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Tacito Martini
Necrologie Necrologie - Guglielmo Avenas

TACITO MARTINI


― 18391


A TACITO MARTINI

CHE MORÌ

LACRIMATO E BENEDETTO DA TUTTI

PERCHÈ VISSE

GIUSTO E BENEFICO CITTADINO

I SUOI AMICI.


Le coeur est tout.


Dopo avere confortata l’agonia dell’amico che muore, dopo averlo pianto, e accompagnato alla fossa, è conveniente dire alcune parole di lui, onde la ricordanza delle sue bontà giovi in qualche modo ai superstiti, o almeno sia soddisfatto un debito di giustizia verso l’estinto.

Nascere in alto, o in mezzo agli agi della fortuna, è un getto di dadi, e non dipende da noi. Ma rilevarsi dal fondo, e collocarsi in un certo grado senza battere le scorciatoie, senza farsi scalino del prossimo per salire, acquistandosi invece la stima, e la benevolenza d’ognuno, è merito intrinseco e raro dell’uomo. Toccare però questo segno è arduo più, che altri non crede; bisogna prima lungamente combattere; bisogna esercitare, fortificare la volontà, metterla in armonia coi calcoli di una giusta ragione, coi moti generosi del cuore; bisogna spesso violare l’istinto, e ridurre l’uomo morale a sistema rigido e completo.

Tutto questo conviene per ogni verso a Tacito Martini. La sua vita è stata corta, e composta di poche linee, ma tutte linee rette, e convergenti ad un centro, tutte connesse ad un principio d’alta moralità, che diede forma e sostanza ad ogni sua azione.

Non appena fu entrato nell’adolescenza, quando il raziocinio e il sentimento svolgendosi più rapidi cominciano a ricevere più immediato l’attrito delle cose del mondo, che, giovanetto com’era, sentì d’intorno a sè l’aere meno che tepido; e convertendo subito l’animo suo alle sorti poco felici della famiglia, si destò in lui una certa alterezza, un certo sdegno dello stato abietto, e immeritato, un desiderio, un bisogno potentissimo di mutare il destino suo, e quello de’ suoi, e fermò nella mente il disegno di farlo, e lo fece, logorandovi tutte le sue potenze, e anticipandosi forse la morte. Avvertito però da un intimo senso, che l’uomo, segnatamente sui principii, non ha in chi fidare, e deve aiutarsi da sè, si volse a scoprire le forze, che in lui aveva riposte la natura, per eccitarle ed accrescerle, per dar loro forma, ed applicazione sociale, e farsene istrumento a ciò che meditava di conseguire.

In questo concetto agitandosi, e crescendo in lui più sempre l’impulso che lo inchinava alle scienze mediche, e soprattutto alla chirurgia, dispose secondarlo fermamente e con ogni mezzo, e non compiuti peranche i 13 anni prese a frequentare ogni giorno lo Spedale, dove cominciò le pratiche chirurgiche con tanta diligenza e amore dell’arte, che prima ancora di recarsi a Pisa si trovò in atto di fare operazioni più che mediocri.

A 18 anni si condusse in Pisa agli Studi, e là le dure esperienze della vita lo provarono in guisa, che valsero in breve a compiere e determinare immutabile la sua morale fisonomia. Visse i primi due anni con forse una Lira il giorno; e al terzo anno ottenuto un posto del Sardi, sgravò subito i suoi della tenue moneta che gli assegnavano, pensò a mantenersi in tutto e per tutto, a comprarsi libri, a supplire le spese degli esami, e d’ogni altro occorrevole; fece risparmi, e questi rimesse via via alla famiglia. – Ora chi si faccia a considerare come la gioventù penda naturalmente all’ozio, alle mollezze, e ai diporti; come in quell’età il sangue e le passioni fremano procellose, e come l’errore abbia prestigi, e seduzioni potenti più del dovere, bisognerà che ammiri per forza il giovane Tacito, se rimase sobrio, intemerato e studioso, in mezzo a tante e siffatte tentazioni. E quando si consideri che l’alito impuro del bisogno non l’attinse nelle parti più nobili dell’anima, e che il cuore serbò fresco e generoso fino all’estremo palpito, comprenderemo di che salda tempra fosse composta l’indole sua. Perchè il bisogno è nemico capitale dei buoni pensieri, e delle buone opere, e patito nei primordi della vita generalmente squaglia il carattere umano, o lo petrifica.

Se noi volessimo spiegare intera la breve, ma ricca trama dell’esistenza di Tacito, ci sarebbe agevole percorrere per esteso le dimensioni d’un elogio, o d’una biografia; ma favellando di lui fu nostro proposito, e ci sembrò che bastasse, accennare soltanto, come egli fosse buono ed utile cittadino per virtù propria, e come il mezzo e il fine corrispondessero perfettamente al principio da lui stabilito nelle più difficili condizioni; per la qual cosa aggiungeremo più pochi tratti, parendoci, che il dilungarci troppo di soverchio avrebbe aria di fasto, e offenderebbe di certo quello spirito gentile, che gelosamente studiò di coprire col silenzio quanto di lodevole usciva da lui.

Conseguite il Martini nell’epoche consuete la laurea, e la matricola in Medicina e in Chirurgia, tornò in patria, e subito diede opera a farsi conoscere. E tanto gli valsero lo studio indefesso, i modi schietti e soavi, e l’onesto desiderio, che l’agitava ardentissimo, che di lì a poco acquistò credito, fiducia, e favore universale. Venne in séguito creato Chirurgo dei Lazzeretti, e primo Chirurgo di turno negli Spedali; ebbe clientela vastissima d’ogni maniera di persone, e i guadagni gli crebbero fra mano, maggiori forse che non aveva sperato. Quindi potè ristorare la fortuna abbattuta della famiglia, quindi potè scorrere a suo talento quella larga vena di carità, che i cieli gli avevano infusa nel cuore.

Praticò l’arte con plauso, e con decoro, e segnatamente in Chirurgia ebbe lode frequente di operatore felice. Ma il medico in lui non aveva cancellato l’uomo; l’abitudine di veder soffrire e morire non aveva spenta in lui la mobilissima sensibilità di una natura squisitamente pietosa. Al letto dell’infermo era medico, ed uomo; finchè occorreva, apprestava alacremente i soccorsi dell’arte; ma quando la Scienza si fermava impotente davanti alla furia del male, che precipitava al suo fine, Tacito adoprava i soccorsi della parola e dello spirito, circondava di cure delicate e di sante consolazioni il malato, l’animava, l’aiutava al terribile varco. Ufficio sacro e gravissimo del medico è questo, porgere all’estrema miseria l’unico rimedio che resta, il conforto.

Non fu nè avido, nè avaro; eccedeva invece nelle qualità contrarie. Chiamato appena, visitava prontissimo il povero, con amore lo curava, lo sovveniva di consiglio, e, meglio ancora, gli lasciava la moneta perchè supplisse al bisogno. Dagli amici non voleva mercede delle sue fatiche, ed ostinatamente rifiutò il legato d’un piano di casa, che un suo cliente presso al morire voleva ad ogni patto lasciargli.

Ma le opere di beneficenza furono la sua voluttà suprema, il respiro dell’anima sua. Beneficò nobilmente e senza ambizione, con quel pudore, che impedisce o medica l’offesa, che suole spesso recare il benefizio. Aperse al profugo la casa, all’indigente la borsa, e dava volontieri, senza farsi ripetere la richiesta. Giovava con ogni sorta d’uffici l’amico, e chiunque potendo. Assisteva molti dei suoi parenti largamente, continuamente; e mortagli una sorella, accoglieva nella propria famiglia il marito, e cinque figliuoli. Per uno di questi spendeva 80 Lire il mese solo a farlo educare. Senza essersi creato una famiglia sua propria, aveva viscere e istinto di padre.

Nè gli mancarono i disinganni, come avviene a chi vive praticamente tra gli uomini; ma intento sempre ad un segno non torse mai un momento dalla traccia segnata ab antico; la fede non gli venne mai meno, perchè sapeva distinguere tra l’umanità, e l’individuo, tra il principio eterno universale, e il fatto transitorio e parziale.

Amò gli uomini, e la Patria Italiana, e fu caldissimo di quanto riferivasi all’onore e alla gloria di lei. Amò singolarmente la città dove nacque, e non sorse in essa uomo che promettesse bene di sè, cui non cercasse diventare amico, cui non cercasse all’uopo giovare coi mezzi suoi, e con quelli d’altrui, adoperando quella felice influenza che sapeva esercitare sugli animi. Partecipò agli istituti, a tutte le cose utili ed onorevoli, che nacquero tra noi, e non fu per lui se maggiormente non prosperarono.

Fu in quanto a sè modestissimo, e quando faceva il bene non voleva lode, o ringraziamento. Gli piaceva esser buono, le apparenze fastidiva. Ebbe coraggio, e indipendenza d’opinione, qualità, che non gli fecero nemici, perchè sapevasi valere in lui l’amore sincero della verità, non i secondi fini. Rigidissimo nei principi cardinali sui quali posa veramente la morale, fu tollerante, e facile nel resto. Modi ebbe aperti e soavi, onesta ilarità di volto e di spirito, e dal complesso della sua persona partivano getti di vivissima simpatia. Non patì d’invidia, o d’ipocrisia, nè gli furono notati vizi, o difetti capitali. Difetti avrà avuto senz’altro, perchè il carattere umano consiste d’ombre e di lumi, ma leggerissimi, ma tali, che nel consorzio sociale non apparivano infesti, e male di certo non ne venne a nessuno. Fatto è che morì lodato dai buoni, e lodato dai cattivi, e i morti come sapete non si adulano, specialmente quando non si lasciano dietro lo splendore della gloria, o la famiglia potente. Ma questo è pregio veramente mirabile della bontà, svellere il plauso anche dalla bocca dei tristi.

E la bontà di Tacito faceva forza nella mente di chiunque la contemplava. Non era quella bontà facile, passiva, o volgare, che invade i confini della stupidezza, – più che altro necessità di organismo. Era la bontà intelligente e operosa, la bontà del libero arbitrio, perchè Tacito aveva anima, passioni, ed energia di temperamento, aveva strumenti da volgere al bene, o al male volendo.

La malattia, che da ultimo lo spense, gli si ordiva da gran tempo lentissima nelle viscere. E quando i sintomi di quella si rivelarono insistenti, e innegabili, non si trattenne in vane lusinghe, misurò la grandezza del pericolo, comprese che i suoi giorni erano numerati, e lo disse imperterrito a tutti, e a sè stesso. Accettò il calice amaro della passione, e lo bevve pacatamente fino all’ultima stilla, raccogliendo l’animo invece, e facendolo più grande alla minacciante sciagura. E consecrandosi più che mai a quell’idea che l’aveva sempre predominato, non ricusò fatica nè occasione, andava fuori visibilmente malato, non curava riposo, non cercava aggiungere un filo alla trama della sua povera esistenza; una furia, un impeto lo portava; faceva sforzi che mal si potrebbero spiegare, dove non sapessimo che la volontà umana eccitata da un alto proponimento può far miracoli. Ma se lo spirito era pronto, la carne era inferma; e le forze più e più sempre prostrandosi gli convenne in fine mettersi a letto, e morire.

Gli ultimi giorni di Tacito furono solenni, e quieti della pace del giusto. Disposte con senno ed equità le cose sue, aspettava placidamente la morte e l’invocava talvolta più che altro per togliere alla famiglia desolata uno spettacolo d’immenso dolore. Era, come da sano, affabile e cortese con gli amici, che lo circondavano numerosi; era provido, discreto, e amoroso co’ suoi, che gli trepidarono attorno; dissimulava gli spasimi atrocissimi, e ratteneva lo sfogo della soffrente natura, perchè non si attristassero maggiormente. Cosa mesta e dignitosa era a vederlo così morire senza orgoglio, e senza viltà. Non si smentì un istante, parlò sempre parole gravi e affettuose, riconciliò antichi dissapori, pensò a tutto, e a tutti; – in quegli estremi la sua anima fiammeggiava più lucida che mai. E poichè l’ostinata agonia pervenne al suo termine fatale, morì virilmente rassegnato, sicuro della sua buona coscienza, affidato d’una speranza immortale.

Così fu conchiusa troppo per tempo una vita utile ed onorata. Povero Tacito! quando noi rammentiamo la tua presenza, e il tuo spirito cortese, e vediamo il rammarico, che lasciasti di te universale, e pensiamo all’angoscia ineffabile della madre tua destinata di 72 anni a sotterrare il figlio a lei più diletto, una profonda pietà ci stringe del caso miserevole; ma se pensiamo poi alle ambagi tormentose del secolo, e alle illusioni che di giorno in giorno spariscono, e alle cure che più e più sempre si addensano, e alla vecchiezza, che si avanza fredda, squallida, e inutile, noi non osiamo più mormorare, se a Dio piacque recidere il fiore prima che appassisse. Riposa in pace. A quest’ora nessuno saprebbe dove venire a piangere sulle tue ceneri, perchè tu non volesti distinzione di sepoltura, e le tue ossa giacciono nel Camposanto comune, confuse con quelle del popolo dal quale nascesti. La fama non farà suonare il tuo nome, perchè il mondo non ha storia per le virtù tranquille e innocenti del cittadino da bene. Ma se la tua vita di continuo sacrifizio fu semplice, e inavvertita quasi agli occhi del mondo, speriamo sarà comparsa splendida e meritoria agli occhi dell’Eterno. E quanti schiettamente ti amarono, e ti ebbero in pregio, daranno a te sovente un pensiero e una lacrima, e ridiranno ai figli come vivesti, e come moristi, e la tua memoria resterà, giova crederlo, santa ed onorata tradizione domestica.

  1. [p. 199 modifica]Livorno, Tipografia Sardi, 1839. Seconda edizione, – nella Viola del Pensiero, Anno II.

Note

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