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IX.
- Pregiatissimo Signor A.***
È una storia lunga la storia dei miei occhi. Questi occhi stanno irremovibilmente ostinati nel male come se ci stessero bene, e non ho trovato mezzi, nè scongiuri da convertirli a vita migliore. È una storia lunga e bizzarra la storia dei miei occhi. Il male non percorre i suoi stadi regolarmente, come gli altri mali; non procede di grado in grado verso un esito qualunque, buono o cattivo; non si contenta neppure di restar sempre sur un piede; ma si muove a zig-zag in un giro capriccioso, contradittorio, in avanti, in addietro, di su, di giù, da manca, da destra. Oggi, per esempio, mi stanno male, – dimani tra il bene e il male, – dimani l’altro malissimo, – il giorno dipoi si piegano al meglio, – quell’altro giorno rincattiviscono, – il giorno seguente non manca che un soffio a guarire, e chi me li vedesse in quel punto giurerebbe, che fra un’ora sarò libero affatto; ma l’ora non è anche trascorsa, che il male fa un voltafaccia, e si rimette in corso passando per tutte le fasi descritte. Che ne pensa il Signor A.*** di questo labirinto inestricabile? Io davvero non so che pensarne; e se questo giuoco all’altalena me lo facesse il cervello, poco m’importerebbe, perchè avere un cervello fermo, o balzano, non guasta il galantuomo, e in fondo in fondo il cervello è una cosa di lusso, poichè si può fare il giro del mondo senza averne una dramma, e vi sono uomini che arrivano alla vecchiaia senza che abbia reso loro altro frutto, che il dolor di capo. Ma gli occhi! gli occhi sono una cosa seria, e quando io penso all’estreme conseguenze, alle quali si può giungere, mi viene un momento di freddo; e quando io mi rammento, che poco fa tra anima e corpo la parte migliore, ch’io mi avessi, era l’occhio, allora mormoro fra i denti, e guardo tutto a traverso, terra, e cielo. Ma qui, Signor A.***, ci deve essere un circolo magico, che impedisce al male di passare, e andarsene pei fatti suoi; qui ci dev’essere una fata, un folletto, un demonio, un non so che di maligno, e d’invisibile, che mi ha scelto per suo passatempo. Io pagherei uno dei miei occhi, oggi che vaglion sì poco, per sapere a qual misteriosa influenza essi obbediscono. E se la cosa è tale, che ci faremo, Signor A.***? Io in quanto a me non ho nulla a rimproverarmi. Osservo i precetti del Medico come tanti articoli di fede. Per tenere il sangue quieto, ho interdetto tutto, – il vino, la venere, le passeggiate, le passioni, i salumi. Ogni mattina bevo la mia tisana, e non serve; mangio lo zolfo, e non basta; ne ho raddoppiato e triplicato la dose, e non giova; mi son raccomandato a tre o quattro Santi di mia conoscenza, e non si è fatto nulla; ho comprato un paio di occhiali, e questi non portano ad altro, che a farmi vedere il mondo color delle viole, e a rendermi il viso più arabico di quello che me lo fece mia Madre.
Dunque, Signor A.***? Oh! davvero era tempo di venire al dunque. Dunque il Signor A.*** passerà quando vuole, e quando se ne ricorda, dal mio banco, a vedere questi poveri occhi così malamente perseguitati. L’intenzione era di scrivere due semplici righe d’invito, ma il caso ha messo insieme più di due pagine, colpa ancora in parte dell’invecchiare che io faccio, in parte della calma beatissima in cui si trova il commercio.
- 1834?
Suo Servo Carlo Bini.