< Senilità
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XIV
XIII


XIV.

L’immagine della morte è bastevole ad occupare tutto un intelletto. Gli sforzi per trattenerla o per respingerla sono titanici, perchè ogni nostra fibra terrorizzata la ricorda dopo averla sentita vicina, ogni nostra molecola la respinge nell’atto stesso di conservare e produrre la vita. Il pensiero di lei è come una qualità, una malattia dell’organismo. La volontà non lo chiama nè lo respinge.

Di questo pensiero Emilio lungamente visse. La primavera era passata, ed egli non se n’era accorto che per averla vista fiorire sulla tomba della sorella. Era un pensiero cui non andava congiunto alcun rimorso. La morte era la morte; non più terribile per le circostanze che l’avevano accompagnata. Era passata la morte, il grande misfatto, ed egli sentiva che i propri errori e misfatti erano stati del tutto dimenticati.

In quel periodo, per quanto potè, visse solitario. Evitò anche il Balli, il quale dopo di essersi contenuto tanto bene al letto di Amalia, aveva già perfettamente dimenticato il breve entusiasmo ch’ella aveva saputo inspirargli. Emilio non gli sapeva perdonare di non essergli più simile in questo. Era oramai la sola cosa che gli rimproverasse.

Quando la sua commozione s’affievolì, gli sembrò di perdere equilibrio. Corse al cimitero. La strada polverosa lo fece soffrire, e indicibilmente il caldo. Sulla tomba prese la posa del contemplatore, ma non seppe contemplare. La sua sensazione più forte era il bruciore della cute irritata dal sole, dalla polvere e dal sudore. A casa si lavò e, rinfrescata la faccia, perdette ogni ricordo di quella gita. Si sentì solo, solo. Uscì col vago proposito d’attaccarsi a qualcuno, ma sul pianerottolo dove un giorno aveva trovato il soccorso invocato, ricordò che poco distante poteva trovare una persona che gli avrebbe insegnato a ricordare, la signora Elena. Egli — se lo disse salendo le scale — egli non aveva dimenticata Amalia, la ricordava anche troppo, ma aveva dimenticata la commozione della sua morte. Invece che vederla rantolare nell’ultima lotta, la ricordava quando triste, spossata, con gli occhi grigi lo rimproverava del suo abbandono, oppure quando sconfortata, riponeva la tazza preparata per il Balli o, infine, ricordava il suo gesto, la sua parola, il suo pianto d’ira e di disperazione. Erano tutti ricordi della propria colpa. Bisognava coprire il tutto con la morte d’Amalia; la signora Elena gliel’avrebbe rievocata. Amalia stessa era stata insignificante nella sua vita. Non ricordava neppure ch’ella avesse dimostrato il desiderio di riavvicinarsi a lui quando egli, per salvarsi da Angiolina, aveva tentato di rendere più affettuosa la loro relazione. La sua morte sola era stata importante per lui; quella almeno l’aveva liberato dalla sua vergognosa passione.

— La signora Elena è in casa? — domandò alla serva ch’era venuta ad aprire. In quella casa non si doveva essere abituati a ricevere molte visite. La serva — una biondina gentile — gli impedì il passo e si mise a chiamare ad alta voce la signora Elena. Questa venne nel corridoio oscuro da una porta laterale e si fermò nella luce che usciva dalla stanza.

— Come ho fatto bene a venire! — pensò Emilio giocondamente, sentendosi commosso al vedere la testa grigia di Elena, illuminata debolmente, mandare proprio quei riflessi che lo avevano colpito la mattina della morte di Amalia.

La signora Elena lo accolse con grande affetto. — È tanto tempo ch’io speravo di vederla. Mi fa proprio piacere.

— Lo sapevo — disse Emilio con le lagrime nella voce. L’amicizia offertagli da quella donna al letto di morte d’Amalia lo commoveva. — Ci conosciamo da poco, ma abbiamo passata insieme tale una giornata da sentircene legati più che non da anni d’intimità.

La signora Elena lo fece entrare nella stanza da cui era uscita, della forma del tinello del Brentani, sul quale era situata. L’arredo ne era semplice, anzi scarso, ma tutto era tenuto con grande accuratezza, e non vi si sentiva il bisogno di altri mobili. La semplicità appariva un po’ eccessiva sulle pareti lasciate nude del tutto.

La serva portò una lampada a petrolio accesa, augurando ad alta voce la buona sera. Quindi uscì.

La signora le guardò dietro con un buon sorriso: — Non posso levarle l’abitudine un po’ campagnuola d’augurare la buona sera quando porta il lume. Del resto è un uso che non dispiace. Giovanna è tanto buona. Troppo ingenua! È strano di trovare ai nostri tempi una persona ingenua. Viene voglia di guarirla da una malattia tanto adorabile. Quando le racconto qualche cosa dei costumi moderni, fa tanto d’occhi. — Ella rise di cuore. Imitava la persona di cui parlava spalancando i buoni piccoli occhi; pareva la studiasse per goderne di più.

La biografia della serva aveva interrotta la commozione di Emilio. Per chiarire un dubbio che gli venne, raccontò d’essere stato quel giorno al cimitero. Infatti il suo dubbio fu subito risolto, perchè, senz’alcuna esitazione, la signora disse: — Io al cimitero non vado mai. Non ci sono stata dal giorno della morte di sua sorella. — Dichiarò poi ch’ella sapeva oramai che con la morte non si lotta. — Chi è morto è morto e il conforto non può venire che dai vivi. — Aggiunse senz’alcuna amarezza: — Pur troppo, ma è così. — Disse poi ch’era stata tolta all’incanto dei ricordi dalla breve assistenza prestata ad Amalia. La tomba del figliuolo non le dava più quella commozione che sconvolge e rinnova. Parlava veramente i pensieri d’Emilio; certo non più, quando concluse con un assioma morale: — Vi sono i vivi che hanno bisogno di noi.

Riparlò di Giovanna. Costei, per sua fortuna, era stata colta da una malattia ed Elena l’aveva assistita e salvata. Si erano trovate durante quella malattia. Quando la fanciulla risanò, la signora comprese che suo figlio riviveva in lei. — Più mite, più buono, più riconoscente, oh, tanto riconoscente! — AncheFonte/commento: Pagina:Svevo - Senilità, 1927.djvu/295 il suo nuovo affetto le dava pensieri e dolori: — Giovanna era innamorata...

Emilio non l’udiva più. Era occupato tutto dalla soluzione di un grave problema. Andandosene salutò con rispetto sulla porta la serva, quella che aveva trovato il modo di salvare dalla disperazione un suo simile. — Strano — pensò, — sembrerebbe che metà dell’umanità esista per vivere e l’altra per essere vissuta. — Ritornò subito col pensiero al proprio caso concreto: — Angiolina esiste forse solo acciocchè io viva.

Camminò tranquillo, rinato, nella notte fresca che era seguita alla giornata afosa. L’esempio della signora Elena gli aveva provato che anche lui poteva trovare ancora nella vita il suo pane quotidiano, la ragione d’essere. Questa speranza l’accompagnò per parecchio tempo; aveva dimenticato tutti gli elementi di cui si componeva la sua misera vita, e credeva che il giorno in cui avesse voluto, avrebbe potuto rinnovarla.

Le prime prove che fece fallirono. Aveva tentata di nuovo l’arte e non gliene era risultata alcuna commozione. Avvicinò delle donne e le trovò poco importanti. — Io amo Angiolina! — pensò.

Un giorno il Sorniani gli raccontò che Angiolina era fuggita col cassiere infedele di una Banca. Il fatto aveva destato scandalo in città.

Fu una sorpresa dolorosissima per lui. Si disse: — M’è fuggita la vita. — Invece, per qualche tempo, la fuga d’Angiolina lo ripose in piena vita, nel più vivace dei dolori e dei risentimenti. Sognò vendette e amore, come la prima volta in cui l’aveva abbandonata.

Andò dalla madre d’Angiolina, quando già questo risentimento s’era affievolito, come era andato da Elena quando il ricordo d’Amalia aveva minacciato d’attenuarsi. Anche questa visita gli fu imposta da un suo preciso stato d’animo che domandava in quel dato momento un nuovo impulso, tant’è vero che la fece in ore d’ufficio, incapace di ritardarla neppure di minuti.

La vecchia l’accolse con l’antica gentilezza. La stanza d’Angiolina aveva cambiato un po’ d’aspetto, denudata di tutte le cianfrusaglie che l’Angiolina aveva raccolte nella sua lunga carriera. Anche le fotografie erano scomparse e dovevano oramai adornare la parete di qualche stanza in altro paese.

— È dunque fuggita? — domandò Emilio con amarezza e ironia. — Gustava quell’istante come se avesse parlato ad Angiolina stessa.

La Zarri negò che Angiolina fosse fuggita. Era andata a stare in casa di parenti che abitavano a Vienna. Emilio non protestò, ma poco dopo, cedendo al suo imperioso desiderio, riprese il tono d’accusatore che si era tentato di togliergli. Disse ch’egli aveva previsto tutto. Aveva tentato di correggere Angiolina e di segnarle la via retta. Non vi era riuscito e ne rimaneva scorato; ma era ben peggio per Angiolina, ch’egli non avrebbe lasciata mai, se ella l’avesse trattato altrimenti.

Non avrebbe poi saputo ripetere le parole ch’egli pronunziò in quel momento tanto importante, ma dovettero essere efficacissime, perchè la signora Zarri si mise a singhiozzare con certi singhiozzi strani, secchi; gli volse le spalle e se ne andò. Egli la seguì con lo sguardo un po’ sorpreso dell’effetto prodotto. I singhiozzi erano certo sinceri; la scuotevano tutta fino ad impedirle il passo.

— Buon giorno, signor Brentani — gli disse, entrando con un bell’inchino e offrendogli la mano, la sorella d’Angiolina. — Mamma è andata di là perchè sta poco bene. Se ella vuole ritorni un altro giorno.

— No! — disse Emilio solennemente come se stesse per abbandonare Angiolina. — Io non ritornerò mai più. — Accarezzò i capelli della fanciulla, più scarsi, ma del colore identico di quelli di Angiolina — Mai più! — ripetè, e con intensa compassione bacio la fanciulla sulla fronte.

— Perchè? — domandò lei gettandogli le braccia al collo. Stupefatto egli si lasciò coprire la faccia di baci tutt’altro che infantili.

Quando riuscì a togliersi da quell’abbraccio, la nausea aveva distrutta in lui qualsiasi commozione. Non sentì alcun bisogno di continuare la predica incominciata e se ne andò dopo di aver fatta una carezza paterna, indulgente alla fanciulla, ch’egli non voleva lasciare afflitta.

Una grande tristezza lo colse quando si trovò solo sulla via. Sentiva che la carezza fatta per compiacenza a quella fanciulla segnava proprio la fine della sua avventura.

Egli stesso non sapeva quale periodo importante della sua vita si fosse chiuso con quella carezza.

Lungamente la sua avventura lo lasciò squilibrato, malcontento. Erano passati per la sua vita l’amore e il dolore e, privato di questi elementi, si trovava ora col sentimento di colui cui è stata amputata una parte importante del corpo. Il vuoto però finì coll’essere colmato. Rinacque in lui l’affetto alla tranquillità, alla sicurezza, e la cura di se stesso gli tolse ogni altro desiderio.

Anni dopo egli s’incantò ad ammirare quel periodo della sua vita, il più importante, il più luminoso. Ne visse come un vecchio del ricordo della gioventù. Nella sua mente di letterato ozioso, Angiolina subì una metamorfosi strana. Conservò inalterata la sua bellezza, ma acquistò anche tutte le qualità d’Amalia che morì in lei una seconda volta. Divenne triste, sconsolantemente inerte, ed ebbe l’occhio limpido ed intellettuale. Egli la vide dinanzi a sè come su un altare, la personificazione del pensiero e del dolore e l’amò sempre, se amore è ammirazione e desiderio. Ella rappresentava tutto quello di nobile ch’egli in quel periodo avesse pensato od osservato.

Quella figura divenne persino un simbolo. Ella guardava sempre dalla stessa parte, l’orizzonte, l’avvenire da cui partivano i bagliori rossi che si riverberavano sulla sua faccia rosea, gialla e bianca. Ella aspettava! L’immagine concretava il sogno ch’egli una volta aveva fatto accanto ad Angiolina e che la figlia del popolo non aveva compreso.

Quel simbolo alto, magnifico, si rianimava talvolta per ridivenire donna amante, sempre però donna triste e pensierosa. Sì! Angiolina pensa e piange! Pensa come se le fosse stato spiegato il segreto dell’universo e della propria esistenza; piange come se nel vasto mondo non avesse più trovato neppure un Deo gratias qualunque.

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