresa di riedificare la mente colle ingenue dottrine della sapienza. – E perchè manifesto indizio di amore alla patria è il non disperare di lei nell’ora che gli avversi eventi la premono, così negli animi intemerati e gentili vive una forza che gli conduce a sperare. – Certamente gemono delle sue poco liete vicende, chè andrebbero beati a vederla fiorente per belle discipline, e ornata di cortese costume, e gloriosa; ma nel gemito vive una forza che li conduce a sperare. Indarno si affannano i prudenti a gridarci che la speranza schiviamo, essendo tale un inganno che accompagna l’uomo da mattina a sera; a noi ricorre eterno il bisogno di quell’affezione, onde si allegrino almeno d’un fiore le spine della vita, e il pensiere dell’illuso mortale ponga un sorriso ov’è pianto perpetuo. Ben è vero che ne’ pochi giorni del nostro pellegrinaggio, aspirando noi nel fuoco del desiderio a uno stato felice, ci balenano all’anima mille illusioni di aspetto vaghissime, ma fugaci come il momento che le ha create; tuttavia nel cammino della vita stanno alcune speranze, che non sono al tutto illusioni, e rispondono al cuore, e alla mente, e lasciano in ambedue la traccia di un conforto che dura, e, dove le governi la sapienza, si convertono spesso in certezza. E porge speranza di sì fatta natura il giovanetto crescente negli anni. A questo bel fiore il cielo arride benigno, e lo chiama alla vita; se non che sventuratamente un verme lo rode, onde egli appassisce e muore sul cominciare del brevissimo giorno, che i fati gli concessero. Da cui muove la colpa, che la pianta non germogli e non cresca felice? La colpa è del nostro volere, perchè nell’educarla ci siamo sviati da quella traccia costante, che i fatti segnarono nelle vie del tempo. Leggete i documenti del tempo: chiudono una sapienza quasi infallibile, e a cui ben guarda il passato ministra le misure del presente. Le storie che raccontano la vita dei popoli non dimostrano fondamento di ogni bene ordinata società la pubblica e liberale educazione delle tenere menti? E narrano, che il giovane sorgesse prode nelle battaglie, savio nel consiglio, e onesto nella vita civile, e consolasse di onore e di gaudio l’ultima età dei padri cadenti. Ma le storie descrivendo le forme degl’istituti, pe’ quali un popolo saliva in potenza, e in perfezione di civiltà, tra queste non annoverano mai – nè gramatiche, che consumano gli anni e i volumi a farti povero del primitivo ingegno, e cattabrighe, e per un fuscello d’alfabeto bestemmiatore della grandezza del Genio; – nè rettoriche, che gl’indefiniti movimenti dell’anima confinano in certe regole, le quali ti prescrivono di lavorare gli affetti come un fuoco d’artifizio, e soffocano in te quell’intimo senso di natura, che ritrae le immagini vergini e schiette come le cose, onde più non ti splende il vero, e il sentimento e l’intelletto pervertito piegano dinnanzi al simulacro di vane e codarde passioni; – nè mitologie, che una volta vissero colle nazioni; poi con esse giacquero spente e oggimai, coperte dalle tenebre di un tempo troppo lontano dalla memoria, affaticano senza frutto la mente, o non le presentano, che nudi fantasmi degli umani vaneggiamenti; – nè filosofie, che si smarriscono per entro ad infinite ricerche, e di rado trovano il vero, e più di sovente un nuovo lato dell’incertezza, per lo che fanno temere che alla mente non sia concesso nemmeno il riposo d’un delirio solo, ma che un destino la danni ad avvolgersi del continuo per l’errore, o a cedere alle larve del dubbio, che di tutti i dolori è il soverchio, perchè, avendo varietà di moti e di forme infinita, non subisce le leggi dell’abitudine, e dura perenne; – nè gente che fa professione di spegnere quel raggio d’intelligenza, che tutti più o meno dalla Natura sortimmo, e cava il fumo dalla luce, come disse argutamente un antico, e si arroga un nome venerato, e lo porta in pace. Chi ha tracciato l’orme della caduta di un popolo ha veduto la corruttela dei costumi, e l’annientarsi della potenza, andar di pari colle scuole dei retori e dei sofisti; chi ne ha seguito il volo nella grandezza ha veduto da più alte sorgenti derivarsi il pubblico bene, poichè in quella rara felicità di tempi le cattedre e le accademie non dettavano servitù di sistemi, imponendo allo spirito umano di vestire una forma sola e costretta, nè più muovere un passo; ma il savio, studiando i bisogni e l’indole del proprio secolo, a quelle norme conformava le patrie istituzioni. E l’Amore e la Sapienza guidavano la mente giovanile su l’universo, e quella ne ritornava assuefatta a vedere le cose di per sè stessa, e come sono, già come vogliono i libri, o i parziali interessi di chi ti ammaestra, e secondo la varietà delle tempre avvenire, che variamente giovassero allo stato sociale, perchè ognuno interrogando il suo genio a quello sacrificava. E l’Amore e la Sapienza, dandosi mano scambievole, imprimevano nei giovanetti l’esempio degli aurei costumi, e il moto delle larghe passioni, tra le quali sorvolava l’affezione del luogo, ove apersero gli occhi alla vita. Quindi vedevansi miracoli non d’individui, ma di nazioni intere, e i Romani educati nella spada e nell’amore della patria vincevano il mondo. –
Il sacro ufficio di separare il pensiere dalla polvere spetta a poche anime elette, incontaminate, che lo spirito di Dio volle suscitare per ammenda all’umana creazione. E le poche anime elette parlino ai giovani, e facciano loro sentire la virtù come bellezza e necessità dell’anima nostra, e gli spingano al desiderio di vivere oltre la morte; parlino ai giovani, ed essi risponderanno co’ palpiti di un cuore caldissimo di vita e d’inquiete passioni, germi di gloria, o d’infamia, secondo il segno a che miri; e dieno meta lodevole all’inquiete passioni, concitando il fremito delle antiche memorie, non perchè dormano sulle lusinghe dell’ozio e dell’inganno, ma perchè ne traggano affetto d’onore, incitamento alle opere magnanime, e gara di vincere il grido dei tempi trascorsi. E noi liberali esercitando la mente, più non sarà che lo straniero peregrinando le belle contrade prorompa all’oltraggio, vedendo il pensiere indipendente da qualunque vicenda, e a buon diritto, chè forza alcuna nol può sottomettere, meno la nequizia del proprio volere. E noi liberali esercitando la mente, adonterà lo straniero di ridere su le miserie dei prostrati che gemono: poichè se l’un popolo sale, e l’altro discende, non sappiamo noi se debbasi riputare in tutto opera umana, o legge che si diparte dall’ordine di questo universo, o cieco moto di Fortuna; e, posto ancora che l’uomo sia nato alla guerra e alla morte dell’uomo, cessi l’insulto, e pianga invece questa necessità di guerra fraterna, da che alle immense sciagure non possiamo dare che il pianto; e tremando aspetti lo alternare delle sorti, da che non è stata nazione, per quanto si voglia potente, che nella sua giornata di secoli non abbia segnato l’occaso. E lo straniero peregrinando le belle contrade levi la fronte, e ammiri splendido pur sempre di bellezza immortale questo cielo italiano, dove un giorno nell’infanzia delle moderne società spuntava il Sole della scienza a salutare del suo raggio l’Europa; levi il pensiere, e ammiri come gli abitatori della bella Penisola tra le ruine del tempo e degli uomini si resero degni pur sempre cogli atti dell’aere felice che spirano. – Niuno pronunzia il nome d’Italia, senza che non gli sorga dinnanzi l’immagine d’innumerevoli glorie, e la rimembranza che in lei non è spanna di terra dove non abbia calcato l’orma un eterno: ma noi finora non fummo Italiani che per legge di suolo; in questo suolo molte generazioni sorsero, stettero, e caddero, ma silenziose, perchè nude di liberali istituti non lasciavansi dietro grido di fama, o durata di monumento che le attestasse ai futuri. La terra sola, poichè serba le ossa dei trapassati, potrebbe dirci come qui sieno vissuti degli uomini.
O nostri concittadini, sosterrete voi dunque, che dispersa erri la parola di pochi animosi, senza che neppur le risponda la voce d’un eco? Forse la solitudine dell’anima è muta eternamente, come quella della morte? Imprendete a rigenerarvi; e state forti al sublime proposito, nè vi smuova l’invidia, o l’ambage della falsa ragione: – a voi basta il volere, e il volere è massimo elemento della potenza; – innalzate gli spiriti a più splendidi obbietti; – accogliete e nudrite nell’anima generose illusioni, – nè cercate spregiarle, estimando per questo di tenervi alla parte del vero: – forse tutta la vita non s’intesse che di codarde e di generose illusioni!