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XVII
per lo medesimo.
Se dell’Indegno acquisto
Sorrise d'Oriente il popol crudo,
E ’l buon gregge di Cristo
Giacque di speme e di valore Ignudo;
Ecco che per la ria superbia doma
Rasserenati la fronte Italia, e Roma.
Se alzar gli empj Giganti
Un tempo al Ciel l'altere corna, al fine
Di folgori sonanti
Giacquer trofeo tra incendj o tra ruine;
E cadde fulminata empia Babelle
Allor che più vicin mirò le stelle.
Sembrava al vasto Regno
Termine angusto ornai l'Istro, e l'arene;
Nuovo Titano a sdegno
Già recarsi parca palme terrene:
Posto in obblio, qual disdegnoso il Cielo
Serbi all’alte vendette orribil telo.
Spiega di penna d’oro
Melpomene cortese ala veloce;
E in suon lieto e canoro
Per l'Italiche ville alza la voce;
Risvegli ornai negli agghiacciati cori
Il nobil canto tuo guerrieri ardori.
Alza l'umido ciglio,
Alma Esperia, d’Eroi madre feconda,
Di Cosmo armato il figlio
Mira dell'Istro in sulla gelid’onda.
Qual ne’ Regni dell’acque immenso scoglio
Farsi scudo al furor del Tracio orgoglio.
Per rio successo avverso
In magnanimo cor Virtù non langue.
Ma quel di sangue asperso
Doppia testa e furor terribil angne,
O qual della gran madre il figlio altero,
Scorge cadendo ognor più invitto e fero.
D’immortal fiamma ardente
Fucina è su, su i luminosi campi,
Ch'alto sonar si sente,
Con paventoso suoli fra nubi, o lampi,
Qualor da' bassi Regni aura v’accendo
Di mortal fasto, e l’ire e i toschi ascende.
Su l’incudi immortali
Tempran l'armi al gran Dio Steropi e Bronti
Ivi gli accesi strali
Prende, e fulmina poi giganti e monti;
Ivi nell'ire ancor, nè certo invano
S’arma del mio Signor l’invitta mano.
Quinci per terra sparse
Vide Strigonia le supèrbe mura,
Quinci ei nell’arme apparse
Qual funesto balen fra nube oscura,
Ch’alluma il mondo, indi saetta e solve
Ogni pianta, ogni torre in fumo e in polve.
O qual ne' cori infidi
Sorse terror quel fortunato giorno!
I paventosi stridi
Bizanzio udì, non pur le valli intorno,
E fin nell’alta reggia al suo gran nome
Del gran Tiranno inorridir le chiome.
Segui; a mortai spavento
Lungi non fu giammai ruiua in danno;
Io di nobil concento
Addolcirò de' bei sudor l'affanno,
Io della palma tua con le sacr’onde
Cultor canoro eternerò lo fronde.