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II.


La stanza del rettore era un paradisetto. Faceva caldo. Nel camino brillava un gran fuoco, e dinanzi ad esso un uomo lungo e stecchito, una specie di Don Chisciotte prete, si stava scaldando la schiena con le mani dietro. Appena mi vide entrare, innanzi di aprire la lettera ch’io gli presentavo, mi chiese se avessi fame, se avessi freddo, se fossi stanco, se volessi bere; e senz’attendere la risposta, andò alla credenza a cavarne una bottiglia, mi fece sedere nella poltrona accanto al fuoco, e chiamò il servo, ordinandogli di preparare la cena. Bevetti il vermouth, due bicchieri, e il rettore voleva farmi bere il terzo a ogni costo. Lieto come una pasqua, mi pigliava per le mani, mi picchiava famigliarmente sulle ginocchia, sorrideva con un certo ghigno bonario tutto cuore, e diceva:

— Ci ho proprio gusto: mi rincresceva davvero di finire l’anno solo come un eremita. Sia benedetto il cielo: ho trovato un compagno. Pasquale, un’altra brancata di fascine, un altro ceppo ben secco. Bada all’arrosto, che non s’abbrustolisca troppo. —

E andava su e giù per la stanza con le sue gambe interminabili, facendo svolazzare la veste; poi si tornava a piantare ritto innanzi al camino, e allora l’ombra oscillante de’ suoi stinchi, proiettata dalla fiamma, si distendeva sul pavimento, e il torso si sbatacchiava sulla parete opposta, e il collo e il capo tracciavano la loro forma allungata sul soffitto, sicchè la figura nera appariva spezzata in tre lati, e si muoveva ora di qua ora di là, come un pulcinella di legno dislogato da un ragazzo impaziente.

Alla fine il rettore lesse la lettera di presentazione, e gli Oh! e gli Ah! non terminavano più.

— Oh, ah, il figliuolo del mio caro Gigi! È proprio lei? Sa che da trent’anni... che cosa dico? da quarant’anni... sicuro, fu nel... non mi rammento bene... ma in somma sono passati quarant’anni almeno dacchè vidi per l’ultima volta il mio buon Gigi. E non sapevo che avesse preso moglie, ed ignoravo che avesse un rampollo così grande e grosso, scusi, come lei. È succeduto quel che succede sempre quando ci si vuol bene davvero: non ci si scrive mai. Ma, lo creda, pensavo sempre all’amico del Liceo e del Ginnasio, e chiedevo a me stesso: Gigi sarà vivo, sarà sano? Egli ignora forse ch’io sono canonico, ed io ignoro... A proposito, a che professione s’è mai dato suo padre? Mi pareva che avesse poca voglia di sgobbare a quei tempi. E dove s’è piantato? A Venezia? Ho sempre avuto un gran prurito di andarci; ma poi, seminario, noviziato, canonicato, rettorato, il diavolo che mi.... E lei da qual parte del mondo mi capita qua? Oh! Ah! Vedi bel caso. Bene, benone, arcibenissimo. Pasquale, un’altra brancata di fascine, e la cena presto, e il Grignolino del 1870, intendi bene? —

Non pareva una cena da mille metri sul livello del mare, nè da Siberia. Si mangiava, si beveva allegramente.

— Pasquale, un’altra bottiglia. Il Barbera del 1860.

— Grazie, ho bevuto abbastanza.

— Via, via, l’ultima sera dell’anno! E per il figliuolo del mio più vecchio amico! E sta bene Gigi? Sarà diventato grasso, mi figuro, e grigio. Porta la barba intiera o il pizzo o i soli baffi o ha la faccia pelata come me? Quarant’anni fa era una buona pelle quando ci si metteva. Una certa servotta, la Santina: aveva le mani e le guance rosse, e i capelli crespi. Una sera.... Dio me lo perdoni.... —

E si turava con le due mani la bocca enorme, e sghignazzava. Il naso lungo e adunco, gli occhi piccoli e biancastri, il mento aguzzo e sporgente, la fronte schiacciata e bassa, tutto era in moto in quel volto, su quel collo interminabile, su quella interminabile persona scarnita; e dimenava le braccia come un mulino a vento.

— Pasquale, Pasquale, una bottiglia di Barolo, di quello che Sua Eminenza bevette l’ultima volta, ma bada di non sbagliare, del più vecchio, c’è scritto l’anno 1850, e non iscuotere la bottiglia, portala adagio adagio come se fosse una reliquia.

— Grazie, non posso, ho bevuto troppo.

— L’ultimo dì dell’anno, mi canzona! E com’è stata ch’è venuto qui a passare l’ultima notte?

— Ero ai Tre Turchi.... —

Pasquale annunziò una deputazione. La deputazione si componeva di un solo vecchietto bianco e curvo, che, in nome dei cinque o sei sacerdoti, i quali vivono rannicchiati nelle loro camerette dell’ospizio anche gli eterni mesi dell’inverno, era venuto ad augurare il buon anno al signor rettore. Borbottata con impaccio infantile qualche parola, il pretucolo se ne andò via, spaurito del suo gaio e inquietissimo superiore, del forestiero nuovo, e forse degli avanzi della cena sardanapalesca.

— Ero ai Tre Turchi da due giorni per certi affari urgenti di mio padre, un fallimento improvviso; e dovendo partire domani sera.... —

Pasquale annunziò un’altra deputazione. Entrarono due donne. L’una si avanzò placidamente verso il rettore, che prese un aspetto compunto, abbassando gli occhi e giungendo le mani all’altezza del petto; l’altra rimase all’uscio e mi piantò gli occhi addosso. Era la fanciulla bionda, che avevo vista nell’atrio. A un tratto si staccò dalla soglia, e con tre o quattro passi leggeri e lenti mi venne accanto; e sempre mi guardava fisso, come se volesse frugarmi dentro nell’anima o ricercare un segreto nelle mie viscere profonde. Sentivo sulla mia faccia il suo alito. La sua compagna, che aveva finito il proprio discorsetto, la chiamò due volte, e alla fine, presala dolcemente per un braccio, la condusse fuori. Io restai sopraffatto da un senso arcano, che somigliava alla paura.

Anche il rettore era rimasto un poco sopra pensiero. Ci sedemmo al fuoco. Desideravo sapere qualcosa della ragazza bionda; ma il canonico, rientrato già nel torrente de’ suoi ricordi giovanili, non lasciava posto a intromettervi una parola, e s’io tentavo di opporre un intoppo alla sua straripante eloquenza, egli lo spazzava via senza neanche darsene per inteso. A un certo punto, giovandomi astutamente di una pausa, dissi:

— Reverendo, mi cavi una curiosità. Chi è mai quella fanciulla bionda, ch’è venuta dianzi? —

Il prete alzò lo sguardo al soffitto.

— Ha certi occhi, che attraggono e che spaventano. È una suora? —

— Fece segno di no, e tacque.

— L’ho vista nell’atrio sola, in mezzo alla neve. È qui da un pezzo?

— Da tre settimane. Ci vorrebbe un miracolo, e lo invoco con tutta la forza dell’anima mia. —

E cominciò allora a parlare dei miracoli della immagine santa. L’estate scorsa, mentre c’erano al Santuario quattromila persone, un contadino ricuperò la favella, perduta da quindici anni; un falegname paralitico si rizzò in piedi, lesto come un daino; una donna, la quale s’era fratturata una gamba, in due giorni guarì. Dai prodigi contemporanei risalì via via agli antichissimi, e nel discorrerne assumeva una espressione ispirata, tanta era la schietta fede che traluceva da quegli occhi piccini. Ma interruppe la litania per dire:

— Già si sa, ella, caro signor mio, è un poco incredulo. Debolezza dei tempi! Nella mia gioventù anch’io avevo, come il buon Gigi, il cervello storto; ma s’ella rimanesse alcuni mesi su questo monte, in mezzo alle nubi, accanto alla effigie dipinta da san Luca, e fosse testimonio delle effusioni di mille e mille disgraziati, che dalle valli, dai paesi lontani salgono a piedi a invocare l’aiuto del cielo, e vedesse le lagrime e udisse i sospiri, e notasse poi la espressione giuliva dei loro volti; s’ella sapesse le consolazioni, le santificazioni segrete, e come la fede rammollisce il macigno, purifica le lordure, rialza e nobilita l’abbiezione più vile, ella, stupito dai miracoli operati sui cuori, crederebbe agevolmente agli altri materiali ed esterni. Salvare un’anima è cosa mille volte più ardua che racconciare una gamba o ridare il moto ai nervi e ai muscoli di membra intorpidite. Vedesse i voti di cui è piena la chiesa! Se non fosse questo freddo, vorrei condurvela subito.

— Magari!

— Andiamo dunque. —

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