< Senilità
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XI XIII


XII.

Era già entrato in casa, e nel tinello, col cappello in mano, stava titubante, dubbioso se sfuggire alla noia di rimanere un’ora a faccia a faccia con la muta sorella. In quella sentì dalla stanza di Amalia il suono di due o tre parole confuse, poi una frase intera: — Via di qua, brutta bestiaccia. — Trasalì! La voce era alteratissima dalla fatica o dall’emozione, tale che somigliava a quella della sorella soltanto come un urlo uscito involontariamente dalla gola può somigliare alla voce modulata di chi dice. Ella ora dormiva e sognava di giorno?

Aperse la porta evitando di far rumore e gli si presentò agli occhi uno spettacolo del cui ricordo non seppe mai più liberarsi. Durante tutta la sua vita bastò che i suoi sensi fossero colpiti dall’uno o dall’altro dei particolari di quella scena, per ricordarla immediatamente tutta, per fargliene sentire lo spavento, l’orrore. Alcuni villici passavano cantando per una via vicina e il loro canto monotono chiamò poi sempre le lagrime agli occhi d’Emilio. Tutti i suoni che gli giungevano erano monotoni, senza calore e senza senso. In un appartamento vicino, un dilettante maldestro stonava sul pianoforte un valzer volgare. Quel valzer sonato così — e lo riudì spesso — gli parve una marcia funebre. Anche l’ora, lieta, divenne triste per lui. Il meriggio era trascorso da poco e dalle finestre di faccia veniva riflesso nella stanza solitaria tanto sole da abbacinare. Eppure il ricordo di quel momento andò sempre congiunto ad una sensazione di oscurità e di freddo raccapricciante.

Le vesti di Amalia giacevano sparse al suolo ed una gonna aveva impedito alla porta d’aprirsi tutta; alcuni panni giacevano sotto il letto, la camicetta era chiusa fra le due vetriate della finestra e i due stivali, con evidente accuratezza, erano posti proprio nel centro del tavolo.

Amalia seduta sulla sponda del letto, coperta della sola corta camicia, non s’era avvista della venuta del fratello e continuava a fregare con le mani le gambe sottili come fuscelli. Dinanzi a quella nudità Emilio ebbe la sorpresa ed il fastidio di trovarla somigliante a quella di un ragazzo malnutrito.

Non comprese subito di trovarsi dinanzi ad una delirante. Non s’accorse dell’affanno; attribuì la respirazione romorosa e congiunta a tanta fatica da moverle persino i fianchi, alla posizione affaticante. Il primo suo sentimento fu d’ira: lasciato libero da Angiolina, trovava pronta quell’altra per dargli noie e dolori. — Amalia! Che fai? — le chiese rimproverando.

Ella non lo udì mentre doveva percepire i suoni del valzer, perchè ne segnava il ritmo nel lavorìo a cui era intenta sulla propria gamba.

— Amalia! — ripetè egli debolmente, sbigottito dall’evidenza di quel delirio. Le toccò con la mano la spalla. Allora ella si volse. Da prima guardò la mano di cui aveva sentito il contatto, poi lui in faccia; nell’occhio ravvivato dalla febbre null’altro che lo sforzo di vedere, le guance infiammate, le labbra violacee, asciutte, informi come una ferita vecchia che non sa più rimarginare. Poi l’occhio corse alla finestra inondata di sole e subito, forse ferito da tanta luce, ritornò alle gambe nude ove si fermò con attenta curiosità.

— Oh, Amalia! — gridò egli lasciando che il suo spavento si manifestasse in quel grido, che forse avrebbe potuto richiamarla in sè. L’uomo debole teme il delirio e la pazzia come malattie contagiose; il ribrezzo che ne provò Emilio fu tale che gli toccò di farsi forza per non abbandonare quella stanza. Vincendo la propria violenta ripulsione, toccò di nuovo la spalla della sorella: — Amalia! Amalia! — gridò. Chiamava aiuto.

Si sentì un po’ sollevato, accorgendosi ch’ella lo aveva udito. Lo aveva guardato una seconda volta, pensierosa, come se avesse cercato di comprendere la ragione di quei gridi e di quella replicata pressione sulla sua spalla. Si toccò il petto, come se in quell’istante si fosse accorta dell’affanno che la tormentava. Poi ridimenticò Emilio e l’affanno: — Oh, sempre bestie! — e la voce alterata pareva annunziasse prossimo il pianto. Stropicciò con ambe le mani le gambe; con brusco movimento si chinò come se avesse voluto sorprendere un animale pronto a fuggire. Si trovò nella destra un dito del proprio piede; lo coperse con la mano che poi sollevò chiusa come se avesse afferrato qualche cosa. Era vuota però ed ella la guardò più volte; poi ritornò al piede pronta a curvarsi di nuovo per ritornare a quella strana caccia.

Un nuovo brivido di freddo che la colse ricordò ad Emilio ch’egli doveva indurla a ripararsi nel letto. Vi si accinse con un fremito doloroso al pensiero di dover forse usare la forza. Gli riuscì invece facilissimo perchè ella obbedì alla prima pressione imperiosa della sua mano; portò senza pudore una gamba dopo l’altra sul letto e si lasciò ricoprire. Ma per un’inesplicabile esitazione si puntellò con un braccio sul letto quasi non volesse adagiarvisi tutta. Ben presto non potè resistere in quella posizione e s’abbandonò sul guanciale emettendo per la prima volta un suono intelligente di dolore: — Oh! Dio mio! Dio mio!

— Ma che cosa ti è accaduto? — domandò Emilio, che, per quel solo suono assennato, credette di poterle parlare come a persona che disponga dei suoi sensi.

Ella non rispose, di nuovo occupata ad indagare quello che la inquietava anche sotto alle coltri. Si rannicchiò tutta, portò le mani alle gambe, e parve che, per far riuscire il tranello che meditava contro le cose o gli animali che la torturavano, sapesse perfino rendere meno romoroso il respiro. Trasse poi a sè le mani che con una sorpresa incredula trovò di nuovo vuote. Per qualche tempo, di sotto alle coperte, le venne un’angoscia che le faceva dimenticare quell’altra tanto violenta dell’affanno.

— Stai meglio? — le chiese Emilio, pregando. Voleva consolarsi al suono della propria voce, che modulò dolcemente, cercando di dimenticare la minaccia di violenza che aveva pesato su di lui. Si piegò a lei per farsi intendere meglio.

Ella lo guardò lungamente esalandogli in faccia il soffio frequente e debole del suo respiro. Lo riconobbe. Il calore del letto doveva pur averle aperti i sensi. Per quanto poi ella delirasse, egli non dimenticò d’essere stato riconosciuto.

Evidentemente ella andava migliorando. — Adesso andiamo via da questa casa — ella aveva detto facendo comprendere ogni sillaba. Aveva stesa anche una gamba per uscire dal letto, ma, avendola egli trattenuta con troppa più violenza di quanta fosse occorsa, si rassegnò subito e dimenticò il proposito che l’aveva spinta a quell’atto.

Lo ripetè poco dopo, ma non più con la stessa energia, e pareva rammentasse che le fosse stato imposto di coricarsi e vietato di uscire dal letto. Parlava ora. Le pareva che avessero cambiato di casa e che ci fosse molto da fare, affannosamente da fare per mettere tante cose in ordine. — Dio mio! Tutto è sudicio qui. Io me n’ero accorta ma tu ci sei voluto venire. Ed ora? Non andiamo?

Egli cercò di calmarla secondandola. L’accarezzò, dicendole che non vedeva che tutto fosse tanto sudicio, e che ora che si trovavano in quella casa sarebbe stato meglio di rimanerci.

Amalia udì quello che egli disse ma udì anche delle parole ch’egli non aveva dette; poi disse: — Se tu vuoi, io devo far così. Restiamo, ma... tanto sudiciume... — Le colarono due sole lagrime dagli occhi fino allora asciutti; rotolarono come due perle sulle guance infocate.

Poco dopo dimenticò quel dolore ma il delirio glie ne creò di nuovi. Era stata in pescheria e non vi aveva trovato pesce: — Non capisco! Perchè tengono la pescheria se non ci hanno del pesce? Fanno camminare tanto, tanto, con questo freddo. L’avevano spedito via tutto e non c’era più del pesce per loro. Tutto quel dolore e l’affanno parevano provocati da tale fatto. Le sue parole fievoli e rese ritmiche dall’affanno erano sempre interrotte da qualche suono d’angoscia.

Egli non l’ascoltava più: bisognava uscire in qualche modo da quella situazione, bisognava trovare la maniera di chiamare un medico, Tutte le idee suggeritegli dalla disperazione furono da lui esaminate come se fosse stato possibile di metterle in atto. Guardò intorno a sè per trovare una corda onde legare l’ammalata al letto e poter lasciarla sola; fece un passo verso la finestra, per chiamare di là al soccorso, e infine, dimenticando che non era possibile di farsi comprendere da Amalia, si mise a parlarle per ottenerne la promessa che sarebbe stata tranquilla durante la sua assenza. Premendole dolcemente le coperte sulle spalle per significarle che doveva rimanere coricata, le disse: — Starai così, Amalia? Me lo prometti?

Ella oramai parlava di vestiti. Ne avevano per un anno e perciò non c’era da far spese per un anno intero. — Non siamo ricchi ma abbiamo tutto, tutto. — La signora Birlini però poteva guardarli dall’alto in basso perchè aveva di più. Ma Amalia era contenta che quella signora ne avesse di più, perchè le voleva bene. Il balbettìo continuava puerile e buono ed era straziante di udirla dichiararsi tanto lieta in mezzo a tante sofferenze.

Urgeva di prendere una risoluzione. Il delirio di Amalia non le aveva dato nè un gesto nè una parola violenta e, toltosi allo stupore da cui era stato colto sin dal momento in cui l’aveva trovata in quello stato, Emilio uscì dalla stanza e corse alla porta di casa. Avrebbe chiamato il portinaio, poi sarebbe corso da un dottore oppure dal Balli a prendere consiglio. Non sapeva ancora quello che avrebbe fatto, ma bisognava correre per salvare quella disgraziata. Oh, quale dolore ricordarne la compassionevole nudità!

Sul pianerottolo si fermò esitante. Sarebbe voluto ritornare ad Amalia per vedere se ella non avesse approfittato della sua assenza per commettere qualche atto da delirante. Si poggiò col petto sulla ringhiera per vedere se qualcuno salisse. Si curvò per vedere più lontano e per un istante, un attimo, il suo pensiero si pervertì; dimenticò la sorella che, forse, agonizzava lì accanto, e ricordò che, proprio in quella posizione, egli usava aspettare Angiolina. Questo pensiero in quel breve istante fu tanto potente che egli, sforzandosi di veder lontano, cercò di vedere, anzichè il soccorso invocato, la figura colorita dell’amante. Si rizzò nauseato.

Una porta al piano superiore s’aperse e si richiuse. Qualcuno — il soccorso — scendeva a lui. Egli salì d’un solo slancio una rampa e si trovò di fronte ad un’alta e forte figura femminile. Alta e forte e bruna; altro non vide, ma trovò subito le parole opportune: — Oh, signora! — pregò. — M’aiuti! Io farei per qualunque mio simile quello che domando a lei.

— Ella è il signor Brentani? — domandò con voce dolce e la bruna figura che veramente aveva fatto già atto di fuggire si fermò.

Egli raccontò che ritornato a casa poco prima, aveva trovato la sorella in preda a un delirio tale che non osava di lasciarla sola come avrebbe dovuto per chiamare un medico.

La signora discese: — La signorina Amalia? Poverina! Vengo con lei, subito, ben volentieri. — Ella era vestita a lutto. Emilio pensò ch’ella dovesse essere religiosa e, dopo una lieve esitazione, disse: — Dio ne la rimeriti.

La signora lo seguì nella stanza d’Amalia. Emilio fece quei pochi passi con un’angoscia indicibile. Chissà quale nuovo spettacolo lo attendeva. Nella stanza vicina non si sentiva alcun rumore, mentre a lui era sembrato che il respiro d’Amalia dovesse essere udito in tutta la casa.

La trovò voltata contro il muro. Parlava ora di un incendio; vedeva fiamme che non potevano farle altro male che mandarle un calore terribile. Egli si chinò a lei e per richiamare la sua attenzione la baciò sulle gote infiammate. Quando ella si volse a lui, egli volle assistere, prima d’andarsene, all’impressione che avrebbe fatto sulla fanciulla la vista della compagna che le lasciava. Amalia guardò la nuova venuta per un solo istante, con piena indifferenza.

— Io gliel’affido — disse Emilio alla signora. Poteva farlo. La signora aveva una faccia dolce di madre; i suoi piccoli occhi si posavano su Amalia pieni di pietà. — La signorina mi conosce — disse ella e sedette accanto al letto. — Sono Elena Chierici e sto qui al terzo piano. Ricorda quel giorno in cui ella mi prestò il termometro per misurare la febbre a mio figlio?

Amalia la guardò: — Sì, ma brucia e brucerà sempre.

— Non brucerà sempre — disse la signora Elena chinandosi a lei con un buon sorriso d’incoraggiamento e gli occhi umidi dalla compassione. Pregò Emilio di darle, prima di uscire, una boccia d’acqua e un bicchiere. Per Emilio fu un affar serio trovare quelle cose in una casa ch’egli aveva abitata con l’incuria di chi sta in un albergo.

Non subito Amalia comprese che in quel bicchiere le era offerto un refrigerio; poi bevve a piccoli sorsi, avidamente. Quando si lasciò ricadere sul guanciale trovò un nuovo sollievo: il morbido braccio di Elena vi si era steso e la sua testina riposava ora sorretta con pietà. Un’onda di riconoscenza gonfiò il petto ad Emilio e, prima d’uscire, egli la tradusse in una stretta di mano ad Elena.

Corse allo studio del Balli e s’imbattè nell’amico che ne usciva. Pensò che forse vi avrebbe trovata Angiolina; respirò trovando il Balli solo. Sul proprio contegno durante la breve parte di quella giornata in cui egli aveva immaginato si potesse ancora intraprendere qualche cosa per Amalia, egli non ebbe mai rimorsi. In quelle ore egli non pensò che alla sorella, e se si fosse imbattuto in Angiolina, avrebbe trasalito dolorosamente, solo perchè quella vista gli avrebbe ricordata la propria colpa.

— Oh, Stefano! M’accadono delle cose tanto gravi! — Entrò nello studio, s’assise sulla sedia più vicina alla porta e, celandosi il volto nelle mani, scoppiò in singhiozzi disperati. Non avrebbe saputo dire perchè proprio allora si fosse sciolto in lagrime. Incominciava a riaversi del fiero colpo ricevuto e otteneva dal dolore riflesso lo sfogo necessario, oppure era la vicinanza del Balli — il quale ci doveva aver la sua parte nella malattia d’Amalia, — la causa di quell’emozione tanto acuta? Certo è ch’egli stesso poi s’accorse di compiacersi d’aver dato al proprio dolore un’espressione violenta; per sè stesso e pel Balli. Tutto si mitigava e addolciva nel pianto; egli si sentiva sollevato e migliorato. Avrebbe dedicato il resto della vita ad Amalia. Anche se — come egli credeva — ella fosse stata pazza, l’avrebbe tenuta presso di sè non più come sorella ma come figlia. E in quel pianto si compiacque tanto da dimenticare quale urgenza ci fosse di chiamare un medico. Era proprio là il suo posto, era là ch’egli doveva agire a vantaggio di Amalia. Nell’eccitazione in cui si trovava, qualunque impresa gli parve facile e, colla sola manifestazione del proprio dolore, pensò che avrebbe fatto dimenticare tutto il passato anche al Balli. Gli avrebbe finalmente fatto conoscere Amalia, mite, buona e sventurata com’era.

Raccontò in tutti i particolari la scena di poco prima: il delirio, l’affanno di Amalia e il lungo tempo in cui egli, trovandosi solo, non s’era potuto allontanare da quella stanza fino all’intervento provvidenziale della signora Chierici.

Il Balli prese l’aspetto di persona sorpresa da una mala nuova — non certo l’aspetto sperato da Emilio — e con l’energia che in quello stato d’animo doveva essergli facile, consigliò di correre a chiamare il dottor Carini. Gli era stato descritto quale un buon medico; per di più era suo intimo ed egli l’avrebbe saputo interessare alla sorte di Amalia.

Emilio piangeva e non accennava a muoversi dal posto. Gli pareva di non aver ancora terminato; non si dava per vinto, e cercava una frase per commuovere l’amico. Ne trovò una che fece rabbrividire lui stesso: — Pazza o moribonda! — Oh, la morte! Era la prima volta ch’egli immaginava Amalia morta, scomparsa ed egli che allora allora aveva appreso di non amare più Angiolina, si vedeva solo, desolato dal rimpianto di non aver saputo approfittare della felicità, che fino a quel giorno era stata a sua disposizione, di dedicare la propria vita a qualcuno che aveva bisogno di tutela e di sacrificio. Con Amalia spariva dalla sua vita ogni speranza di dolcezza. Disse con voce profonda: — Non so se provo maggior dolore o rimorso.

Guardò il Balli per vedere se fosse stato compreso. Sulla faccia di Stefano s’impresse una meraviglia sincera: — Rimorso? — Aveva sempre creduto che Emilio fosse il modello dei fratelli, e lo disse. Ricordò però che Amalia era stata un po’ trascurata in causa d’Angiolina e aggiunse: — Certo è che non valeva la pena che tu ti occupassi tanto di una donna quale è Angiolina; ma sono sventure che capitano... — Il Balli aveva capito Emilio tanto poco che dichiarò di non comprendere perchè perdessero tanto tempo. Bisognava correre dal Carini e non disperare prima di sapere quello che avrebbe detto lui dello stato di Amalia. Poteva essere anche che i sintomi che spaventavano i profani impressionassero poco il medico.

Era la speranza, ed Emilio vi si abbandonò tutto. Sulla via si divisero. Al Balli sembrò consigliabile di non lasciare Amalia più a lungo sola con una straniera; Emilio ritornasse a casa: sarebbe andato lui a cercare il medico.

Ambedue si misero a correre. La fretta d’Emilio era causata dalla grande speranza che s’era insinuata poco prima nel suo animo. Non era affatto escluso che, a casa, egli potesse trovare Amalia, tornata in sè, a salutarlo grata dell’affetto che gli avrebbe letto in viso. Il suo passo rapido accompagnava e spingeva il sogno ardito. Giammai Angiolina gli aveva dato un sogno simile dettato da un desiderio sì intenso.

Non sofferse dell’aria rigida spirante da poco, tale da far dimenticare la tiepida giornata quasi primaverile che a lui era sembrata stridente contraddizione al suo dolore. Le vie s’andavano oscurando rapidamente: il cielo era coperto di grossi nuvoloni, trascinati da una corrente d’aria, che a terra non si percepiva che nell’improvviso abbassamento della temperatura. In lontananza Emilio vide sul cielo fosco la cima di un’altura gialla di luce morente.

Amalia delirava come prima. Riudendone la stanca voce, dall’identico suono dolce, la stessa modulazione puerile interrotta dall’affanno, egli comprese che mentre fuori egli aveva sperato pazzamente, in quel letto l’ammalata non aveva trovato un istante di tregua.

La signora Elena era legata al letto perchè la testa dell’ammalata riposava sul suo braccio. Raccontò però che poco dopo la sua uscita, Amalia aveva respinto quel guanciale divenutole increscioso; ora l’aveva riaccettato.

Veramente l’ufficio della buona signora sarebbe stato finito, ed egli lo disse esprimendole un’infinita riconoscenza.

Ella lo guardò coi suoi buoni piccoli occhi e non mosse il braccio su cui la testina di Amalia si muoveva inquieta. Domandò: — E chi mi sostituirà? — Udito ch’egli aveva l’intenzione di rivolgersi al dottore per un’infermiera a pagamento, ella pregò con calore: — Allora permetta a me di restare qui. — E ringraziò quando egli, commosso, le dichiarò che non aveva mai pensato di mandarla via, ma che aveva temuto di disturbarla trattenendola. Le domandò poi se le occorresse di avvisare qualcuno della ragione della sua assenza. Con semplicità ella rispose: — Non ho nessuno in casa che possa essere sorpreso della mia assenza. Si figuri che la fantesca è entrata in servizio in casa mia quest’oggi.

Poco dopo Amalia portò la testa sul guanciale e il braccio della signora fu libero. Allora finalmente potè levarsi il cappellino di lutto e, riponendolo, Emilio ringraziò di nuovo, perchè gli sembrava che quell’atto confermasse la determinazione da lei presa di rimanere accanto a quel letto. Ella lo guardò sorpresa senza comprenderlo. Non si sarebbe potuta comportare più semplicemente di così.

Amalia riprese a parlare, senza scuotersi, senza chiamare, come se avesse creduto di aver sempre detto ad alta voce tutto il suo sogno. Di certe frasi diceva il principio, di altre la fine; borbottava delle parole incomprensibili, altre le sillabava chiare. Esclamava e domandava. Domandava con ansietà, mai soddisfatta della risposta, che forse non intendeva a pieno. Alla signora Elena, che s’era piegata su lei, per indovinare meglio un desiderio che pareva volesse manifestare: — Ma tu non sei Vittoria? — chiese. — Io, no — disse la signora sorpresa. Questa risposta fu compresa e bastò per qualche tempo a quietare l’ammalata.

Poco dopo tossì. Lottò per non tossire più e la sua faccia prese un aspetto di desolazione puerile; doveva aver sentito un forte dolore. La signora Elena fece osservare ad Emilio quell’espressione che durante la sua assenza s’era già prodotta. — Bisognerà parlarne al dottore; si capisce da quella tosse che la signorina deve essere ammalata di petto. — Amalia ebbe più scoppi di tosse fievole, soffocata. — Non ne posso più — gemette e pianse.

Ma il pianto le bagnava ancora le guance ed ella aveva già dimenticato il dolore. Affannosamente riparlò della sua casa. C’era un nuovo ritrovato per fare a buon prezzo il caffè. — Fanno di tutto oramai. Presto si potrà vivere senza denaro. Mi dia un po’ di quel caffè, per provare. Io glielo restituirò. A me piace la giustizia. L’ho detto anche ad Emilio...

— Sì, me ne rammento — disse Emilio per darle riposo. — Tu hai amata sempre la giustizia. — Si chinò su di lei per baciarla in fronte.

Un istante di quel delirio non fu più dimenticato da Emilio. — Sì, noi due — fece ella, guardandolo con quel tono dei deliranti, che non si sa se esclami o domandi. — Noi due, qui, tranquilli, uniti, noi due soli. — La serietà ansiosa della faccia accompagnava la serietà della parola e l’affanno pareva l’espressione di un dolore cocente. Poco dopo però, ella parlava di loro due soli nella casa a buon mercato.

Suonò. Erano il Balli e il dottor Carini. Emilio conosceva già quest’ultimo, un uomo sulla quarantina, bruno, alto, magro. Si diceva che i suoi anni d’università fossero stati più ricchi di divertimenti che non di studi, mentre ora, essendo benestante, non cercava clienti e s’accontentava di una posizione subalterna all’ospedale per potervi continuare gli studi non fatti prima. Amava la medicina col fervore del dilettante; ma ne alternava lo studio con passatempi d’ogni natura, tant’è vero che contava maggior numero d’amici fra gli artisti che non fra i medici.

Si fermò nella stanza da pranzo e, osservato che sulla malattia d’Amalia il Balli non gli aveva saputo dire altro se non che doveva trattarsi di un forte accesso di febbre, pregò Emilio di dirgliene lui qualche cosa di più.

Emilio prese a raccontare dello stato in cui aveva trovata la sorella un paio d’ore prima, nella casa solitaria, ove ella doveva aver commesse delle stranezze già dalla mattina. Descrisse con esattezza di particolari il delirio, manifestatosi prima in quell’inquietudine che la spingeva a cercare degli insetti sulle gambe, poi in quel chiacchierio incessante. Commosso nel ricordare e analizzare tutta l’angoscia di quella giornata, parlò, piangendo, dell’affanno, poi della tosse, quel suono esile e falso che pareva prodotto da un vaso fesso, e del dolore intenso che ogni colpo di tosse produceva all’ammalata.

Il dottore cercò d’incorarlo con qualche parola amichevole, ma poi, ritornando all’argomento, fece una domanda che cagionò ad Emilio non poca angoscia: — E prima di questa mattina?

— Mia sorella è stata sempre debole, ma sempre sana. — S’era compromesso con questa frase e soltanto dopo averla detta fu colto da dubbi. Non erano stati certo degl’indizi di salute quei sogni ad alta voce ch’egli aveva sorpresi. Non avrebbe dovuto parlarne? Ma come farlo dinanzi al Balli?

— Prima d’oggi la signorina si sentiva sempre bene? — chiese il Carini con aria incredula. — Anche ieri stesso?

Emilio si confuse e non seppe rispondere. Egli non ricordava neppur d’aver vista la sorella nei giorni precedenti. Veramente quando l’aveva vista l’ultima volta? Forse mesi prima, quel giorno in cui l’aveva scorta sulla via vestita in modo tanto strano. — Io non credo ch’ella sia stata ammalata prima. Me lo avrebbe detto.

Il dottore ed Emilio entrarono nella stanza dell’ammalata, mentre il Balli, dopo una breve esitazione, si fermò nel tinello.

La signora Chierici, ch’era seduta al capezzale si levò e andò ai piedi del letto. L’ammalata pareva assopita ma, come al solito, parlò quasi fosse sempre in una conversazione e avesse avuto da rispondere a domande o da aggiungere delle parole ad osservazioni fatte prima: — Di qui a mezz’ora. Sì, ma non prima. — Spalancò gli occhi e riconobbe il Carini; disse qualche cosa che doveva essere un saluto.

— Buon giorno, signorina — rispose il dottore ad alta voce con l’evidente intenzione d’adattarsi al suo delirio. — Volevo venire a trovarla prima, ma m’è stato impossibile. — Il Carini era stato in casa una sola volta ed Emilio fu lieto ch’ella l’avesse riconosciuto. Ella doveva esser migliorata di molto in quelle brevi ore, perchè a mezzodì ella non aveva ravvisato neppure lui. Comunicò tale osservazione a bassa voce al dottore.

Questi era tutto intento a studiare il polso dell’ammalata. Poi ne denudò il petto e vi appoggiò l’orecchio in diversi punti. Amalia taceva con gli occhi rivolti al soffitto. Poi il dottore si fece aiutare dalla signora Elena per rizzare l’ammalata e sottoporre alla medesima disamina anche la schiena. Amalia oppose resistenza per un istante ma quando capì che cosa si volesse da lei cercò anche di sostenersi da sola.

Ella guardava ora la finestra, che s’era rapidamente oscurata. La porta era aperta e il Balli, che s’era soffermato sulla soglia, fu visto dall’ammalata. — Il signor Stefano — disse ella senz’alcuna sorpresa e senza muoversi perchè aveva capito che si voleva ch’ella stesse ferma. Emilio che aveva temuta una scena, fece al Balli un cenno imperioso di ritirarsi, e soltanto il suo gesto sottolineò l’importante incontro.

Il Balli però non poteva più ritirarsi e si avanzò, mentre ella con cenni ripetuti del capo lo incoraggiava e chiamava. — Tanto tempo — borbottò, certo volendo significare ch’era molto tempo che non si vedevano.

Quando le permisero di riadagiarsi, ella continuò a guardare il Balli ch’ella, anche nel delirio, continuava a considerare quale la persona più importante per lei in quella stanza. L’affanno era aumentato per la fatica che le avevano data costringendola a muoversi, un lieve assalto di tosse le fece contrarre la faccia dal dolore, ma ella continuò a guardare il Balli. Anche bevendo con voluttà l’acqua che le era stata offerta dal dottore, ella tenne gli occhi fissi sul Balli. Chiuse gli occhi e parve volesse dormire. — Così tutto è bene — disse ad alta voce e per qualche istante si quietò.

I tre uomini uscirono dalla stanza di Amalia e si fermarono nella vicina. Emilio impaziente domandò: — Ebbene, dottore?

Il Carini, che aveva poca pratica di trattare con clienti, espresse con semplicità la sua opinione: una polmonite. Trovava lo stato dell’ammalata gravissimo.

— Senza speranza? — domandò Emilio, e attese con ansietà la risposta.

Il Carini gli lanciò un’occhiata di compassione. Disse che c’era sempre speranza e ch’egli aveva già visti dei casi simili risolversi improvvisamente addirittura nella piena salute: un fenomeno che sorprendeva anche il medico più provetto.

Allora Emilio si commosse. Oh, perchè non si sarebbe avverato anche in questo caso quel fenomeno sorprendente? Sarebbe bastato a dargli il sentimento della felicità per tutta la vita. Non era la gioia inaspettata, il dono generoso della provvidenza quale egli s’era augurato? La speranza per un istante fu piena; se avesse visto Amalia camminare, se l’avesse udita parlare assennatamente, non ne avrebbe potuto provare una maggiore.

Ma il Carini non aveva detto tutto. Egli non ammetteva che la malattia fosse scoppiata quel giorno. Già violenta, doveva essersi manifestata uno o forse anche due giorni prima.

Di nuovo Emilio doveva scolparsi di quel passato che giaceva tanto lontano da lui. — Potrebbe essere — ammise — ma mi pare difficile. Se è scoppiata ieri, deve essere stato in modo sì lieve ch’io non me ne sia potuto accorgere. — Poi, offeso da una occhiata di rimprovero del Balli, aggiunse: — Non mi pare possibile.

Ruvidamente, col tono che tutti da lui tolleravano, il Balli disse al dottore: — Sai, noi di medicina non ne sappiamo niente. Questa febbre durerà sempre, finchè non cessi la malattia? Non vi saranno delle soste?

Il Carini rispose che sul decorso della malattia egli non poteva dir nulla. — Mi trovo dinanzi ad un’incognita, a una malattia di cui non conosco che il momento presente. Ci sarà crisi? E quando? Domani, questa sera, di qui a tre o quattro giorni, che ne so io?

Emilio pensò che tutto ciò autorizzava le più ardite speranze e lasciò il Balli a continuare l’interrogatorio del medico. Egli si vedeva accanto Amalia guarita, assennata, ridivenuta capace di sentire il suo affetto.

Il peggior sintomo che il Carini osservasse in Amalia, non era la febbre nè la tosse; era la forma del delirio, quel chiacchierio agitato e continuo. Aggiunse a bassa voce: — Non sembra un organismo adatto a sopportare delle temperature elevate.

Si fece dare l’occorrente per scrivere, ma, prima di fare la ricetta, disse: — Per combattere la sete le darei del vino con dell’acqua di selz. Ogni due o tre ore le permetterei di prendere un bicchiere di vino generoso. Già — fece esitante — la signorina dev’essere abituata al vino. — Con due tratti risoluti di penna scrisse la ricetta.

— Amalia non è abituata al vino — protestò Emilio. — Anzi non lo può soffrire; non sono stato mai capace d’indurla ad abituarvisi.

Il dottore fece un gesto di sorpresa e guardò Emilio come se non avesse potuto credere che gli fosse detta la verità. Anche il Balli guardò Emilio con occhio scrutatore. Egli aveva già capito che il dottore aveva concluso dai sintomi presentati dalla malattia di Amalia di aver a fare con un’alcoolizzata, e ricordava d’aver osservato ch’Emilio era capace dei pudori più falsi. Voleva indurlo a dire la verità che il dottore doveva conoscere.

Emilio indovinò il significato di quell’occhiata. — Come puoi credere una cosa simile? Ella, bere! Non sa neppure bere dell’acqua in abbondanza. Ci mette un’ora per un bicchiere d’acqua.

— Se ella me lo assicura — disse il dottore — tanto meglio, perchè un organismo, per quanto debole, può resistere alle temperature elevate, quando non è fiaccato dall’alcool. — Guardò la ricetta un po’ esitante, ma poi la lasciò intatta, ed Emilio comprese di non essere stato creduto. — In farmacia le daranno un liquido di cui vorrà far prendere all’ammalata un cucchiaio ogni ora. Anzi vorrei parlare con la signora che l’assiste.

Emilio ed il Balli seguirono il dottore e lo presentarono alla signora Elena. Il Carini spiegò che desiderava si tentasse di far sopportare all’ammalata delle compresse ghiacciate al petto, e disse che ciò sarebbe stato vantaggiosissimo per la cura.

— Oh, le sopporterà! — disse Elena con un fervore che sorprese i tre uomini.

— Adagio — fece il dottore sorridendo lieto di veder l’ammalata in mani sì pietose. — Non desidero la si costringa, e se dimostrasse una ripulsione troppo forte pel freddo, bisognerebbe rinunziare a tale tentativo.

Il Carini se ne andò promettendo di ritornare il giorno appresso di buon’ora. — Ebbene, dottore? — domandò ancora una volta Emilio con voce supplichevole. Invece di una risposta il dottore disse qualche parola di conforto e di voler rimandare il suo giudizio al giorno appresso. Il Balli uscì col Carini promettendo di ritornare subito; voleva prendere il dottore a quattr’occhi e sentire se avesse parlato ad Emilio con piena sincerità.

Emilio s’aggrappava con tutte le forze alla sua speranza. Il dottore s’era ingannato quando aveva creduto che Amalia fosse una beona; tutta la sua prognosi poteva perciò essere errata. Non conoscendo limiti ai sogni, Emilio pensò persino che la salute di Amalia potesse ancora dipendere da lui. Ella era ammalata prima di tutto, perchè egli aveva mancato al dovere di proteggerla; ora invece egli era là per procurarle tutte le soddisfazioni, tutti i conforti, e questo il dottore l’ignorava. Andò al letto d’Amalia come se avesse voluto portarle soddisfazioni e conforti, ma là si sentì subito inerme. La baciò in fronte, e stette lungamente a guardarla affannarsi per conquistare un po’ d’aria ai suoi poveri polmoni.

Il Balli, ritornato, sedette in un cantuccio quanto più lontano potè dal letto di Amalia. Il dottore non aveva potuto che ripetergli quanto già aveva detto ad Emilio. La signora Elena chiese di poter andare per un istante nel suo quartierino, ove doveva dare qualche disposizione; avrebbe mandata lei la sua fantesca in farmacia. Uscì accompagnata da un’occhiata d’ammirazione del Balli. Non occorreva consegnarle dei denari, perchè, per una vecchia abitudine, i Brentani avevano conto aperto in farmacia.

Il Balli mormorò: — La bontà così semplice mi commuove più che non la genialità più alta.

Emilio aveva preso il posto lasciato libero da Elena. Da parecchio tempo l’ammalata non diceva alcuna parola comprensibile; borbottava indistintamente quasi si fosse voluta esercitare a pronunciare delle parole difficili. Emilio poggiò la testa sulla mano e stette ad ascoltare quell’affanno sempre uguale, vertiginoso. Era dalla mattina che lo udiva, e gli pareva divenuto una qualità del proprio orecchio, un suono da cui non avrebbe saputo più liberarsi. Ricordò, che una sera, ad onta del freddo, s’era alzato in camicia dal letto per usare una gentilezza alla povera sorella, che egli aveva sentito soffrire accanto a lui: le aveva offerto di accompagnarla la sera appresso a teatro. Aveva sentita una grande consolazione percependo della riconoscenza nella voce di Amalia. Poi aveva dimenticato quell’istante, e non aveva più cercato di ripeterlo. Oh, se egli avesse saputo che nella sua vita c’era una missione tanto grave come quella di tutelare una vita affidata unicamente a lui, egli non avrebbe più sentito il bisogno di avvicinarsi ad Angiolina. Ora, troppo tardi forse, era guarito di quell’amore. Pianse in silenzio, nell’ombra, amaramente.

— Stefano — chiamò l’ammalata a bassa voce. Emilio trasalì e guardò il Balli che si trovava nella parte della stanza ancora scarsamente illuminata dalla luce della finestra. Stefano non doveva aver udito perchè non s’era mosso.

— Se tu lo vuoi, voglio anch’io — disse Amalia. Rinascevano con le identiche parole gli antichi sogni, che il brusco abbandono del Balli aveva soffocati. L’ammalata aveva ora aperti gli occhi e guardava la parete di faccia: — Io sono d’accordo — disse — fa tu, ma presto. — Un colpo di tosse le fece contrarre la faccia dal dolore, ma subito dopo disse: — Oh, la bella giornata! Tanto attesa! — Richiuse gli occhi.

Emilio pensò che avrebbe dovuto allontanare il Balli da quella stanza, ma non ebbe il coraggio. Aveva fatto già tanto male una volta in cui s’era interposto fra il Balli e Amalia. Il balbettìo dell’ammalata ridivenne, per qualche tempo, incomprensibile, ma, quando Emilio incominciava a tranquillarsi, dopo un nuovo accesso di tosse, ella disse chiaramente: — Oh, Stefano, io sto male.

— Chiamò me? — domandò il Balli alzandosi e venendo sino al letto.

— Non ho udito — disse Emilio confuso.

— Io non capisco, dottore, — disse l’ammalata, rivolta al Balli — io sto quieta, mi curo e sto sempre male.

Meravigliato di non essere riconosciuto dopo di essere stato chiamato, il Balli parlò come se fosse stato lui il dottore; le raccomandò di continuare ad essere buona e che fra poco sarebbe stata bene.

Ella continuava: — Che bisogno avevo io di tutto questo... questo... — e si toccò il petto e il fianco — di questo... — L’affanno si sentiva intero solo nelle pause, ma queste erano prodotte da esitazioni, non dalla mancanza di respiro.

— Di questo male — soggiunse il Balli suggerendole la parola ch’ella invano cercava.

— Di questo male — ripetè lei riconoscente. Ma poco dopo le ritornò il dubbio di essersi espressa male e affannosamente riprese: — Che bisogno avevo io di questo... Oggi! Come faremo con questo... questo... in una giornata simile?

Il solo Emilio comprese. Ella si sognava a nozze.

Amalia però non espresse tale pensiero. Ripetè ch’ella non aveva avuto bisogno del male, che credeva nessuno l’avesse voluto e proprio adesso... proprio adesso. L’avverbio però non era mai precisato altrimenti e il Balli non lo poteva intendere Quando ella si adagiava sul guanciale e guardava dinanzi a sè o chiudeva gli occhi, si rivolgeva con assoluta familiarità all’oggetto dei suoi sogni; quando li riapriva, non s’avvedeva che quell’oggetto si trovava in carne ed ossa accanto al suo letto. L’unico che potesse comprendere il sogno era Emilio, che conosceva tutti i fatti reali e tutti i sogni precedenti a questo delirio. Si sentì più che mai inutile a quel letto. Amalia non gli apparteneva nel delirio; era ancora meno sua che quando si trovava nel possesso dei suoi sensi.

La signora Elena ritornò, portando seco le pezze bagnate già preparate, e tutto il necessario per isolarle e impedire che bagnassero il letto. Denudò il petto di Amalia e lo protesse agli occhi dei due uomini ponendovisi dinanzi.

Amalia emise un lieve grido di spavento a quella improvvisa sensazione di freddo. — Le farà bene — disse la signora Elena curva su lei.

Amalia comprese, ma dimandò dubbiosa ed ansimante — Fa bene? — Volle però liberarsi da quella sensazione penosa dicendo: — Non oggi, però, non oggi.

— Te ne prego, sorella mia — pregò Emilio calorosamente trovando finalmente qualche cosa da fare — sforzati di tenere sul petto quelle pezze. Ti guariranno.

L’affanno di Amalia parve aumentato; di nuovo gli occhi le si empirono di lagrime. — È buio — disse — assai buio. — Era infatti buio, ma quando la signora Elena s’affrettò ad accendere una candela, l’ammalata non se ne avvide neppure e continuò a lagnarsi dell’oscurità. Cercava d’esprimere così tutt’altra sensazione opprimente.

Al chiarore della candela, la signora Elena si accorse che la faccia d’Amalia era irrorata di sudore; anche la camicia ne era intrisa fino alle spalle. — Che sia un buon segno? — esclamò giocondamente.

Intanto però Amalia, che nel delirio era l’umiltà in persona, per liberarsi dal peso al petto e non contravvenire all’ordine che aveva sentito echeggiare nel suo orecchio, spinse le pezze verso la schiena. Ma anche di là le mandarono una sensazione incresciosa e, allora, con sorprendente abilità, le cacciò sotto al guanciale, lieta d’aver trovato un posto, ove poteva tenerle senz’averne a soffrire. Poi esaminò con l’occhio inquieto le facce dei suoi infermieri, di cui sentiva d’aver bisogno. Quando la signora Elena allontanò le pezze dal letto, ella ebbe un’impressione e un suono indistinto di sorpresa. Durante la notte fu questo l’intervallo in cui dimostrò maggior consapevolezza, e anche allora non ebbe che l’intelligenza di una buona bestia mite e obbediente.

Il Balli aveva fatto venire, per mezzo di Michele, varie bottiglie di vini bianchi e neri. Volle il caso che la prima bottiglia che si ponesse a mano fosse di vino spumante; il turacciolo saltò con una forte detonazione, toccò il soffitto e ricadde sul letto di Amalia. Ella non se ne accorse neppure, mentre gli altri, spaventati, seguirono con gli occhi il volo del proiettile.

Poi l’ammalata bevve il vino offertole dalla signora Elena, facendo però dei segni di disgusto. Emilio osservò quei segni con profonda soddisfazione.

Il Balli offerse un bicchiere alla signora Elena la quale accettò a patto che lui ed Emilio bevessero con lei. Il Balli bevette augurando prima con voce profonda la salute ad Amalia.

Ma la salute era ben lontana dalla poveretta: — Oh, oh, chi vedo! — fece ella poco dopo, con voce chiara guardando dinanzi a sè. — Vittoria con lui! Non può essere, perchè me l’avrebbe detto. — Era la seconda volta che nominava quella Vittoria, ma ora Emilio comprese, perchè aveva indovinato chi l’ammalata designasse con quel lui accentuato. Ella stava facendo un sogno di gelosia. Continuò a parlare, ma meno chiaramente. Dal solo balbettìo Emilio potè seguire il sogno che durò più di quelli che lo avevano preceduto. Le due persone create dal delirio s’erano avvicinate, e la povera Amalia diceva che aveva piacere di vederle e di vederle unite. — Chi dice che a me dispiaccia? A me fa piacere. — Poi seguì un periodo più lungo, in cui borbottò soltanto delle parole indistinte. Forse il sogno era già morto da tempo ed Emilio cercava ancora in quei suoni affannosi il dolore della gelosia.

La signora Elena s’era seduta di nuovo al suo solito posto al capezzale. Emilio andò a raggiungere il Balli che, appoggiato al davanzale, guardava sulla via. L’uragano che da qualche ora minacciava, continuava ad addensarsi. Sulla via non era caduta ancora una goccia d’acqua. Gli ultimi riflessi del tramonto ingialliti dall’aria torbida, mandavano al selciato e alle case dei riverberi che parevano d’incendio. Il Balli con gli occhi socchiusi guardava e gustava lo strano colore.

Di nuovo Emilio tentò d’attaccarsi ad Amalia, proteggendola, difendendola ad onta che persino nel delirio ella lo respingesse da sè. Chiese al Balli: — Hai osservato con quale smorfia di disgusto ha bevuto quel vino? Era quella forse la faccia di chi è abituato a bere?

Il Balli gli diede ragione, ma desideroso di difendere il Carini, disse col solito ingenuo modo di espressione: — Può essere però che la malattia le abbia alterato il palato.

Emilio, dall’ira, si sentì un nodo alla gola: — Tu credi ancora nelle parole di quell’imbecille?

Accorgendosi di tanta commozione, il Balli si scusò: — Io non capisco niente; la sicurezza con la quale ne parlò il Carini mi mise dei dubbi.

Emilio pianse di nuovo. Disse che non era la malattia o la morte d’Amalia che lo portava alla disperazione ma il pensiero che essa era vissuta sempre misconosciuta e vilipesa. Ora il destino implacabile si compiaceva di snaturarne la mite, dolce, virtuosa fisonomia con l’agonia dei viziosi. Il Balli cercò di calmarlo: pensandoci bene trovava anche lui impossibile che Amalia avesse avuto quel vizio. Del resto egli non aveva voluto fare un affronto alla povera fanciulla. Con profonda commiserazione, guardando verso il letto, disse: — Se anche la supposizione del Carini fosse stata giusta, io non avrei mica disprezzato tua sorella.

Stettero lungamente in silenzio alla finestra. Il giallo sulla via veniva cancellato dalla notte che si avanzava rapidamente. Il solo cielo, ove le nubi continuavano ad accavallarsi, rimaneva chiaro e giallo.

Emilio pensò che forse neppure Angiolina sarebbe andata all’appuntamento. Ma, di botto, dimenticando da un momento all’altro quello che, fin dalla mattina, aveva deciso, disse: — Io adesso andrò all’ultimo appuntamento con Angiolina. — In fatti, perchè no? Viva o morta, Amalia lo avrebbe diviso per sempre dall’amante, ma perchè non sarebbe andato a dire ad Angiolina che voleva rompere definitivamente ogni relazione con lei? Gli si aperse il cuore alla gioia di quell’ultimo abboccamento. La sua presenza in quella stanza non giovava a nessuno, mentre andando da Angiolina egli portava subito un olocausto ad Amalia. Al Balli che, meravigliato di quelle parole, cercava di distoglierlo dal suo proposito, egli disse che andava all’appuntamento perchè voleva approfittare di quel suo stato d’animo per liberarsi per sempre da Angiolina.

Stefano non gli credette; gli pareva di sentir parlare il solito debole Emilio e gli parve di renderlo più forte raccontandogli che quel giorno stesso egli era stato obbligato di scacciare Angiolina dallo studio. Lo disse con parole che non potevano lasciare dubbio sul motivo.

Emilio impallidì. Oh, la sua avventura non era ancora morta. Rinasceva proprio là, al letto della sorella. Angiolina lo tradiva un’altra volta in modo inaudito. Gli parve di essere preso dallo stesso affanno di cui soffriva Amalia; proprio nell’istante in cui s’accorgeva che per Angiolina egli aveva dimenticato tutti i suoi doveri, ella lo tradiva col Balli. L’unica differenza fra le ire che lo avevano colto altre volte e quella che gli toglieva ora il respiro, era ch’egli non poteva pensare di vendicarsi di quella donna altrimenti che con l’abbandono. Nella sua mente abbattuta non capiva più l’idea della vendetta. Gli avvenimenti si sarebbero svolti esattamente come se il Balli non gli avesse detto niente. Non gli era riuscito di celare la sua sorpresa dolorosa. — Te ne prego — disse con un calore che non tentò di mitigare — raccontami quello che è avvenuto.

Il Balli protestò: — Oltre alla vergogna di aver dovuto fare una volta in mia vita da casto Giuseppe, non voglio mica avere anche quella di consegnare alla storia tutti i particolari della mia avventura. Tu però sei definitivamente perduto, se in una giornata simile vai ancora col pensiero a quella donna.

Emilio si difese. Disse che già dalla mattina aveva deciso di abbandonare Angiolina, e che perciò le parole del Balli avevano potuto addolorarlo solo per il rimpianto di aver dedicato ad una simile donna tanta parte della propria vita. Stefano non doveva credere ch’egli sarebbe andato a quell’appuntamento con l’intenzione di fare una scena ad Angiolina. Sorrise debolmente. Oh, ne era tanto lontano! Anzi le parole del Balli avevano avuta tanto poca efficacia su di lui ch’egli non credeva di essere più risoluto di prima a troncare quella relazione. — Son tutte cose che mi commovono perchè mi riconducono col pensiero al passato.

Egli mentiva. Era il presente che s’era accalorato meravigliosamente. Dov’era lo sconforto che lo aveva preso durante la lunga, vana assistenza che aveva prestata ad Amalia? Quell’eccitazione non costituiva un sentimento sgradevole. Avrebbe voluto correre via per giungere più presto a quel momento in cui avrebbe detto ad Angiolina di non volerla rivedere più. Sentiva però il bisogno di ottenere prima il consenso del Balli. Non gli fu difficile, perchè Stefano sentiva quel giorno sì viva compassione per lui, da non avere il coraggio d’opporsi ad un suo desiderio.

Emilio, dopo una lieve esitazione, pregò il Balli di restare a far compagnia alla signora Elena. Già, egli contava d’essere di ritorno tra poco. Perciò un’altra volta Angiolina aveva accostato Stefano ed Amalia.

Il Balli raccomandò ad Emilio di non degnarsi di far delle scene ad Angiolina. Il Brentani ebbe un sorriso calmo di persona superiore. Se anche il Balli non la domandava, gli dava l’assicurazione ch’egli ad Angiolina non avrebbe neppure parlato di quell’ultimo tradimento appreso allora. E questa era sinceramente la sua intenzione. Egli si figurava l’ultimo colloquio con Angiolina, mite, forse affettuoso. Aveva bisogno che fosse così. Le avrebbe raccontato che Amalia moriva e ch’egli rinunziava a lei senza rimproveri. Non l’amava più, ma non amava nient’altro a questo mondo.

Col cappello in mano andò al letto d’Amalia. Ella lo guardò lungamente: — Vieni a pranzo? — gli chiese. Poi cercò di guardare dietro di lui e gli chiese di nuovo: — Siete venuti a pranzo? — Ella cercava sempre il Balli.

Salutò la signora Elena. Ebbe un’ultima esitazione. Il destino s’era sempre compiaciuto di mettere bizzarramente la sventura d’Amalia accanto al suo amore per Angiolina; non poteva perciò succedere che la sorella morisse proprio quando egli si trovava per l’ultima volta con l’amante? Ritornò a quel letto e nella poveretta trovò l’immagine stessa dell’angoscia. S’era abbattuta su un fianco e teneva la testa fuori del guanciale, fuori del letto. Invano quella testa, dai pochi capelli umidi e arruffati, cercava un punto dove posare. Era evidente che quello stato poteva precorrere immediatamente l’agonia; tuttavia Emilio la lasciò ed uscì.

Aveva risposto alle nuove raccomandazioni del Balli con un nuovo sorriso. L’aria rigida della sera lo scosse, lo refrigerò fino in fondo all’anima. Lui usare delle violenze ad Angiolina! Perchè era lei la causa della morte d’Amalia? Ma quella colpa non poteva esserle rimproverata. Oh, il male avveniva, non veniva commesso. Un essere intelligente non poteva essere violento perchè non v’era posto a odii. Per l’antica abitudine di ripiegarsi su se stesso e analizzarsi, gli venne il sospetto che forse il suo stato d’animo era risultato dal bisogno di scusarsi e di assolversi. Ne sorrise come di cosa comicissima. Come erano stati colpevoli lui e Amalia di prendere la vita tanto sul serio!

Alla riva, dopo di aver guardato l’orologio, si fermò. Qui il tempo appariva peggiore che non in città. Al sibilare del vento si univa imponente il clamore del mare, un urlo enorme composto dall’unione di varie voci più piccole. La notte era fonda; del mare non si vedeva che qua e là biancheggiare qualche onda che il caos aveva voluto infranta prima di giungere a terra. Sui battelli, alla riva, si era sull’attenti e si vedeva qualche figura di marinaio, in alto, su quegli alberi che facevano la solita varia danza nelle quattro direzioni, lavorare nella notte e nel pericolo.

Ad Emilio parve che quel tramestìo si confacesse al suo dolore. Vi attingeva ancora maggiore calma. L’abito letterario gli fece pensare il paragone fra quello spettacolo e quello della propria vita. Anche là, nel turbine, nelle onde di cui una trasmetteva all’altra il movimento che aveva tratto lei stessa dall’inerzia, un tentativo di sollevarsi che finiva in uno spostamento orizzontale, egli vedeva l’impassibilità del destino. Non v’era colpa, per quanto ci fosse tanto danno.

Accanto a lui un grosso marinaio piantato solidamente sulle gambe coperte di stivaloni, urlò verso il mare un nome. Poco dopo gli rispose un altro grido; egli allora si gettò su una colonna vicina, ne slegò una gomena che v’era attortigliata, l’allentò e la saldò di nuovo. Lentamente, quasi impercettibilmente, uno dei maggiori bragozzi si allontanò dalla riva ed Emilio comprese ch’era stato attaccato ad una boa vicina per salvarlo dalla terra.

Il grosso marinaio prese ora tutt’altra attitudine; s’era appoggiato alla colonna, aveva accesa la pipa e in quel diavoleto si godeva il suo riposo.

Emilio pensò che la sua sventura era formata dall’inerzia del proprio destino. Se, una volta sola nella sua vita, egli avesse avuto da slegare e riannodare in tempo una corda; se il destino di un bragozzo, per quanto piccolo, fosse stato affidato a lui, alla sua attenzione, alla sua energia, se gli fosse stato imposto di forzare con la propria voce i clamori del vento e del mare, egli sarebbe stato meno debole e meno infelice.

Andò all’appuntamento. Il dolore sarebbe ritornato subito dopo; per il momento egli amava ad onta di Amalia. Non c’era dolore in quell’ora in cui egli poteva fare proprio quello che la sua natura esigeva. Assaporava con voluttà quel sentimento calmo di rassegnazione e di perdono. Non pensò nessuna frase per comunicare il suo stato d’animo ad Angiolina; anzi il loro ultimo abboccamento doveva esserle assolutamente inesplicabile, ma egli avrebbe agito come se qualche essere più intelligente fosse stato presente a giudicare lui e lei.

Il tempo s’era risolto in un vento freddo e violento, ma continuo, uguale; nell’aria non c’era più alcuna lotta.

Angiolina gli venne incontro dal viale di Sant’Andrea. Vedendolo esclamò con grande stizza — una stonatura dolorosa nello stato d’animo di Emilio: — Son qui da mezz’ora. Ero in procinto di andarmene.

Egli, dolcemente, la trasse accanto ad un fanale e le fece vedere l’oriuolo che segnava precisamente l’ora stabilita per l’appuntamento.

— Allora mi sono ingannata — disse ella, non molto più dolcemente. Mentre egli andava studiando il modo con cui dirle che quello sarebbe stato l’ultimo loro incontro, ella si fermò e gli disse: — Per questa sera dovresti lasciarmi andare. Ci vedremo domani; fa freddo e poi...

Egli fu strappato all’indagine che sempre continuava su se stesso e la guardò, la osservò; comprese subito che non era il freddo che le faceva desiderare d’andarsene. Lo colpì inoltre di trovarla vestita con maggior accuratezza del solito. Un vestito bruno che non le aveva mai visto, elegantissimo, sembrava tirato fuori per qualche grande occasione; anche il cappello gli sembrò nuovo, e osservò persino delle scarpettine poco adatte per camminare a Sant’Andrea con quel tempo. — E poi? — ripetè egli fermandosele accanto e guardandola negli occhi.

— Senti, voglio dirti tutto — disse lei assumendo un aspetto di confidenza risoluta, assolutamente fuori di posto e continuò imperterrita, senz’accorgersi che lo sguardo di Emilio si faceva sempre più torvo: — Ho ricevuto un dispaccio dal Volpini con cui m’annunzia il suo arrivo. Non so che cosa egli voglia da me; ma a quest’ora, certo, si trova già a casa mia.

Ella mentiva, non v’era alcun dubbio. Il Volpini cui, nella mattina, egli aveva scritto quella lettera, eccolo che, prima di riceverla, arrivava, contrito, a chiedere scusa. Sconvolto, rise triste: — Come? Colui che ieri ti scrisse quella lettera, oggi capita a ritirarla in persona ed anzi ti avvisa la sua venuta telegraficamente. Grandi affari! Grandi affari! Da dover ricorrere al telegrafo! E se tu ti ingannassi e in luogo del Volpini fosse un altro?

Ella sorrise ancora sicura di sè: — Ah, a te è stato raccontato dal Sorniani, che due sere fa mi ha visto a ora tarda sulla via, accompagnata da un signore? Avevo lasciata la casa dei Deluigi in quel momento, e avendo paura di camminar sola di notte, quella compagnia mi riuscì comoda. — Egli non l’udiva, ma l’ultima frase di quella ch’ella credeva fosse una giustificazione, la udì e, per la sua stranezza, la ritenne: — Quello era un Deo gratias qualunque. — Poi continuò: — Peccato che ho dimenticato a casa il dispaccio. Ma se non mi vuoi credere, tanto peggio. Non vengo forse sempre puntuale a tutti gli appuntamenti? Perchè oggi avrei da inventare delle frottole per mancarvi?

— È facile capirlo! — disse Emilio ridendo rabbiosamente. — Oggi tu hai un altro appuntamento. Vattene presto! C’è qualcuno che t’attende.

— Ebbene, se credi di me questa cosa, è meglio ch’io me ne vada! — Parlava risoluta, ma non si mosse.

Le parole fecero a lui lo stesso effetto come se fossero state accompagnate dall’atto immediato. Ella voleva lasciarlo! — Aspetta prima un istante, che ci spieghiamo! — Anche nell’ira enorme che lo pervadeva tutto, egli pensò un momento se non fosse tuttavia possibile di ritornare allo stato di calma rassegnata in cui s’era trovato poco prima. Ma non sarebbe stato giusto di atterrarla e calpestarla? L’afferrò per le braccia per impedirle di andare, s’appoggiò al fanale che aveva dietro di sè e avvicinò la propria faccia sconvolta a quella di lei rosea e tranquilla. — È l’ultima volta che ci vediamo! — urlò.

— Sta bene, sta bene — disse ella occupata soltanto a liberarsi di quella stretta che le faceva male.

— E sai perchè? Perchè tu sei una... — Esitò un istante, poi urlò quella parola che persino alla sua ira era sembrata eccessiva, la urlò vittorioso, vittorioso del suo stesso dubbio.

— Lasciami — gridò ella sconvolta dalla rabbia e dalla paura — lasciami o chiamo aiuto.

— Tu sei una... — replicò egli che finalmente, vedendola irritata, poteva rinunziare a percuoterla. — Ma credi dunque che io da lungo tempo non mi sia accorto con chi abbia avuto da fare? Quando ti trovavo vestita da serva, sulle scale di casa tua — rammentò quella sera in tutti i particolari — con quello scialle grezzamente colorito sulla testa, le braccia calde di alcova, pensai subito la parola che ora t’ho detta. Non volli dirtela e giuocherellai con te come facevano tutti gli altri, Leardi, Giustini, Sorniani e... e... il Balli.

— Il Balli! — rise ella urlando per farsi udire attraverso al rumore del vento e della voce d’Emilio. — Il Balli si vanta; non è vero niente.

— Perchè lui non volle, quello sciocco, per riguardo a me come se a me potesse importare che t’abbia posseduta un uomo di meno, te... — e per la terza volta le disse quella parola. Ella raddoppiò gli sforzi per svincolarsi, ma lo sforzo di trattenerla era ora per Emilio lo sfogo migliore; le cacciava con voluttà le dita nelle braccia morbide.

Egli sapeva che il momento in cui l’avrebbe lasciata libera, ella se ne sarebbe andata e tutto sarebbe stato finito, tutto e in modo tanto differente da quello ch’egli aveva sognato. — Ed io ti ho voluto bene — disse, forse tentando di mitigarsi, ma aggiunse subito: — Sempre però sapevo quello che tu sei. Sai quello che sei? — Oh, aveva trovata infine una soddisfazione bisognava obbligarla a confessare quello ch’ella era: — Di’ su! Che cosa sei?

Ella ora, apparentemente estenuata, aveva paura; la faccia sbiancataFonte/commento: Pagina:Svevo - Senilità, 1927.djvu/295, lo fissava con uno sguardo che chiedeva compassione. Si lasciava scuotere senza resistenza e a lui parve ch’ella stesse per cadere. Allentò la stretta e la sostenne. Tutt’ad un tratto ella si svincolò e si mise a correre disperatamente. Ella dunque aveva mentito ancora! Egli non avrebbe saputo raggiungerla; si chinò, cercò un sasso, e non trovandone raccolse delle pietruzze che le scagliò dietro. Il vento le portò e qualcuna dovette colpirla perchè ella gettò un grido di spavento; altre furono arrestate dai rami secchi degli alberi e produssero un rumore sproporzionatissimo all’ira che le aveva lanciate.

Che fare ora? L’ultima soddisfazione cui aveva anelato, gli era stata negata. Ad onta di tanta sua rassegnazione tutto intorno a lui rimaneva rude, senza dolcezza; egli stesso era brutale! Le arterie gli battevano dalla sovraeccitazione; in quel freddo egli ardeva d’ira, di febbre, immobile sulle gambe paralitiche e già era rinato in lui l’osservatore calmo che lo rimproverava.

— Non la rivedrò mai più — disse come per rispondere ad un rimprovero. Mai! Mai! E quando potè camminare, questa parola gli risuonò nel rumore dei propri passi e nel sibilo del vento sul paesaggio sconsolato. Sorrise da solo ripassando per i luoghi per cui era venuto e ricordando le idee che lo avevano accompagnato a quell’appuntamento. Come rimaneva sorprendente la realtà!

Non andò subito a casa. Gli sarebbe stato impossibile d’atteggiarsi ad infermiere in quello stato d’animo. Il sogno lo possedeva intero, tanto che non avrebbe saputo dire per quali vie fosse poi rincasato. Oh! Se l’abboccamento con Angiolina fosse stato quale egli l’aveva voluto, avrebbe potuto andare diritto al letto d’Amalia senz’alterare neppure l’espressione della propria faccia.

Scoperse una nuova analogia fra la sua relazione con Angiolina e quella con Amalia. Da entrambe egli si distaccava senza poter dire l’ultima parola che avrebbe addolcito almeno il ricordo delle due donne. Amalia non poteva udirla; ad Angiolina egli non aveva saputo dirla.


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