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NOVELLA XV
- Grisèlda
(Raccontata da Ferdinando Giovannini sarto)
Un contadino 'gli aveva una figliola per nome Grisèlda. Una mattina questo contadino s'alza, attacca i bovi all'aratolo e va al campo per insolcare, e 'n quel mentre che lui insolcava, inciampa col gomero in qualche cosa di sodo, sicché lui ferma i bovi e s'acchina giù per guardare, e ti vede che ha cozzato in un mortaio di marmo bianco, ma bello, una maraviglia insomma. Scrama: - Bello! E doppo averlo per bene tutto ripulito dalla terra, dice 'ntra di sé: - Quest'è propio robba da Re. I' lo vo' portare al Re in regalo. Dunque torna allora diviato a casa, e doppo messo i bovi in nella stalla, chiama la figliola e gli dice: - Ve' tu quel ch'i' ho trovo nel mi' campo! Nun ti par egli una maraviglia? I' ho fatto pensieri di portarlo 'n regalo al Re. Che ne di' tu? Arrisponde Grisèlda: - Sicuro, che 'gli è una bella cosa. Ma s'i' fussi in voi al Re nun glielo porterei. - Oh! perché? - addimanda su' padre. E Grisèlda: - Perché il Re ci troverà un mancamento. Dice il contadino: - Che mancamento ci pol egli trovare il Re? Sentiamo, via. Allora disse Grisèlda: - E' ci pol trovare, che 'l mortaio 'gli è bello, ma che ci manca il pestello. - Va' via, mammalucca! - bociò il contadino. - Bada lì, i' che ti viene in nella zucca! Il contadino, insenz'addarsi del parere della figliola, subbito si riveste a modo e poi se ne va dal Re. Lo fan passare a udienza e racconta lì tutto l'accaduto, e in fine di ce al [121] Soprano: - Questa maraviglia i' l'ho destinata per regalo a Sua Maestà, quando lei si degni d'aggradirla. Arrisponde il Re: - Sicuro, l'aggradisco e l'accetto; ma però, abbeneché sia questo un bel mortaio, in ugni mo' c'è un mancamento. Scrama il contadino: - Che mancamento dunque c'è egli? E il Re: - C'è, che nun ci veggo il su' pestello? - Oh! senti, - grida il contadino. - 'Gli è propio quel che m'ha ditto anco la mi' figliola. Dice il Re: - Anco la vostra figliola? Dunque vo' avete una figliola dimolto virtudiosa e struita, se pur lei ha visto il medesimo difetto. Bene! I' vo' provare come 'gli è brava. Tienete questo 'nvolto; dientro c'è del lino. Che lei me ne faccia, ma presto, perch'i' n'ho gran bisogno in nel mumento, che mo ne faccia lei un panno di cento braccia. Il contadina pigliò lo 'nvolto, addove non c'eran altro che tre lucignolini di lino; e fatta la riverenza a Sua Maestà, se n'andiede a casa 'n fretta. Arrivo che fu a casa il contadino, dice a Grisèlda: - Eppure te l'avevi indovino! Il Re 'gli ha ditto, che il mortaio 'gli era bello, ma che ci mancava il su' pestello. Arrispose Grisèlda: - I' l'ho caro, che anco il Re sia vienuto nel mi' 'pensieri. Dice il contadino: - Ma c'è di più. Il Re vole provare se tu sie' savia davvero. Bada quel che t'ha mando. T'ha mando questo 'nvolto e col lino che c'è dientro, lui comanda che tu gli faccia subbito un panno di cento braccia; ma subbito, perché lui n'ha bisogno. E come fara' tu con questi tre lucignolini di lino a contentarlo? - Date qua ch'i' vegga, - dice Grisèlda. Lei dunque pigliò quello 'nvolto, e in nello scotere i lucignolini del lino gli cascorno per le terre tre lische; sicché lei s'acchina e le raccatta, poi le ravvolge daccapo dietro alla medesima carta e le porge a su' padre, dicendo: - Tornate 'nsenza 'ndugio dal Re e ditegli da parte mia, ch'i' son pronta a servirlo nel su' desiderio; ma che siccome mi manca il telaio, che me lo faccia lui con queste tre lische e me lo mandi subbito, se vole presto la tela. Scrama, il contadino: - Ma che sie' matta a farmi fare di simil imbasciate? Arrisponde in sul serio Grisèlda: - Voi andate, fate a mi' modo, e nun abbiate sospetto di nulla. Gnamo, sbrigatevi. Il contadino torna dunque dal Re e gli fa l'imbasciata che [122] gli aveva detto Grisèlda. Dice il Re: - Ma sapete che vo' dovete essere al possesso d'una figliola dimolto svelta! I' sono al disotto al su' paragone. Tant'è, i' la voglio vedere e cognoscere in ugni mo'? Vo' gli avete però a dire, comando di Re, che la si presenti al palazzo domani, né digiuna né satolla, né pettinata né scarruffata, né vestita né spogliata, né a piedi né a cavallo. Vo' avete capito. Andate e fatela subbito avvisata della mi' volontà. Torna il contadino a casa, e tutto sgomento dice alla su' figliola: - Oh! senti il Re che vole. E' ti vole a udienza domani, perché e' ti vol cognoscere e discorrer con teco per via delle tu' mattìe. Ma a palazzo tu ci devi andare, né digiuna né satolla, né pettinata né scarruffata, né vestita né spogliata, né a piedi né a cavallo; insennonoe, poera te! Come dunque vo' tu fare a rimediarla? Dice Grisèlda: - Quante paure vo' avete! Lassate fare a me, e nun pensate più oltre. La mattina doppo Grisèlda si leva e va 'n cucina: si coce un ovo a bere e lo 'ngolla; poi si ravvia per bene il capo da una parte, e da quell'altra lo lassa tutto scarruffato co' capelli ciondoloni giù per le spalle; poi 'n sulla camicia ci si mette una rete da pescare, che di 'n sul capo gli cascava a' piedi, e ci si ravvoltola tutta la persona; poi piglia una capra e in sul groppone gli ci appoggia un piede e quell'altro lo tieneva in terra, e accosì camminava zoppiconi. A questo mo' si presenta a udienza dal Re. Dice il Re, quando la vedde: - Oh! chi siete voi? Arrisponde lei: - Son la figliola di quel contadino, che vo' gli mandasti tre lucignolini di lino per fare una tela di cento braccia. - Bene! bene! - scrama il Re: - ma diedi anco l'ordine che alla mi' presenzia vo' ci avevi a vienire così e così. - Oh! che forse nun l'ho contentata, Sua Maestà? - disse Grisèlda. - Guardi un po'! A culizione i' ho mangio un ovo soltanto, e però nun sono né digiuna nò satolla; per il resto poi giudichi da sé, co' su' occhi. Scramò il Re: - Brava! Vo' siete una brava ragazza e avete del genio. Anzi, mi garbate tanto che vi voglio per mi' sposa. Che ve ne par egli? - Guà! se lei si degna, - arrispose Grisèlda, - nun dirò di no. Sia fatta la su' volontà. - Dunque, - dice il Re, - tornate a casa e domandate al babbo se lui è contento. E [ 123] poi, contento o no, comando io, e ditegli che questo 'gli è il mi' piacimento e la mi' volontà. Grisèlda se n'arritornò diviato a casa, e al babbo gli disse quel che il Re voleva. Dice il contadino a quella nova: - Se il Re ti vole per isposa, nun c'è da opporre. Ma senti, bada a quel che tu fai, perché il Re poi nun sarà contento di te. A ugni bon fine tu m'ha' da lassare codesti tu' panni di lendinella, e i' te gli attaccherò qui a un cavicchio, e caso mai tu avessi a rivienirtene a casa, tu gli troverai al su' posto per rimettersegli al bisogno. E così difatto e' feciano, e Grisèlda si sposò al Re e diventò Regina e la su' moglie legittima. Ora si dove sapere che nella città reale costumava, che quando si facevano giudizi di sentenzie ne' tribunali, anco la moglie del Re sprimeva il su' parere; e gli accadette, che quando il Re sentenziava, Grisèlda gli era sempre contraria, e al Re quest'opporsi accosì gli era vienuto dimolto a noia. Sicché dunque il Re disse un bel giorno alla Regina: - S'ha da far finita; da oggi 'n là ti proibisco di dar sentenzia assiem con meco. I' nun vo' esser sempre contrariato da te. Che tu smetta di metter bocca negl'interessi dello Stato. Alla Regina gli conviense ubbidire, e il Re 'gli andeva solo in tribunale. In questo frattempo successe che ci fusse una fiera, come sarebbe quella di settembre a Prato, un fierone, e dappertutto le parti ci vienivano le genti per vendere e comperare robbe e bestiami. Ci volse andare anco un fattore di lontano, perché aveva una bellissima cavalla pregna e contava d'esitarla a bon guadagno. Dunque il fattore si mettiede in viaggio e arrivò fora della porta prima che cominciassi la fiera, e per nun nentrar subbito dientro con la bestia strafelata e stracca, si fermò a un contadino. Dice: - Ci averesti voi da rimettermi un po' la bestia, 'ntanto ch'i' vo a vedere la città 'nnanzi che la fiera principi? Arrispose quel bifolco: - Sì, lassatela pure. Ma in nella stalla del posto nun ce n'è più; è tutto pieno: vo' l'avete a legare accosì sotto il portico al mi' carro; ché si sciolga nun c'è pericolo. Il fattore dunque legò la su' cavalla al carro, gli buttò del fieno, e poi se n'andiede a gironi per la città. Doppo che il fattore 'gli ebbe girato un bel pezzo, quando [12 4] fu ora, se ne ritornò sotto 'l portico a pigliar la cavalla per menarla in sulla fiera, e trovò che in quel mentre gli aveva figliato un bel muletto; sicché, tutt'allegro il fattore, s'accosta per condurre via le du' bestie; ma deccoti a un tratto il contadino, che lo ferma e gli dice: - Padrone, signor fattore: la cavalla la meni pur via con seco, ma il muletto è mio. - Come vostro, - scrama il fattore; - se l'ha figliato la mi' cavalla? - Che cavalla! - berciò il contadino. - Qui 'gli è lo sbaglio; vo' fat'erro; il muletto l'ha figliato il carro. Insomma, nascette una lite buscherona, che nun rifiniva mai, sicché tutti e dua i leticatori se n'andiedano davanti al Re, perché lui decidessi; e il Re, sentute le ragioni delle parti, sentenziò che il muletto e' l'aveva figliato il carro e che però gli era del contadino. Figuratevi la disperazione del fattore, ché gli pareva dimolto ingiusta la sentenzia del Re! E dappertutta la città lui si lamentava di questa sentenzia, e tutti lo compativano e gli dicevano: - Eh! quando la Regina deva anco lei il su' parere, di questi simili sbagli nun ne succedevano davvero. Dice il fattore: - Che nun gli si pole parlar punto alla Regina? Arrisponde uno: - Che! 'gli è quasi impossibile. E poi, che vole? Lei nun sentenzia più, perché il Re l'ha proibita. Dice il fattore: - Se mi rinuscissi però, i' gli vorrei almanco parlare. E s'incammina in verso il palazzo reale. Arrivo che fu il fattore al palazzo reale, s'accosta a un cammerieri e gli domanda: - Galantomo, che si potrebb'egli parlar du' parole alla Regina? Arrisponde il cammerieri: - Che! 'gli è difficile, perché il Re l'ha proibita di dar sentenzie. In ugni mo', i' mi posso anco provare a fargli motto, e sentire se lei vole ricevervi. E difatto sale su al quartieri della Regina, e gli dice che c'è un omo che gli vole parlare. Fa la Regina: - Vienga pure, i' l'ascolterò. Dunque il fattore monta le scale e lo menano in nella stanza della Regina, e doppo gl'inchini e le reverenzie, lui gli racconta la brutta sentenzia del Re e gli addomanda se c'è un rimedio. Dice la Regina: - Sentite, i' nun posso metterci bocca, perché il Re m'ha proibito gli affari dello Stato. Ma un consiglio, purché vo' nun dite d'addove viene, ve lo posso anco [125] dare. Arrisponde il fattore: - Faccia lei; m'aiuti come pole, e nun si dubiti, ché starò zitto, e nun lo dirò a nissuno il consiglio che lei mi dà. Dice allora la Regina: - Il Re domani va a caccia fora della porta in un salvatico, addove 'n mezzo c'è un lago, ma secco di questa stagione, 'n senza un filo d'acqua. Fate accosì voi. Piglierete una zucca da pescatore e ve la metterete a cintola, e con una rete pescate. Il Re, in nel vedervi pescare in un lago alido a quel mo', dapprima riderà, e poi v'addomanderà, "perché pescate voi addove dell'acqua nun ce n'è?" E allora vo' gli avete a rispondere: "Maestà, 'gli è più facile che col tempo i' pigli de' pesci qui all'asciutto, di quel che un carro partorisca mai un mulo." Vo' vederete che ne nascerà qualche cosa. Disse il fattore tutto racconsolato: - Sicuro, i' farò come lei mi comanda. La mattina doppo il fattore con la su' zucca penzoloni alle reni e la rete infra le mane se n'andiede al lago insenz'acqua, si siede in sulla sponda, e buttava la rete e la ritirava 'n su, come se dientro ci fussano de' pesci chiappati. Deccoti in quel mentre il Re col su' séguito, e vede quell'omo lì acciaccinato a simil lavoro; e però comincia a ridere forte, e poi gli addomanda: - Oh! che siete insenza cervello, che pescate in un lago asciutto accosì? - Eh! che vole, Maestà! - arrispose il fattore: - 'gli è vero, i' pesco addove dell'acqua nun ce n'è. Ma vede, Maestà! i' ho un'idea per il capo, che sia dimolto più facile col tempo trovare qui de' pesci, di quel che un carro possa mai figliare un muletto. Scrama il Re in nel sentire quella risposta: - Tu sie' stato dalla Regina! Questo 'gli è un consiglio della Regina! Nun c'è che lei capace di questi sentimenti. I' ho capito, e so quel che ho da fare. Infrattanto, te vientene subbito al mi' tribunale. Vanno diviato al tribunale, e fatto chiamare anco il contadino, il Re diede un'altra sentenzia, e il fattore riebbe il su' muletto, che era giusto, perché era di lui. Quando il Re fu ritorno dal tribunale al su' palazzo, chiamò Grisèlda e gli disse: - I' t'avevo proibito di metter bocca in negli affari di Stato; ma te nun m'ubbidisci, e nun posso campare insenza essere scontraddetto da te. Sa' tu quel che è. Te devi arritornartene a casa tua. Piglia quattrini, piglia [126] gioie, piglia anco la cosa che t'è più cara dientro al palazzo reale, ma fora! Ché qui nun ci si pole stare tutt'e dua assieme. Arrisponde Grisèlda: - Come vole Sua Maestà. Ma però i' gli chieggo una grazia sola, di aspettare a domani di andarmene. Di sera sarebbe propio vergogna per lei e per me, e nascerebbano dimolti chiacchiericci e mormorii 'ntra la gente. Dice il Re: - Concessa la grazia. No' si cenerà per l'ultima volta assieme, e poi domani te a casa tua. Nun mi rimuto. Vienuta la sera fu al solito 'mbandita la mensa reale, e Grisèlda 'gli aveva ordinato che ci fussano dimolte bottiglie in tavola, e lì mesci al Re, che finalmente, bevi bevi 'nsenza discrizione, cascò addormito in sulla poltrona, da parere un masso. Dice allora Grisèlda a' servitori: - Pigliate la poltrona con quel che c'è sopra e vienitemi dietro: ma che nimo nun sia ardito di parlare. I servitori presano la poltrona a braccia con il Re a quel mo' appioppato e s'avviorno con la padrona, che sortì dal palazzo e poi andiede fora della porta della città, e nun si fermò che a casa sua, quand'era notte fitta. Picchia, e su' padre domanda dal di dientro: - Chi è a quest'ora? - Apritemi, babbo, ch'i' son io, - arrispose Grisèlda. Il contadino s'affaccia alla finestra in nel sentire la voce della figliola: - Come, sie' te a quest'ora che qui? I' te l'avevo ditto che un bel giorno tu averesti dovuto arritornare a casa tua! I' feci pur bene a serbarti i panni di lendinella. Son sempre qui, veh! attacchi spenzoloni al cavicchio in cammera tua. Scrama Grisèlda a quel chiacchiericcio: - Gnamo, via! meno discorsi e apritemi. Il contadino scende dunque e apre, e vede tutta quella gente; nentrano in casa, e Grisèlda si fa portare in cammera il Re e lo fa mettere spogliato nel su' propio letto; poi licenzia i servitori, e anco lei va a letto accanto del Re. Quando fu la mezzanotte il Re si destò, e gli pareva di star male in sulle materasse, e si sentiva doliccicare dappertutto. Tasta e s'accorge che ha la moglie con seco. Dice allora il Re: - Grisèlda, oh! nun t'avevo ditto che avevi da ire a casa tua? - Sì, Maestà, - arrisponde lei: - ma nun è anco giorno. Dorma, dorma. Il Re si riaddormì. A bruzzolo il Re si desta daccapo, alza gli occhi e vede la luce [ 127] attraverso 'l tetto. Nun sapeva lui quel che si pensare. Guarda d'attorno e s'accorge che nun è la su' cammera del palazzo reale, sicché addimanda alla moglie: - Grisèlda, che lavoro è egli questo? Oh! addove no' siemo? Dice Grisèlda: - Sua Maestà nun mi disse che dovevo arritornarmene a casa mia? Deccomi, ci sono. Nun mi disse che portassi pur con meco la cosa che più mi garbava nel palazzo? Siccome la cosa che più mi garba è Sua Maestà, accosì i' ho porto con meco qui anco lei. I' l'ho obbedita appuntino in tutti i su' ordini. Dice il Re: - Tu sie' propio una donna a modo, Grisèlda. Il mammalucco son io, che fo anco dell'ingiustizie. Via, leviamoci e torniamo al palazzo, e da qui 'nnanzi i' ti vo' sempre a dire i tu' pareri e a sentenziare con meco al tribunale. Allora si levorno e se n'andiedano diviato al palazzo reale, e la Regina deva i su' pareri e le sentenzie come da prima, e tutto il popolo fu dimolto contento. E accosì que' dua camporno lungo tempo, e
Se ne stettano e se la godettano, E a me nulla mi dettano.