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Meno di un giorno
Quattr'ore al lido Il demonio muto


MENO DI UN GIORNO.


La stavo aspettando alla stazione di Treviglio. Ell’aveva passato il mese di settembre ad Iseo, in villa, presso la sua famiglia, e doveva partire quel giorno, sola, per Milano. Avevamo combinato che ella scrivesse a Milano annunziando il suo arrivo pel dì seguente con la prima corsa. Si doveva stare in compagnia quell’intervallo di quindici ore: un saggio del paradiso.

Mi sentivo dentro le furie indiavolate dell’impazienza e le prostrazioni delle speranze troppo ripensate. Ora stavo rannicchiato sulla panca della sala d’aspetto, ora camminavo a gran passi nel piazzale della stazione, dove tre o quattro cocchieri di birocci sbraitavano insieme. Tutt’a un tratto mi fermavo e giravo gli occhi verso Treviglio, pauroso di vedere avvicinarsi qualcuno che mi conoscesse, che conoscesse lei. Studiavo l’orario delle ferrovie, alla pagina 26, Venezia-Milano; il treno doveva giungere alle quattro ore e quarantasette minuti. Lo sapevo bene, ma tornavo a leggere quei numeri con occhio intento, quasi che ad ogni poco m’uscissero dalla memoria. Guardavo l’oriuolo. Questa frase del Re Giovanni: Veglio su voi come il minuto su l’ora, mi passò nel cervello. L’idea dell’eternità, che non si afferra meditando alla lunga serie dei secoli, diventa chiara seguendo il cammino lento della lancetta dei minuti. Il polso batte disuguale, rapido; una irritazione convulsa invade tutte le membra; si sente l’attimo che, impassibile, crea l’infinito: e la caduta di questa stilla di tempo nel mare senza sponde pare meschina e immensa, ridicola e spaventosa come il picchiettare del tarlo nelle veglie di una lunga notte.

Aprivo spesso la cassa dell’orologio per contemplarne il fondo. Vi stava un bel ritratto di lei. Seguendo i delicati contorni del mento, della guancia, del fronte, dei capelli, avevo ritagliata tempo addietro quella fotografia con attentissima cura, per incollarla sopra un cerchio di cartoncino celeste, corrispondente appunto alla misura del tondo dell’orologio. Il ritratto dal suo sicuro nascondiglio ogni tanto mi sorrideva; e avevo mezzo guastata la molla della custodia. La testa occupava quasi tutto lo spazio, sicchè il candido collo scoperto, scendendo giù sino al lembo, non lasciava posto neanche al principio del goletto dell’abito. Sul volume dei capelli castani spiccava piccolo, fine, elegantissimo l’orecchio. Ella sapeva di averlo bello: non portava orecchini. Il fronte era bassetto, e la distanza tra il naso e la bocca lunghetta; le narici si alzavano in su un tantino, dando alla regolarità perfetta del naso una cert’aria procace: ma gli occhi cerulei e la bocca sottile e il mento piccolo mischiavano in quel caro volto una gentile melanconia all’apparenza sensuale delle altre parti. Gli occhi, gli occhi erano tremendi! Sembravano cerulei, ma in certi momenti diventavano come neri: erano grandi, e giravano lenti, e avevano alle volte uno sguardo, che pareva insieme fisso e vago, scrutatore e distratto. Dopo un lungo bacio io le stringevo le mani, e me le piantavo dinanzi fissandola nelle pupille: ella mi contemplava serena, senza batter palpebra. Mi sentivo allora invaso dall’ardore della passione e insieme da un misterioso senso di paura; il cuore mi si serrava, e le chiedevo: — Pensi a me, Matilde? —

Era un pezzo che non la vedevo sola, senza timori.

Ci avevamo scritto spesso delle lunghe lettere, ma la penna riesciva tarda, ghiacciata, impotente a esprimere il pensiero: avevo un terribile bisogno di dirle a voce tante cose e di farle tante domande.

Il treno era in ritardo di due minuti: già cominciavo ad agitarmi in un mar di spaventi, quando squillò la campanella della stazione. Si principiava a sentire il rombo della macchina lontana, e cresceva, cresceva, finchè comparve la locomotiva fumante, che io vedevo con ansia ingigantirsi via via, pigra alla mia impazienza, mentre udivo la nota del fischio sempre più acuta e stridente. Il convoglio allentò la corsa. Prima che si fermasse avevo ricercato ad una ad una con rapidissimo sguardo le finestrelle dei vagoni. Niente. Il cuore mi batteva impetuoso; un dubbio acre mi nasceva nel petto, e mormoravo: — Se avesse avuto paura, se non m’amasse abbastanza per affrontare tanti pericoli! —

Il conduttore aprì finalmente gli sportelli, gridando: — Treviglio. — Da una carrozza di prima classe sbalzò a terra snella, sicura, una donna, coperta il volto da un fittissimo velo nero. Un istante dopo, la sua mano serrava forte la mia, e la sua voce soave diceva: — Quanto sono felice! — La trassi, senza parlare, beato, ad una timonella, che avevo fermata dianzi; la feci salire, me la misi accanto e gridai al cocchiere: — A Caravaggio.

— Al Santuario?

— No, all’albergo del Pellegrino.

Guardai la mia compagna lungamente. Ella, appena la carrozzetta fu posta in moto, sollevò il velo per sorridermi.

— Come sei bella! — le dissi.

— Ti sembro bella davvero? Ho voluto essere bella per te, per queste nostre quindici ore di paradiso.

— Ti sta bene quest’abito. È anche troppo attillato.

— Lo feci fare a Milano prima di partire, e in campagna non lo mettevo mai senza mandarti un sospiro di desiderio. Ho tanto patito, sai, di non poterti vedere questo eterno mese.

— E t’hanno detto bella anche in campagna, non è vero?

— Non lo so. Mi basta sentirlo dire da te.

— Eppure, sii schietta, te l’hanno detto.

— O Dio, avresti voluto che paressi proprio la befana?

— Vorrei, confesso, che non ti dessi tanta briga di piacere alla gente.

— Sai che non m’importa di piacere ad altri che a te, a te solo, a te che sei un cattivo egoista. Se ti dicessero che sono brutta o che mi vesto senza garbo dorrebbe pure alla tua vanità.

— Certo.

— E vorresti che fossi tanto stupida da non avvedermi che non sembro nè goffa, nè brutta?

— Te n’avvedi e te ne compiaci.

— Dunque sono una civetta, — e ritirò la sua mano dalla mia.

— Perdonami, Matilde. Io sono, lo sai, una bestia fastidiosissima. Tu invece sei la più buona, la più angelica creatura di questo mondo. Perdonami: ti amo tanto! —

Ella continuava a guardare i campi, stringendo le labbra in atto dispettoso e svincolandosi dal mio braccio, che voleva circondarle il busto. A un tratto mi guardò in faccia; aveva gli occhi umidi. Mormorò:

— Sei pure cattivo, cattivo oggi, nei primi momenti che siamo soli, dopo averlo tanto desiderato, mentre metto in pericolo il mio onore per te, forse la mia vita. —

La nube, che mi aveva oscurato per un istante il cervello, svanì; un’allegria nuova, divina, mi invase tutto, e certo il mio volto dovette trasfigurarsi perchè Matilde esclamò raggiante di gioia:

— Così mi piaci, così sono beata! —

I ciottoli del paesucolo di Caravaggio ci risvegliarono alla vita; ma quando la timonella si fu fermata all’albergo del Pellegrino, mettendo il piede a terra e aiutando la mia compagna a scendere, mi parve di barcollare. Ella mi disse infatti con un riso pieno di compiacenza:

— Sei ubriaco, bada di non cadere. —

Due servi e la padrona, vecchietta, grassoccia e sorridente, ci vennero incontro, e chi toglieva lo scialle e la sacchetta alla mia compagna, chi mi liberava dalla spolverina e dall’ombrello, solleciti, premurosi: s’indovinava che l’albergo era vuoto.

— Vorremmo desinare, ma bene e presto — dissi alla padrona.

Il cuoco, che con il suo grembiule quasi bianco s’era affacciato all’uscio della cucina, corse ai fornelli.

— Si trattengono la notte? — chiese la vecchietta con voce insinuante.

— Sì, mi raccomando la pulitezza.

- Non dubiti. La biancheria è tutta di tela fina, candida come il latte.—

Precedetti Matilde nella vasta sala da pranzo. Una immensa tavola pigliava tutta la sua lunghezza. Alle pareti ornate di grandi fiorami gialli su fondo verde, dipinti a stampo, pendevano otto quadretti, con certe litografie miniate, rappresentanti otto miracoli della Madonna di Caravaggio. Il soffitto era inghirlandato di ragnatele. Dalle due finestre, che guardavano in una stradicciuola stretta, si vedeva in faccia una casa antica, con la muraglia di mattoni bruni e il cornicione gotico; non aveva imposte nè vetri, e dentro era buia buia: sembrava il palazzo degli spiriti. L’uscio della sala s’apriva in un lunghissimo corridoio, occupato anch’esso da due interminabili tavole di legno greggio, portate da cavalletti e chiazzate di macchie pavonazze. I pellegrini, che vanno la settimana della Madonna a far voti al Santuario, promettono tutto, salvo l’astinenza; e l’albergo nei dì di sagra (mi diceva il servitore mentre in un angolo dell’ampia tavola stava apparecchiando due posate) è così pieno zeppo di penitenti, uomini e donne, che un cantuccio non vi rimane vuoto. Il giuoco della mora s’alterna alle salmodie; e queste e quello asciugano la gola.

Mentre Matilde entrava, portavano la minestra. Eravamo allegri, mangiavamo, discorrevamo della nostra gioia, di cento cose. Di tratto in tratto per altro si sospirava, si taceva un pezzetto e ci si stringeva le mani.

— Due ore e mezzo son già passate! — mormorò Matilde; ma poi subito: — E via! Ce ne restano dodici e mezzo — e tornò tutta gaia.


Dopo il desinare ci si avviò lentamente al Santuario, girando intorno alla cittaduzza. Cominciava a imbrunire. I raggi della luna vincevano già la luce del crepuscolo quando entrammo nel grande viale, che, lungo un miglio, fiancheggiato da antichi pini, mena dritto alla chiesa. La strada larghissima era, mezz’ora dopo, regolarmente listata dalle ombre nere degli alberi, i quali, neri anch’essi, andavano rimpicciolendosi via via alla vista e convergendo in angolo sotto la cupola del tempio, che a quella distanza, involta nei vapori della notte, pareva enorme.

Spiccavano dall’una parte e dall’altra a brevi intervalli, candidi sulla tinta fosca del terreno, i sedili di marmo bianco. Matilde, poggiata la mano sulla mia spalla, mentre io la circondavo col braccio alla cintura, camminava tacendo. Io ero immerso in una contemplazione indeterminata: il mio cuore si scioglieva, si evaporava nella beatitudine: sentivo come le molecole volanti della mia anima diffondersi e sparpagliarsi in una immensa parte di terra, in una immensa parte di cielo. Il mio pensiero non afferrava più nulla: invadeva tutto.

Guardavamo a’ nostri piedi le ombre. Di quando in quando alzavamo gli occhi per fissarci in viso teneramente: e le nostre labbra si toccavano.

Ci trovammo a un tratto in una grande ombra opaca, e udimmo nello stesso tempo un salmeggiare sommesso di voci femminili. Alla sinistra del viale s’alzava una chiesetta: aveva il portico sostenuto da esili colonnine e coperto da una larga tettoia di legno. La porta spalancata mandava un chiarore fioco fioco. Entrammo. Un frate solenne con la barba d’argento leggeva le litanie al lume di un cerino aggomitolato, che teneva nella mano tremante, e ad ogni versetto una dozzina di contadine inginocchiate rispondevano cantando. Nelle tenebre della chiesa il moccolo del frate mandava un barlume oscillante sulle teste immobili delle donne, e faceva intravedere non so che bizzarre e lugubri forme. Pareva che nello sfondo della nave s’aprisse una lunga serie di pesanti arcate, e in fondo luccicassero pallidi due stoppini; pareva che le muraglie fossero dipinte a bieche figure di santi, di dannati e di mostri; pareva che il negro soffitto di grosse travature si trasformasse nella cupa scala delle regioni de’ fantasimi. Dalla stretta finestra di una cappella entrava un raggio di luna smorto.

Le litanie correvano più spedite e le voci sembravano crescere ed echeggiare, quando in un istante le donne si alzarono e il frate spense il cerino. Tutto entrò nella oscurità, eccetto dove la luna mandava sul pavimento della cappella la lista sottile di luce. Alcune ombre ci passarono innanzi senza vederci. Rimanemmo soli in quel triste silenzio. La chiesetta era diventata d’una vastità smisurata. Matilde s’avvinghiò al mio corpo, ed io sentii sulla mia guancia un morso divino.

— Mi amerai sempre? — chiesi a Matilde con un soffio di voce.

— Finch’io vivrò, sempre sempre.

— Me lo giuri?

— Sì, te lo giuro. Su tutto ciò che ho di più sacro, in questo luogo, sulla tua vita stessa, te lo giuro. E tu m’amerai sempre?

— Oh sì, sempre, lo sai. — Poi soggiunsi, esitando un poco: — Giurami che non hai amato altri che me.

— Non ho bisogno di giurartelo, caro.

— Giuramelo, te ne supplico.

— Conosci tutta la mia vita, cattivo: tutta, meglio di me, perchè io te la ho svelata intiera, e tu ci ripensi, mentre oramai io me la sono scordata. La mia memoria non mi serve che per te solo.

— Ti scongiuro, giuramelo — replicai con un fremito.

— Puoi tu pensare che io abbia provato per nessuno ciò che provo per te? Non si può amare che una volta, una volta sola come io t’amo.

A poco a poco s’era avvicinata alla porta. Mi trascinò per la mano, dicendomi:

— Usciamo.

Avevamo fatto quaranta passi sulla strada, quando s’udì cigolare le imposte della porta della chiesetta. Si continuò la via verso il Santuario. Non passava un’anima. Ci fermammo qualche minuto nel vasto piazzale del tempio, circondato dai lunghi portici di mattoni, che al lume della luna parevano neri.


Le parole di Matilde, invece di confortarmi, mi avevano messo sossopra. Il cuore mi picchiava dentro con battiti furiosi e disuguali; avevo la gola arida: un fantasima mi camminava a lato, e mi guardava, sogghignando con una certa smorfia di canzonatura spietata, come se dicesse: — L’ho colto io il fiore di quell’affetto. Contentati dei resti. —

La voce non voleva uscirmi dalla strozza. Tacqui un pezzo. Matilde mi spiava di quando in quando con una occhiata rapida, senza aprir bocca. Non volevo toccare lì dove proprio mi doleva; mi vergognavo verso di lei, verso me stesso; temevo, sfogandomi, d’infuriare ciecamente; sentivo una profonda ripugnanza a funestare con acerbi e vani discorsi quelle ore, le quali dovevano essere tutte destinate alla gioia; e poi ripetevo a me stesso, senza riescire affatto a persuadermi della buona e semplice ragione: — Che colpa ne ha lei? In fondo, è suo marito.

Alla fine, non mi potendo trattenere, dissi con accento rotto e strozzato, tanto per dire qualcosa di diverso da ciò che mi stava fisso nel cervello:

— Senti, Matilde, se io morissi o se ti abbandonassi, e se tuo marito fosse morto, torneresti a maritarti? —

Non rispose. Irritato da quel silenzio, insistetti:

— Ti prego, dimmelo. —

Matilde sospirò e tacque ancora; ma io, ch’ero entrato in quella nuova ostinazione, ripetei:

— Dimmelo, te ne prego. —

Ella rispose un po’ infastidita:

— No, no, non tornerei a maritarmi.

— Avresti torto. Già se io ti abbandonassi, quali obblighi serberesti verso di me? E se morissi, perchè dovresti sacrificarti nell’inutile culto d’una memoria? Aggiungi i casi della vita: restare senz’aiuto con i figliuoli; le difficoltà dell’educarli, del dirigerli; le strettezze economiche. E perchè non potresti, fra cinque, fra dieci anni, sbolliti i fumi della fantasia, incontrarti con un uomo attempato, onesto, ricco, che ti amasse e al quale tu volessi bene?

— Sarà sempre impossibile.

— Perchè? — ribattevo con tenacità acre e noiosa.

— Non foss’altro perchè non potrei rimaritarmi senza svelare al secondo marito di avere tradito il primo.

— Certe cose, si dicono? —

Mi fissò negli occhi con uno sguardo, che mi fece arrossire; ma io continuavo a tasteggiare, a stuzzicare.

— C’è dei galantuomini ai quali il passato non preme. La sincerità può accordarsi con l’utile. —

Nuovo silenzio lungo, durante il quale si sentivano gracidare in coro le ranocchie dei fossati. Ripigliai:

— È singolare! Può darsi dunque, presto o tardi, che ti accada di innamorarti d’un altro. Io avevo l’illusione che la tua vita fosse indissolubilmente legata alla mia. —

Aspettai in vano una risposta, che avevo onta di sollecitare, tanto le mie proprie parole mi sembravano sciocche e vili.

La bile mi suggerì:

— Strano! Unisci la passione dell’oggi, profonda, infrenabile, per quanto affermi....

— E il fatto lo mostra, mi pare.

— .... la unisci con una certa cautela pratica per l’avvenire.

— Non ho detto di volermi rimaritare. Già mio marito vive, e tu mi ami, e io t’amo tanto, e te lo provo. Non ci affatichiamo a tormentarci senza un perchè. —

Si avventò per darmi un bacio. La respinsi.

— Senti, giurami che non ti rimariteresti in nessun caso, mai.

— Giuro per il passato, quando so di giurare il vero, ma per l’avvenire, benchè certa, non posso.

— Bella certezza! Conosco dei giuocatori di lotto che sono sicuri di non vincere; ma la polizza non la buttano via. Tu non vuoi lacerare la polizza del futuro. Del resto, adesso a giurare sarebbe tardi. Sono cose d’impeto, d’istinto: il male sta nel doverci pensare.

— Abbi pazienza, caro. Quando vuoi ch’io giuri sulla tua vita io non posso mai farlo senza riandare in me stessa tutte le azioni, tutti i pensieri, tutti i sentimenti, che si riferiscono al giuramento. Un giuramento solenne e tremendo non isvanisce: dura per sempre. Mi accosto ad esso come ad un altare, con la coscienza sicura, ma con la mente turbata. Voglio che, insieme con il cuore, risponda il giudizio. Mi credi? Ti contenti della mia promessa?

— Credo che ora il solo pensare ad un nuovo legame debba sembrarti cosa abbominevole; ma poi, quando la nostra relazione dovesse, nell’un modo o nell’altro, finire, quando tu fossi libera....

— Mai, mai, non potrei amarti come ti amo se questo affetto non dovesse riempirmi l’anima sino all’ultimo istante della vita.

— Oggi ti ripugna il pensiero, lo vedo: ma non credi il fatto assolutamente impossibile.

— Sì, lo credo impossibile.

— E se lo credi impossibile, perchè non giuri? —

M’ero allontanato un poco da Matilde; mi asciugavo con la mano il sudore dalla fronte; avevo sulle labbra un’amarezza che voleva schizzar fuori.

Matilde mi si avvinghiò stretta stretta, gridando:

— Sì giuro, giuro sulla mia vita.

— Sulla mia, giuralo.

— Sì.

— Dillo.

— Sì, sulla tua vita lo giuro. —

Il mio spirito, confuso, pentito, vergognoso, tornò in meno di un quarto d’ora beato d’una beatitudine tutta fuoco e tutta fiamme.


Matilde si sentiva stanca. Tornando all’albergo s’appoggiò forte al mio braccio.

La camera grande, bassa, fredda, era quasi vuota. Il letto alto, con una coperta rossa scarlatta, il cassettone ornato di due mazzi di fiori artificiali sotto le polverose campane di vetro, qualche seggiola impagliata, una tavola su cui stava confusamente la nostra roba: ecco tutto. Guardai se gli scuretti delle finestre erano chiusi, ed origliai agli usci laterali per sentire se le camere vicine fossero abitate. Tutto taceva.

L’orologio del corridoio aveva suonato da un po’ di tempo le dodici quando s’udì un gran fracasso: qualcuno entrava nella camera a destra, e dalle fessure della porta si vide una striscia di luce. Due stivaloni furono gettati sul pavimento, un corpo si buttò sul letto, e, dopo qualche minuto, principiò un russare profondo, continuo.

La mattina seguente io provavo un certo inesplicabile stringimento al cuore. Nel cielo d’un bell’azzurro dolce veleggiavano poche nuvolette dorate; ma la luce del giorno mi sembrò melanconica. Doveva esserci nel mio sorriso qualche cosa di strano, perchè Matilde, pallida, mi chiese due volte:

— Che cos’hai? Ti senti poco bene? —

Le pigliavo la mano bisbigliando:

— Non ho nulla. Ti amo tanto! —

Quando la vidi entrare in vagone e, con i begli occhi pieni di lagrime sempre fissi su di me, allontanarsi nel lungo treno e sparire, mi sentii come alleggerito di un peso. Avevo l’animo vuoto, ma il respiro più libero.

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