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V.
Era giorno, quando uno dei miei vicini mi gridò nell’orecchio: “Caballero!” — “Siamo a Madrid?” domandai svegliandomi. “Non ancora” mi rispose “ma guardi!” Mi voltai verso la campagna e vidi lontano un mezzo miglio, alle falde d’un alto monte, il convento dell’Escuriale, illuminato dai primi raggi del sole. Le plus grand tas de granit qui existe sur la terre, come lo chiamò un viaggiatore illustre, non mi parve, a primo aspetto, quell’immenso edifizio che il popolo spagnuolo considera come l’ottava meraviglia della terra. Nondimeno misi fuori il mio: — Oh! — come altri viaggiatori che lo vedevano per la prima volta, riserbando tutta la mia ammirazione al giorno che l’avrei visto da vicino. Dall’Escurial a Madrid la strada ferrata attraversa una pianura arida, che rammenta quella di Roma. “Non ha mai veduto Madrid, lei?” mi domandò il vicino. — Risposi che no. — “Parece imposible!” esclamò il buon Spagnuolo, e mi guardò in aria di curiosità, quasi dicendo fra sè: — Oh vediamo un po’ com’è fatto un uomo che non ha mai visto Madrid! — Poi prese a enumerarmi le grandi cose che avrei veduto: che passeggi! che caffè! che teatri! che donne! Per chi abbia un trecento mila lire da spendere, non c’è di meglio di Madrid: è un gran mostro che vive di patrimonii; se fossi in lei vorrei prendermi il gusto di cacciargli in gola anche il mio. — Io premetti colla mano il mio floscio portamonete, e mormorai: — Povero mostro! — “Ci siamo!” gridò lo spagnuolo “guardi fuori!” Misi la testa fuor del finestrino. “Quello là è il palazzo reale!” Vidi sopra un’altura una mole immensa; ma chiusi gli occhi subito, perchè mi batteva il sole sul viso. Tutti s’alzarono, e cominciò quel solito tramenío
«Di pastrani, di scialli e d’altri cenci,»
che impedisce quasi sempre la prima vista delle città. Il treno si ferma; scendo, e mi trovo in una piazza piena di carrozze, in mezzo a una folla rumorosa; cento mani si stendono sulla mia valigia, cento bocche mi urlan nell’orecchio; è un casa del diavolo di facchini, di carrozzai, di ciceroni, di fattorini di casas de huespedes, di guardie, di ragazzi. M’apro il passo a colpi di gomito, mi caccio in un omnibus pieno di gente, e via. Si va su per uno stradone, si attraversa una gran piazza, si infila una strada larga e diritta, si arriva alla Puerta del Sol. È un colpo d’occhio stupendo! È una vastissima piazza
semicircolare, circondata di alti edifizi, nella quale sboccano, come dieci torrenti, dieci grandi strade; e da ogni strada una continua onda rumorosa di popolo e di carrozze; e tutto quello che vi si vede è proporzionato alla vastità del luogo; i marciapiedi larghi come vie, i caffè ampi come piazze, una vasca di fontana grande come un lago; e in ogni parte una folla fitta e mobilissima, un gridío assordante, un non so che di allegro e di festivo nei volti, nei gesti, nei colori, che fa sì che non vi paia straniera nè la gente, nè la città, e vi mette addosso una smania di mescervi in quello strepito, di salutar tutti, di correr qua e là, piuttosto per riconoscere cose e persone, che per vederle la prima volta. Scendo a un albergo, n'esco subito, mi metto a girare per la città, alla ventura. Non grandi palazzi, non antichi monumenti d'arte; ma strade spaziose, pulite, gaie, fiancheggiate da case dipinte a vivi colori, interrotte da piazze di mille forme diverse, quasi tracciate a caso, e in ogni piazza un giardino, una fontana, una statuetta. Alcune strade in leggiera salita, di modo che, entrandovi, si vede in fondo il cielo, e par che sbocchino nell'aperta campagna; ma giunti sul punto più alto, un'altra lunga strada si stende allo sguardo. Ad ogni poco, crocicchi di cinque, sei, fino a otto vie, e qui un incrociarsi continuo di carrozze e di gente; i muri coperti, per lunghi tratti, di cartelloni di spettacoli; nelle botteghe, un va e vieni incessante; i caffè, stipati; in ogni parte il brulichío d'una grande città. La strada d'Alcalà, larghissima, da parer
quasi una piazza rettangolare, divide Madrid per mezzo, dalla Puerta del Sol verso oriente, e sbocca in una vasta pianura, che si stende lungo tutto un lato della città, e contiene giardini, passeggi, piazze, teatri, circo di tori, archi trionfali, musei, palazzine, fontane. Salgo in una carrozza, e dico al vetturino: — Vuela! — Passo accanto alla statua del Murillo, risalgo per la strada Alcalà, infilo la strada del Turco, dove fu assassinato il generale Prim; attraverso la piazza delle Cortes, dove sorge la statua di Michele Cervantes; sbocco nella piazza Maggiore, dove accendeva i suoi roghi l'Inquisizione; torno addietro, e passo dinanzi alla casa di Lopez de Vega; riesco nella vasta piazza d'Oriente in faccia al palazzo reale, dove si innalza la statua equestre di Filippo IV in mezzo a un giardino circondato di quaranta statue colossali; rimonto verso il centro, attraversando altre larghe strade, e piazze allegre, e crocicchi pieni di gente; e ritorno finalmente all'albergo dicendo che Madrid è grande, gaia, ricca, popolosa e simpatica, e che la vorrò veder tutta, e starci un pezzo, e godermela fin che lo consentano i registri di cassa e la mitezza della stagione.
In capo a pochi giorni, un buon amico mi trovò una Casa de huespedes, e mi ci andai a installare. Queste case di ospiti non son altro che famiglie che dan da mangiare e da dormire a studenti, artisti, forestieri, a prezzi differenti, si capisce, secondo come ci si dorme e come si mangia; ma sempre a miglior prezzo che gli alberghi, coll'inestimabile vantaggio che ci si respira un'aria di casa, ci si stringono amicizie, e vi si è trattati piuttosto come gente della famiglia che come dozzinanti. La padrona di casa era una buona signora sulla cinquantina, vedova d'un pittore che aveva studiato a Roma, a Firenze e a Napoli, ed aveva serbato per tutta la vita una ricordanza grata e affettuosa d'Italia. Anch'essa, naturalmente, nutriva per il nostro paese una vivissima simpatia, e me lo dimostrò coll'assistere ogni giorno al mio desinare, raccontandomi vita, morte e miracoli di tutti i suoi parenti e di tutti i suoi amici, come se fossi stato il solo confidente ch'ella avesse in Madrid. Pochi spagnuoli intesi parlare così spedito, così franco, e con tanta abbondanza di frasi, di motti, di paragoni, di proverbi, di parole. Sui primi giorni ne fui sconcertato; capivo poco; dovevo pregarla ogni momento di ripetere; non riuscivo a farmi intendere sempre; m'accorsi in una parola, che studiando la lingua sui libri, avevo sciupato di molto tempo a inzepparmi la testa di frasi e di vocaboli che non occorrono quasi mai nella conversazione ordinaria; mentre ne avevo lasciati da parte altri moltissimi, che sono indispensabili. Dovetti dunque ricominciare a raccogliere, a notare, e sopratutto a star sempre coll'orecchio teso per tirar profitto, quanto potevo, dai discorsi della gente. E mi persuasi di questa verità: che si può stare dieci anni, trenta, quaranta in una città straniera; ma che se non si fa uno sforzo da principio, se per molto tempo non si continua a studiare, se non si sta sempre, come diceva il Giusti, «con tanto d'occhi aperti,» o non s'imparerà mai a parlare la lingua, o si parlerà sempre male. Conobbi a Madrid degl'Italiani vecchi che stavano in Spagna dalla loro prima giovinezza, e che parlavano lo spagnuolo da cani. Già, non è punto, neanco per noi Italiani, una lingua facile, o per dir meglio, presenta la grande difficoltà delle lingue facili: che non è lecito parlarle meschinamente, perchè non è indispensabile parlarle per farsi intendere. L'Italiano che vuol parlare spagnuolo in una conversazione di gente colta, dove tutti lo capirebbero se parlasse francese, bisogna che giustifichi il suo ardimento parlando con scioltezza e con garbo. Ora la lingua spagnuola, appunto perchè molto più affine alla nostra che la francese, è assai più difficile a parlarsi presto, e per così dire, ad orecchio, senza dir degli spropositi; poichè si dice, ad esempio, assai più facilmente propre, mortuaire, délice, senza pericolo che ci scappi detto proprio, mortuario, delizia, di quello che non si dica propio, mortuorio, delicia. Si casca nell'italiano senza accorgersene, si inverte la sintassi ad ogni istante, si ha sempre la propria lingua nell'orecchio e sulle labbra, che ci inciampa, ci confonde, ci tradisce. Nè la pronunzia spagnuola ci è men dura della francese; la jota araba, facile a pronunciarsi quand'è sola, è difficilissima quando ne cascan due in una parola, o parecchie in una proposizione; la zeta che si pronuncia come pronunziano i blesi la esse, non si acquista che dopo un esercizio lungo, ed anco paziente, perchè è un suono che sulle prime ci riesce sgradevolissimo, e molti, anche sapendo, non lo voglion far sentire. Ma se c’è una città in Europa dove si possa imparar bene la lingua del paese, quella città è Madrid, e si può dir lo stesso di Toledo, di Valladolid, di Burgos. Il popolo parla come i letterati scrivono; le differenze di pronunzia fra la gente colta e la plebe dei sobborghi sono leggerissime; e lasciando anche da parte quelle quattro città, la lingua spagnuola è incomparabilmente più parlata, più comune, e perciò più determinata, e per conseguenza più efficace nei giornali, sul teatro e nella letteratura popolare, che la lingua italiana. V’è in Spagna il dialetto valenziano, il catalano, il galliziano, il murciano, e l’antichissima lingua delle provincie basche; ma si parla spagnuolo nelle due Castiglie, nell’Aragona, nell’Estremadura, nell’Andalusia, cioè in cinque grandi provincie. Il frizzo gustato a Saragozza è gustato anche a Siviglia; la frase popolesca che colpisce la platea in un teatro di Salamanca, ottiene lo stesso effetto in un teatro di Granata. Dicono che la lingua spagnuola d’oggigiorno non è più quella del Cervantes, del Quevedo, del Lopez de Vega; che la lingua francese l’ha imbastardita; che Carlo V, se rivivesse, non direbbe più che è la lingua da parlarsi con Dio; e che Sancho Panza non sarebbe più nè capito nè gustato. Ah! chi per poco abbia bazzicato nelle gargotte e nei teatrucci dei sobborghi, si accomoda a malincuore a quella sentenza! Passando dalla lingua al palato, mi ci volle un po' di buona volontà per abituarmi a certe salse e intingoli e basoffie della cucina spagnuola; ma mi ci abituai. I Francesi, che in punto mangiare sono schizzinosi come ragazzi mal avvezzi, ne gridano ira d'Iddio; il Dumas dice che in Spagna ha patito la fame; in un libro sulla Spagna che ho sott'occhio, è scritto che gli Spagnuoli non vivono che di miele, di funghi, d'uova e di lumache. Son tutte corbellerie. Essi possono dire altrettanto della cucina nostra: ho conosciuti molti spagnuoli ai quali il veder mangiare maccheroni al sugo moveva lo stomaco. Impasticciano un po', abusano un po' del grasso, condiscono un po' troppo forte; ma via, tanto da cavar l'appetito al Dumas, compicciano. Son maestri, fra le altre cose, di piatti dolci. Il loro puchero poi, il piatto nazionale, mangiato tutti i giorni, da tutti, in tutto il paese, dico la verità, lo divoravo con una golosità rossiniana. Il puchero è, rispetto all'arte culinaria, quello che è rispetto alla letteratura un'antologia: c'è un po' di tutto, e del meglio. Una buona fetta di lesso di vacca forma come il nucleo del piatto; intorno, un'ala di pollo, un pezzo di chorizo, lardo, erbaggi, prosciutto; sotto, sopra e in tutti gl'interstizi, garbanzos. I buon gustai pronunziano con reverenza il nome di garbanzos. Sono una specie di ceci, ma più grossi, più teneri, più saporiti; ceci, direbbe uno stravagante, caduti quaggiù da qualche mondo dove una vegetazione eguale alla nostra è fecondata da un sole più potente. Codesto è il puchero usuale; ma ogni famiglia lo modifica secondo la borsa; il povero si contenta della carne e dei garbanzos; il signore ci aggiunge cento bocconcini squisiti. In fondo, è piuttosto un desinare che un piatto; e però moltissimi non mangiano altro; un buon puchero e una bottiglia di Val de peñas posson bastare a chicchessia. Non parlo degli aranci, dell'uva di Malaga, degli asparagi, dei carciofi e d'ogni sorta di legumi e di frutti, che tutti sanno essere in Spagna bellissimi e buonissimi. Cionondimeno, gli Spagnuoli mangian poco; e benchè nella loro cucina predomini il pepe, la salsa forte, la carne salata; benchè mangino dei chorizos, che, come dicon essi, levantan las piedras, ossia bruciano gl'intestini; bevono pochissimo vino. Dopo la frutta, invece di star lì a centellinare una buona bottiglia, pigliano per lo più una tazza di caffè e latte, e raramente bevon vino la mattina. Alle tavole rotonde degli alberghi non ho mai veduto uno spagnuolo vuotar la bottiglia; ed io che la vuotavo, ero guardato con aria di stupore, come un beone scandaloso. È raro, nelle città di Spagna, anco nei giorni di festa, incontrare un ubriaco; e per questo appunto, avuto riguardo al sangue focoso e al liberissimo commercio che vi si fa dei coltelli e dei pugnali, seguon assai meno risse con ferimenti e uccisioni, di quello che fuor di Spagna non si creda.
Trovata la casa e la cucina, non mi restò più altro pensiero che quello di zonzare per la città, colla Guida in tasca e il sigaro di tres cuartos in bocca,
«...... mestier facile e piano.»
I primi giorni non potevo allontanarmi dalla piazza della Puerta del Sol; ci stavo ore ed ore, e mi ci divertivo tanto, che avrei voluto passarci la giornata. È una piazza degna della sua fama; non tanto per la sua vastità e la sua bellezza, quanto per la gente, per la vita, per la varietà dello spettacolo che presenta a tutte le ore del giorno. Non è una piazza come le altre: è insieme un salone, un passeggio, un teatro, un'accademia, un giardino, una piazza d'armi, un mercato. Dallo spuntar del giorno fino a un'ora dopo mezzanotte, v'è una folla immobile, e una folla che va e viene per le dieci grandi strade che vi metton capo, e un inseguirsi, e un incrociarsi di carrozze che dà il capo giro. Là convengono i negozianti, là i demagoghi disoccupati, là gl'impiegati smessi, i vecchi pensionati, i giovani eleganti; là si traffica, si discorre di politica, si fa all'amore, si passeggia, si leggono i giornali, si dà la caccia ai debitori, si cercan gli amici, si preparano le dimostrazioni contro il Ministero, si coniano le false notizie che fanno il giro della Spagna, si tesse la cronaca scandalosa della città. Sui marciapiedi, che son larghi da poterci far passare quattro carrozze di fronte, bisogna aprirsi il passo a forza: nello spazio d'una lastra di pietra vedete una guardia civile, un venditor di fiammiferi, un sensale, un povero, un soldato, tutti in un mazzo. Passano frotte di scolari, serve, generali, ministri, contadini, toreros, signore; vagabondi spiantati che vi domandan l'elemosina nell'orecchio per non farsi scorgere, mezzani che vi guardano con occhio interrogativo, donne leggere che vi urtano al gomito; da tutte le parti cappelli in aria, sorrisi, strette di mano, saluti allegri, grida di: — Largo, — di facchini carichi e di merciaiuoli col botteghino al collo; urli di venditori di giornali, strilli di acquaiuoli, squilli di corno delle diligenze, chiocchi di frusta, rumor di sciabole, tintinnío di chitarre, canti di ciechi. Poi passano i reggimenti colle bande musicali, passa il Re, s’innaffia la piazza con immensi getti d’acqua che s’incrociano nell’aria, vengono i portatori d’avvisi ad annunciar gli spettacoli, irrompono sciami di monelli con bracciate di supplementi, esce un esercito d’impiegati dai Ministeri, ripassan le bande musicali, le botteghe s’illuminano, la folla si fa più fitta, i colpi di gomito spesseggiano, cresce il vocío, lo strepito, il moto. E non è moto di popolo affaccendato; è vivacità di gente allegra, è gaiezza carnevalesca, ozio inquieto, ribollimento, febbriciattola di piacere, che vi si attacca e vi tien lì o vi spinge in giro come un arcolaio senza lasciarvi uscir dalla piazza; una curiosità che non si stanca mai, una beata voglia di spassarsela, di non pensare a nulla, d’ascoltar chiacchiere, di bighellonare, di ridere. Tale è la famosa piazza di Puerta del Sol.
Un’ora passata là basta per far conoscer di vista, nei suoi varii aspetti, il popolo di Madrid. Il basso popolo veste come nelle nostre grandi città; i signori, se si toglie la cappa che portan l’inverno, si attengono al figurino di Parigi; e son tutti, dal duca allo scrivano, dallo sbarbatello al vecchio tentenna, lindi, azzimati, impomatati, inguantati, come uscissero allora allora dal gabinetto di toeletta. Somigliano da questo lato ai napoletani: belle capigliature nere, barbe coltissime, mani e piedi di donna. Raro il vedere un cappello basso: tutti cappelli a staio; e poi mazze, catene, ciondoli, spille, e nastri all’occhiello a migliaia. Le signore, fuor che in certi giorni di festa, vestono anch’esse alla francese; le donne del medio ceto portano ancora la mantiglia; gli antichi stivaletti di raso, la peineta, i colori vivi, il costume nazionale, in una parola, è sparito. Son però sempre quelle donnine tanto decantate per i loro grandi occhi, per le loro mani di bimbe, per i loro piedini; di capelli nerissimi, ma di pelle meglio bianca che bruna, bene appettate, diritte, svelte, vivaci.
Per passare in rassegna il bel sesso di Madrid, bisogna andare alla passeggiata del Prado, che è per Madrid quello che son per Firenze le Cascine. Il Prado propriamente detto, è un larghissimo viale, non molto lungo, fiancheggiato da viali minori, che si stende ad oriente della città, accanto al famoso giardino del Buen retiro, ed è chiuso alle due estremità da due enormi vasche di pietra, l’una sormontata da una Cibele colossale, assisa sul cocchio, tratto dai cavalli marini; l’altra da un Nettuno di eguale grandezza; tutti e due incoronati di copiosi zampilli che s’incrociano e ricascano graziosamente con allegro mormorìo. Questo grande viale, assiepato lungo i lati da migliaia di seggiole, e da centinaia di banchi d'acquaioli e di aranciai, è la parte più frequentata del Prado, e si chiama il Salon del Prado. Ma il passeggio prosegue oltre la fontana di Nettuno; vi sono altri viali, altre fontane, altre statue; si va in mezzo agli alberi e ai zampilli fino alla chiesa di Nostra Signora di Atocha, la famosa chiesa colmata di doni da Isabella II dopo l'attentato del 2 febbraio del 1852, nella quale il re Amedeo andò a visitare il cadavere del generale Prim. Di là si abbraccia collo sguardo un vasto tratto della deserta campagna di Madrid e le montagne nevose del Guadarrama. Ma il Prado è il passeggio più famoso, non il più bello nè il più vasto della città. Sul prolungamento del Salone, al di là della fontana di Cibele, si stende per quasi due miglia il passeggio di Recoletos, fiancheggiato a destra dal vasto e ridente borgo di Salamanca, il borgo dei ricchi, dei deputati e dei poeti; a sinistra da una lunghissima catena di palazzine, di villette, di teatri, di edifizi nuovi coloriti di vivi colori. Non è un passeggio solo, son dieci, l'uno accanto all'altro, e l'un più bello dell'altro; strade per le carrozze, strade pei cavalli, viali per la gente che cerca la folla, viali pei solitarii, divisi da sterminate siepi di mortella, fiancheggiati, interrotti da giardini e da boschetti, nei quali sorgon statue e fontane, e s'intersecano sentierini misteriosi. I giorni di festa vi si gode uno spettacolo incantevole: da un capo all'altro dei viali, son due processioni opposte di gente, di carrozze, di cavalli; nel Prado si può appena camminare; i giardini sono affollati di migliaia di ragazzi; suonan le musiche dei teatri diurni; in ogni parte si sente un mormorío di fontane, un fruscío di vesti, un gridío di bambini, uno scalpitío di cavalli; non v’è solo il movimento, e la gaiezza d’una passeggiata; v’è il lusso, lo strepito, il turbinío, l’allegrezza febbrile d’una festa. La città, in quell’ore, è deserta. Sull’imbrunire, tutta quell’immensa folla si riversa nella gran strada Alcalà, e allora dalla fontana di Cibele fino alla Puerta del Sol non si vede che un mare di teste, solcate da una fila di carrozze a perdita d’occhio.
Come per le passeggiate, così in fatto di teatri e di spettacoli, Madrid è, senza dubbio, una delle prime città del mondo. Oltre il gran teatro dell’Opera, che è vastissimo e ricchissimo; oltre il teatro della Commedia, il teatro della Zarzuela, il Circo di Madrid, che son tutti teatri di prim’ordine, per ampiezza, eleganza, e concorso di gente; v’è una corona di teatri minori per le compagnie drammatiche, per le compagnie equestri, per le accademie musicali, per i vaudevilles, teatri a sala, a palchi, a gallerie, grandi e piccini, signorili e plebei, per tutte le borse, per tutti i gusti e per tutte le ore della notte; e non ce n’è uno fra tanti che non sia ogni sera affollato. Poi v’è il Circo dei Galli, il Circo dei Tori, i balli popolari, i giochi; qualche giorno vi sono fino a venti spettacoli diversi, a cominciar da mezzodì fino a poco prima dell’alba. Lo spettacolo dell’Opera, per il quale il popolo spagnuolo è appassionato, è sempre splendido, non solamente nella stagione del carnevale, ma in tutte le stagioni: nel tempo ch’io fui a Madrid, cantava la Fricci al teatro della Zarzuela e lo Stagno al Circo, l’una e l’altro, circondati di valentissimi artisti, con orchestre eccellenti e grandiose apparature. I più celebri cantanti del mondo fanno a gara per andar a cantare nella Capitale della Spagna; gli artisti vi sono ricercati, festeggiati; la passione della musica è la sola che può stare in bilancia colla passione dei tori. Anche il teatro della Commedia ha gran voga. L’Hatzembuch, il Breton de los Herreros, il Tamayo, il Ventura, il D’Ayala, il Guttierrez, ed altri moltissimi scrittori drammatici, quali morti, quali viventi, noti anche fuori di Spagna, hanno arricchito il teatro moderno d’un gran numero di commedie, che pur non avendo quel profondo stampo nazionale che rese immortali le opere drammatiche del gran secolo della letteratura spagnuola, son piene di calore, di sale, di sapore di lingua, e senza confronto più sanamente educative delle commedie francesi. E si rappresentan le commedie moderne, ma non si dimenticano le antiche: negli anniversarii del Lopez de Vega, del Calderon, del Moreto, del Tirso de Molina, dell’Alarcon, di Francesco de Rojas, e degli altri grandi luminari del teatro spagnuolo, si rappresentano con pompa solenne i loro capolavori. Gli attori però non finiscono di soddisfare gli autori; partecipano dei difetti dei nostri: moto, grido, singhiozzo soverchio; e molti preferiscono ancora i nostri, perchè ci trovan più varietà di cadenze e di accenti. Oltre la tragedia e la commedia, si rappresenta poi un componimento drammatico affatto spagnuolo, lo zainete, nel quale fu maestro un Ramon de la Cruz, una specie di farsa, che è per lo più una rappresentazione di costumi andalusi, con personaggi della campagna e del volgo, ed attori che imitano il vestire, l'accento, i modi di quella gente con una maestria ammirabile. Le commedie vengon tutte stampate, e son lette avidamente, anche dal popolo minuto; i nomi degli scrittori sono popolarissimi; la letteratura drammatica, in una parola, è oggi ancora, come altre volte, la più diffusa e la più ricca.
V'è pure molta passione per la Zarzuela, che si rappresenta usualmente nel teatro a cui dà il nome, e ch'è una composizione di mezzo tra la commedia e il melodramma, tra l'opera in musica e il vaudeville, con una gradevole alternativa di prosa e di verso, di recitazione e di canto, di serio e di buffo, composizione esclusivamente spagnuola, e dilettevolissima. In altri teatri si rappresentano commedie politiche, miste di canto e di prosa del genere delle riviste dello Scalvini, farse satiriche di argomenti del giorno, una specie di autos sacramentales, con scene della passione di Gesù Cristo, nella Settimana Santa; e balli e ballonzoli e pantomime d'ogni natura. Nei teatri piccoli si danno tre o quattro rappresentazioni per sera, d'un'ora l'una, e gli spettatori si rinnovano ad ogni rappresentazione. Nel teatro Capellanes, famigerato, si balla tutte le sere dell'anno un kan-kan scandaloso oltre ogni oscena immaginazione, e là accorrono i giovinastri, le donne ardite, i vecchi libertini dal naso aggrinzato, armati di lenti, di occhiali, di cannocchiali, e di quanti istrumenti ottici valgano ad avvicinare le forme, come dice l'Aleardi, pubblicate dal palco.
Dopo il teatro, si trovan tutti i caffè pieni di gente, la città illuminata, le strade corse da innumerevoli carrozze, come sul far della sera. Uscendo dal teatro, in un paese straniero, si è un po' tristi: si son viste tante belle creature, e nessuna ci degnò d'uno sguardo! Ma un italiano, a Madrid, trova un conforto. Si cantan quasi sempre opere italiane, e si cantano in italiano; così che tornando a casa sentite canterellare colle parole della vostra lingua le ariette che vi son famigliari fin dall'infanzia; sentite un palpito di qui, un fiero genitor di là, un tremenda vendetta più oltre; e quelle parole vi fan l'effetto di saluti di gente amica. Ma per arrivar a casa, che fitta siepe di gonnelle dovete scavalcare! Si dà la palma a Parigi, e non dubito che la meriti; ma neanco Madrid non canzona; e che ardimento, e che parole di fuoco, e che provocazioni imperiose! Finalmente arrivate davanti a casa vostra; ma non avete la chiave della porta. "Non si confonda," vi dice il primo cittadino che incontrate, "vede là in fondo alla strada quella lanterna? L'uomo che la porta è un sereno, e i serenos hanno le chiavi di tutte le case;" Allora voi gridate ad alta voce: — Sereno! — e la lanterna si avvicina, e un uomo con un enorme mazzo di chiavi tra le mani, datavi un'occhiata scrutatrice, v'apre la porta, vi fa lume fino al primo piano e vi augura la buona notte. Così tutte le sere: con una lira al mese voi siete libero dalla briga di portar in tasca le chiavi di casa. Il sereno è un impiegato del Municipio, ve n'è uno per ogni strada, ed ognuno ha un fischietto; se vi piglia foco in casa o i ladri vi fan saltare la serratura, voi non avete che a buttarvi alla finestra e gridare: — Sereno! Aiuto! — Il sereno che è nella strada fischia, i sereni delle strade vicine fischiano, in pochi minuti tutti i sereni del quartiere accorrono in vostro soccorso. A qualunque ora della notte voi vi svegliate, sentite la voce del sereno che ve l'annunzia, soggiungendo che fa bel tempo, o che piove, o che sta per piovere. Quante cose sa e quante ne tace questa notturna sentinella! Quanti sommessi addii amorosi non sente! Quante letterine non vede cader dalle finestre, e chiavette saltellare sul lastrico, e mani trinciar l'aria in atto misterioso, e amanti imbacuccati infilar le porticine, e finestrelle illuminate oscurarsi ad un tratto, e neri fantasmi dileguare, al primo chiarir dell'alba, lungo i muri!...
Non dissi che dei teatri: a Madrid v'è un concerto musicale, si può dire, ogni giorno; concerti nei teatri, concerti nelle sale accademiche, concerti nelle strade, e poi una folla di suonatori ambulanti che vi assordano a tutte le ore del giorno. Dopo tutto questo viene fatto di dimandare come mai un popolo tanto infatuato della musica, da averne bisogno, sto per dire, come dell’aria che respira, non abbia dato all’arte alcun grande maestro. Gli Spagnuoli non se ne sanno dar pace!
Ci sarebbe da imbrattar molta carta, a voler descrivere di Madrid i grandi sobborghi, le porte, i passeggi fuor della città, le piazze, le strade storiche; e cui piacesse non ommetter nulla, gli splendidi caffè: l'Imperial nella piazza della Puerta del Sol, il Fornos nella strada Alcalà, due vastissime sale, nelle quali, tolti i tavolini, potrebbe far gli esercizi uno squadrone di cavalleria; e gli altri innumerevoli che si trovano a ogni passo, in cui danzerebbero comodamente cento coppie di ballerini; le botteghe sfarzose che occupan tutto il pian terreno di vasti edifizi, tra le quali i grandi negozi di tabacchi di Avana, luogo di ritrovo dei signoroni, pieni di tanti sigari piccolissimi, grossi, enormi, tondi, piatti, puntati, fatti a serpe, ad arco, a uncino, d’ogni forma, d’ogni gusto e d’ogni prezzo, da contentare la più matta fantasia di fumatore, e ubbriacare tutta la popolazione d’una città; gli spaziosi mercati, le caserme da corpo d’esercito, il gran palazzo reale, in cui il Quirinale ed il Pitti si potrebbero nascondere senza timore di farsi scorgere; la gran strada di Atocha che attraversa la città, l’immenso giardino del Buen retiro, col suo gran lago, coi suoi poggi incoronati di chioschi, coi suoi mille uccelli pellegrini... Ma più d’ogni altra cosa meritano attenzione i Musei d’armi, di pittura, di marina, a ciascuno dei quali sarebbe poco dedicare un volume.
L’armeria di Madrid è una delle più belle del mondo. Al primo entrare nella vastissima sala, il cuore vi dà un balzo e il sangue un tuffo, e voi restate immobile sulla soglia come uno smemorato. Un intero esercito di cavalieri coperti di ferro, colle spade nel pugno, colle lancie in resta, sfolgoranti, formidabili, si slanciano contro di voi, come una legione di spettri. È un esercito d’imperatori, di re, di duchi, chiusi nelle più splendide armature che siano mai uscite dalla mano dell’uomo, sulle quali da diciotto smisurate finestre si versa un torrente di luce, che ne cava un barbaglio di lampi, di scintille, di colori, da dar le traveggole. Le pareti sono coperte di corazze, d’elmi, d’archi, di fucili, di spade, di alabarde, di lancie da torneo, di moschettoni enormi, di lancioni giganteschi che s’alzan dal pavimento alla volta; dalla volta pendon bandiere di tutti gli eserciti del mondo, trofei di Lepanto, di San Quintino, della guerra d’indipendenza, delle guerre d’Affrica, di Cuba, del Messico; in ogni parte è una profusione di insegne gloriose, di armi illustri, di meravigliosi lavori d’arte, di effigie, di emblemi, di nomi immortali. Non si sa di dove cominciare ad ammirare; si corre, sulle prime, di qua e di là, guardando tutto e non vedendo nulla, e si è stanchi prima di aver cominciato. Nel mezzo della sala sono le armature equestri; cavalli e cavalieri disposti in fila, a tre a tre, a due a due, tutti rivolti nello stesso senso, come uno squadrone in colonna; e vi si distinguono a primo aspetto, fra le altre, le armature di Filippo II, di Carlo V, di Emanuele Filiberto, di Cristoforo Colombo. Qua e là, sopra piedestalli, si vedono elmi, cassidi, morioni, golette, rotelle, appartenenti a’ re d’Aragona, di Castiglia, di Navarra, lavorate a rilievi finissimi d’argento che rappresentan battaglie, scene mitologiche, figure simboliche, trofei, grotteschi, ghirlande; alcuni d’inestimabile valore, opera dei più insigni artisti d’Europa; altri di forme strane, sopraccarichi di ornamenti, con creste, visiere e cimieri colossali; poi elmetti e corazzine di principini; spade e scudi donate da papi e da monarchi. In mezzo alle armature equestri, si vedono statue vestite di fantastiche assise di Americani, di Affricani, di Chinesi, ornate di penne e di sonagli, con archi e turcassi; spaventose maschere guerresche; abiti di mandarini intessuti d’oro e di seta. Lungo le pareti altre armature; quella del marchese di Pescara, quella del poeta Garcilaso della Vega, quella del marchese di Santa Cruz, quella gigantesca di Giovan Federico il Magnanimo, duca di Sassonia; e fra l’una e l’altra bandiere arabe, persiane, moresche, cadenti a brani. Nelle vetrine una serie di spade che a sentirvi dire il nome di coloro che le portarono, vi si rimescola il sangue: la spada del principe di Condé, la spada d’Isabella la Cattolica, la spada di Filippo II, la spada di Ferdinando Cortes, la spada del Conte duca di Olivares, la spada di Giovanni d’Austria, la spada di Conzalvo di Cordova, la spada del Pizzarro, la spada del Cid, e un po’ più in là, la celata di re Boabdil di Granata, la targa di Francesco I, la seggiola da campo di Carlo V. In un canto della sala sono schierati i trofei degli eserciti ottomani, elmetti tempestati di gemme, sproni, staffe dorate, collari di schiavi, pugnali, scimitarre dal fodero di velluto, cerchiati d’oro, ricamati, imperlati; le spoglie di Alì Bascià, ucciso sulla nave capitana alla battaglia di Lepanto; il suo caffettano di broccato d’oro e d’argento, la cintura, i bozzacchini, lo scudo; le spoglie dei suoi figli; le bandiere strappate dalle galee. Da un altro lato, corone votive, croci e monili di principi goti. In un altro scompartimento, gli oggetti tolti agli Indiani di Mariveles, ai Mori di Cagayan e del Mindanao, ai selvaggi delle più remote isole dell’Oceania: collane di guscio di lumaca, pipe di lattone, idoli di legno, flauti di canna, ornamenti fatti di zampe d’insetti, schiavine di foglie di palma, foglie scritturate che servivan di salvacondotto, freccie avvelenate, scuri da carnefici. E poi da qualunque parte uno si volga, selle di re, cotte d’arme, colubrine, tamburi storici, ciarpe, iscrizioni, memorie ed immagini di tutti i tempi e di tutti i paesi, dalla calata dei Goti alla battaglia di Tetuan, dal Messico alla China; un emporio di tesori e di capolavori da cui uno si allontana, commosso, stordito e sfinito, per ritornar poi a sè come da un sogno, colla memoria stracca e confusa. Se un giorno un grande poeta italiano vorrà cantare la scoperta del nuovo mondo, in nessun luogo potrà attingere più possenti ispirazioni che nel Museo navale di Madrid, perchè in nessun luogo si sente più profondamente l’aura vergine dell’America selvaggia, e la presenza arcana di Colombo. V’è una sala chiamata Gabinetto degli Scopritori: il poeta, entrandovi, se ha davvero anima di poeta, si scoprirà il capo con venerazione. In qualunque punto della sala cada lo sguardo, si vede un’immagine che fa battere il cuore: non si è più in Europa, nè in questo secolo; si è nell’America del secolo decimoquinto, si respira quell’aria, si vedon quei luoghi, si sente quella vita. Nel mezzo è un alto trofeo d’armi tolte agl’indigeni delle terre scoperte: scudi rivestiti di pelli di fiere, giavellotti di canna colle cocche pennute, sciabole di legno entro guaine di vimini, coll’else ornate di crini e di capelli cascanti in lunghe ciocche; mazze, aste, clave enormi; grandi spade dentellate a modo di sega, scettri informi, turcassi da giganti, vestimenti di pelo di scimmia, daghe di re e di carnefici, armi dei selvaggi di Cuba, del Messico, della nuova Caledonia, delle Caroline, delle isole più remote del Pacifico, nere, strane, orrende, che destan nella fantasia visioni confuse di lotte terribili, nell’oscurità misteriosa delle foreste vergini, entro sterminati laberinti d’alberi ignoti. E intorno a queste spoglie d’un mondo selvaggio, le immagini e le memorie dei vincitori: qui il ritratto di Colombo, là il ritratto del Pizzarro, più in là il ritratto di Ferdinando Cortes; in una parete, la carta d’America che tracciò Giovanni de la Cosa, nel secondo viaggio del Genovese, sur un’ampia tela sparsa di figure, di colori, di segni, che dovevan servire a diriger le spedizioni nell’interno delle terre; vicino alla tela, un pezzo dell’albero sotto il quale riposò il conquistatore del Messico nella famosa notte triste, dopo che s’era aperto il passo attraverso l’immenso esercito che lo aspettava nella valle d’Otumba; un vaso cavato dal tronco dell’albero presso il quale morì il celebre capitano Cook; imitazioni di barche, di barconi, di zattere usate dai selvaggi; una corona di ritratti di navigatori illustri; e nella parte di mezzo un gran quadro che rappresenta le tre navi di Cristoforo Colombo, la Nina, la Pinta e la Santa Maria, nel momento in cui scopron la terra Americana, e tutti i marinai, ritti sulle poppe, agitando le braccia e gettando alte grida, salutano il nuovo mondo e ringraziano Iddio. Non v’è parola che esprima l’emozione che si prova alla vista di quello spettacolo, nè lagrima che valga quella che vi tremola negli occhi in quel punto, nè anima umana che in quel momento non si senta più grande!
Le altre sale, che son dieci, sono anch’esse piene di oggetti preziosi. Nella sala accanto al Gabinetto degli Scopritori son raccolte le memorie della battaglia di Trafalgar: il quadro della Santissima Trinità, ch’era nello stanzino di poppa della nave Real Trinidad, e che fu tolto dagl’Inglesi pochi minuti prima che la nave andasse a fondo; il cappello e la spada di Federico Gravina, capitano generale della flotta spagnuola, morto in quella giornata; un grande modello compiuto della nave Sant'Anna, una delle poche che usciron salve dalla battaglia; bandiere, ritratti d'ammiragli, quadri rappresentanti episodi di quella lotta tremenda. E accanto alle memorie di Trafalgar, altre molte che non parlano meno efficacemente all'anima, come un calice fatto col legno dell'albero detto Ceiba, all'ombra del quale fu celebrata la prima messa nell'Avana il 19 marzo del 1519; il bastone del capitano Cook; idoli di selvaggi, scalpelli di pietra coi quali gl'Indiani di Porto-ricco foggiavano gl'idoli prima dello scoprimento dell'isola. E dopo questa, un altra gran sala, entrando nella quale uno si trova in mezzo a una flotta di galee, di caravelle, di feluche, di brigantini, di corvette, di fregate, di navi di tutti i mari e di tutti i secoli, armate, imbandierate, approvvigionate, che par non aspettino altro che il vento per prendere il mare e sparpagliarsi pel mondo. Nelle altre sale, un visibilio di macchine, di ordigni, d'armi navali; di quadri rappresentanti tutte le imprese marittime del popolo spagnuolo; di ritratti d'ammiragli, di navigatori, di marinai; di trofei d'Asia, d'America, d'Affrica, d'Oceania, fitti, ammontati, da doverci passar dinanzi correndo per far in tempo a veder ogni cosa prima che ci colga la notte. Uscendo dal Museo Navale, par di tornare da un viaggio intorno al globo: quanto si è vissuto in quelle poche ore! V’è ancora a Madrid un grande Museo d’Artiglieria, un immenso Museo del Genio, un bel Museo Archeologico, un ragguardevole Museo di storia naturale; vi sono altre mille cose degne di veduta; delle quali bisogna nulla meno sacrificar la descrizione al meraviglioso Museo di pittura.
Il giorno in cui s’entra per la prima volta in un Museo come quello di Madrid costituisce una data storica nella vita d’un uomo; è un avvenimento importante come il matrimonio, la nascita d’un bambino, la presa d’un’eredità; se ne sentono gli effetti fino alla morte. E ciò perchè un Museo come quello di Madrid, come quello di Firenze, come quello di Roma, è un mondo; una giornata passata fra quelle pareti è un anno di vita; un anno di vita agitata da tutte le passioni che ci possono agitare nella vita reale: l’amore, la religione, il furor di patria, l’ardor della gloria; un anno di vita per quello che ci si gode, per quello che ci s’impara, per quello che ci si pensa, per i conforti che ci si raccolgono per l’avvenire; un anno di vita in cui si sian letti mille volumi, esperimentati mille affetti, corse mille avventure. Questi pensieri volgevo in mente dirigendomi a rapidi passi verso il palazzo del Museo di pittura, posto a sinistra del Prado, per chi venga dalla strada d’Alcalà; ed era tanta la gioia che mi agitava, che giunto dinanzi alla porta, mi fermai, e dissi a me stesso: — Vediamo!... Che cosa hai tu fatto nella vita per meritare d’entrar lì dentro? Nulla! Ebbene, il giorno che ti colpisca una disgrazia, china la testa, e tien per saldata la partita. —
Entrai e mi levai il cappello senza accorgermene: il cuore mi batteva forte e mi correva un leggiero tremito da capo a piedi. Nella prima sala non sono che alcuni grandi quadri di Luca Giordano: passai oltre. Nella seconda cominciai a non esser più io, e in luogo di mettermi a guardar quadro per quadro, rimisi l’esame a poi, e feci il giro del Museo quasi correndo. Nella seconda sala sono i quadri del Goya, l’ultimo grande pittore spagnuolo; nella terza, vasta quant’una piazza, sono i capolavori dei primi maestri. Entrando, vi trovate da un lato le Vergini del Murillo, dall’altro i Santi del Ribera, un po’ più oltre i ritratti del Velasquez; in mezzo alla sala, i quadri di Raffaello, di Michelangelo, d’Andrea del Sarto; in fondo il Tiziano, il Tintoretto, Paolo Veronese, il Correggio, il Domenichino, Guido Reni. Tornate indietro, entrate in una gran sala a destra: vedete in fondo altri quadri di Raffaello, a destra e a sinistra il Velasquez, il Tiziano e il Ribera; accanto alla porta il Rubens, Van Dyck, frate Angelico, il Murillo. In un’altra sala la scuola francese: Poussin, Duguet, Lorrain; in due altre vastissime, le pareti coperte di quadri del Breughel, del Téniers, del Jordaens, del Rubens, del Dürer, del Schoen, del Mengs, del Rembrandt, del Bosch; in tre altre non meno vaste, quadri alla rinfusa di Joanes, del Carbajal, dell’Herrera, di Luca Giordano, del Carducci, del Salvator Rosa, del Menendez, del Cano, del Ribera. Girate per un'ora, e non avete visto nulla; per la prim'ora è una battaglia: i capolavori lottano per disputarsi la vostra anima; la Concezione del Murillo copre d'un torrente di luce il Martirio di San Bartolomeo del Ribera; il San Giacomo di Ribera schiaccia il Santo Stefano di Joanes; il Carlo V del Tiziano fulmina il Conte duca Olivares del Velasquez; lo Spasimo di Sicilia di Raffaello ottenebra tutti i quadri che gli fanno corona; gli Ubriaconi del Velasquez sconcertano con un riflesso di gioia baccanalesca i visi dei santi e dei principi vicini; il Rubens atterra il Van Dyck, Paolo Veronese sopraffà il Tiepolo, il Goya ammazza il Madrazo; i vinti si rifanno su altri minori, altrove si sovrappongono alla loro volta ai vincitori; è una gara di miracoli d'arte, in mezzo a cui la vostra anima inquieta tremula come una fiamma agitata da mille soffi, e il vostro cuore si espande in un sentimento d'orgoglio per la potenza del genio umano.
Sbollito il primo entusiasmo, si comincia ad ammirare. In mezzo a un esercito di tali artisti, dei quali ciascuno richiederebbe un libro a sè, mi attengo agli Spagnuoli, e tra questi, ai quattro che mi destarono un'ammirazione più profonda, e delle cui tele serbo una memoria più distinta.
Il più recente è il Goya, nato verso la metà del secolo scorso. È il pittore più spagnuolo della Spagna, il pittore dei toreros, dei popolani, dei contrabbandieri, delle streghe, dei ladri, della guerra d'indipendenza, di quell’antica società spagnuola che si dissolvette sotto i suoi occhi; un fiero aragonese, d’una tempra di ferro, appassionato per i combattimenti dei tori, tanto che negli ultimi anni della sua vita, soggiornando a Bordeaux, correva una volta la settimana a Madrid non per altro che per vedere quello spettacolo, e se ne tornava come una freccia senza neanco salutare gli amici; un ingegno robusto, mordace, imperioso, fulmineo, che nel calore delle sue violente ispirazioni copriva in pochi istanti di figure una parete o una tela, e dava i tocchi d’effetto con quanto gli cadeva in mano, spugne, scope, bastoni; che tracciando il viso d’un personaggio odiato, l’insultava; che dipingeva un quadro come avrebbe combattuto una lotta; disegnatore arditissimo, colorista originale e possente, creatore d’una pittura inimitabile, di ombre paurose, di luci arcane, di sembianze stravolte, e pur vere; grande maestro nell’espressione di tutti gli affetti terribili, dell’ira, dell’odio, della disperazione, della rabbia sanguinaria; pittore atletico, battagliero, instancabile; naturalista come il Velasquez, fantastico come l’Hogart, energico come il Rembrandt, ultimo lampo color di sangue del genio spagnuolo. Son parecchi quadri suoi nel Museo di Madrid, tra i quali uno amplissimo rappresentante tutta la famiglia di Carlo IV; ma i due nei quali versò tutta l’anima sua, sono: i soldati francesi che fucilano gli Spagnuoli il 2 di maggio, e una lotta di popolani di Madrid coi mammalucchi di Napoleone I, a figure di grandezza naturale. Son due quadri che fanno inorridire. Non si può immaginar nulla di più tremendo, non si può dare alla prepotenza una forma più esecrabile, alla disperazione un aspetto più spaventoso, al furore della mischia un'espressione più feroce. Nel primo, un cielo oscuro, il lume d'una lanterna, un lago di sangue, un mucchio di cadaveri, una folla di condannati a morte, una fila di soldati francesi nell'atto di sparare; nell'altro, cavalli svenati, cavalieri tirati giù di sella, pugnalati, pestati, lacerati; che visi! che atteggiamenti! par di sentire le grida e di veder correre il sangue; la scena vera non potrebbe destar più orrore; il Goya deve aver dipinto quei quadri cogli occhi stravolti, colla schiuma alla bocca, colla furia d'un ossesso; è l'ultimo segno a cui può arrivar la pittura prima di tradursi in azione; varcato quel segno, si butta il pennello e si afferra un pugnale; per far qualcosa di più terribile di quei quadri, bisogna uccidere; dopo quei colori, c'è il sangue.
Del Ribera, che noi conosciamo sotto il nome di Spagnoletto, v'è tanti quadri da formarne un Museo; la maggior parte figure di santi, di grandezza naturale; un Martirio di San Bartolommeo di più figure, e un Prometeo colossale incatenato a uno scoglio. Altri quadri di lui si trovano in altri Musei, all'Escurial, nelle chiese, chè fu artista fecondissimo e operosissimo, come quasi tutti gli artisti spagnuoli. Veduto un quadro suo, si riconoscono, al primo colpo d'occhio, tutti gli altri; e non è mestieri di aver un occhio esperto. Son vecchi santi estenuati, con teste calve, nude, sulle quali si contan le vene; occhi pesti, guancie scarne, fronti raggrinzite, petti infossati che lascian vedere le costole; braccia, mani che non hanno che pelle ed ossa; corpi rifiniti, disfatti, vestiti di cenci, gialli del giallo smorto de’ cadaveri, piagati sconciamente, sconciamente sanguinosi; son carcasse che paion tratte allora dalla bara, portanti nel viso l’impronta di tutti gli spasimi delle malattie, della tortura, della fame, dell’insonnia; figure di tavole anatomiche sulle quali potete studiare tutti i segreti dell’organismo umano. Ammirabili, sì, per ardimento di disegno, per vigore di colorito e per gli altri mille pregi che procacciarono al Ribera la fama di potentissimo pittore; ma l’arte vera e grande ah! non è quella. In quei visi non è quel lume celeste, quell'immortal raggio dell’alma che rivela col sublime dolore le speranze sublimi, gl’intimi lampi e i desiderii immensi; quel lume che distrae l’occhio dalla piaga, e leva il pensiero al cielo; non v’è che il dolor crudo che mette ribrezzo e terrore; non v’è che la stanchezza della vita e il presentimento della morte; non v’è che la vita umana che fugge, senza il riflesso di quella immortale che giunge. Non v’è uno di quei Santi di cui si ricordi l’immagine con amore; si guardano, e si sente freddo al cuore, ma il cuore non batte; il Ribera non amava. Eppure nel percorrere le sale del Museo, per quanto fosse vivo il sentimento quasi di ripugnanza che molti di quei quadri m’ispiravano, bisognava che li guardassi, e non ne potevo staccar gli occhi, tanta è la forza attrattiva del vero, anche spiacente; e tanto son veri i quadri del Ribera! Quei visi li riconoscevo, li avevo visti negli ospedali, nelle stanze mortuarie, dietro le porte delle chiese; son visi di accattoni, di moribondi, di condannati a morte, che mi si parano dinanzi di notte, oggi ancora, percorrendo una strada deserta, passando accanto a un cimitero, salendo su per una scala ignota. Ve n’è alcuni che non si posson guardare; un eremita, nudo, steso in terra, che pare uno scheletro colla pelle; un vecchio santo, al quale la pelle consunta dà l’apparenza d’un corpo scorticato; il Prometeo colle viscere fuor del petto. Al Ribera piaceva il sangue, le membra lacerate, lo strazio; doveva godere a rappresentar dolori; doveva credere in un inferno più orrendo di quel di Dante, e in un Dio più terribile di quel di Filippo II. Nel Museo di Madrid egli rappresenta il terrore religioso, la vecchiezza, i patimenti, la morte.
Più gaio, più vario, più splendido il grande Velasquez. Quasi tutti i suoi capolavori son là. Sono un mondo; v’è ritratto tutto: la guerra, la corte, il trivio, la taverna, il paradiso; è una galleria di nani, d’imbecilli, di pezzenti, di buffoni, d’ubriachi, di commedianti, di re, di guerrieri, di martiri, di numi; tutti vivi, parlanti, in atteggiamenti nuovi, arditi, colla fronte serena, col sorriso sulle labbra, pieni di freschezza e di vigore; il grande ritratto del conte duca d’Olivarez a cavallo, il quadro celebre de las Meninas, quello delle Filatrici, quello dei Bevitori, quello della Fucina di Vulcano, quello della Resa di Breda; ampie tele piene di figure che par che escano dal quadro, delle quali, viste una volta, si ricorda distintamente ogni più sfuggevole tratto o moto od ombra del viso, come di persone vive, incontrate pur ora; gente con cui pare d’aver parlato, e a cui si pensa, molto tempo dopo, come a conoscenti di non si sa quando; gente che spira allegrezza e desta coll’ammirazione il sorriso, e fa sentire quasi un rincrescimento di non poterla gustare che cogli occhi, di non potersi mescolare con loro, e attingere un po’ della loro rigogliosa vita. Non è effetto della prevenzione favorevole che dà il nome del grande artista, non c’è bisogno di essere intendente d’arte; la donnicciuola, il ragazzo si arrestano dinanzi a quei quadri, batton le mani e ridono; è la natura ritratta con una fedeltà superiore ad ogni immaginazione; si scorda il pittore, non si pensa all’arte, non si scopre l’intento: si dice: — È vero! È così! È l’immagine che avevo in mente! — Si direbbe che il Velasquez non ci ha messo nulla di suo, che ha lasciato fare la mano, e che la mano non fece che fissare le linee e i colori sulla tela d’una camera ottica che riproduceva i personaggi veri ch’egli ritrasse. Più di sessanta quadri suoi son nel Museo di Madrid, e non si vedessero che una sola volta, e di volo, non se ne scorderebbe uno. È dei quadri del Velasquez come del romanzo di Alessandro Manzoni, che dopo letto una diecina di volte, s’intreccia e si confonde siffattamente coi nostri particolari ricordi, che ci par d'averlo vissuto. Così i personaggi dei quadri del Velasquez si mescolano nella folla dei nostri amici e conoscenti, vicini e lontani, di tutta la vita, e ci si presentano alla mente e s’intrattengon con noi, senza che noi ci ricordiamo neppure di averli visti dipinti.
Ed ora parliamo del Murillo col tuono di voce più soave che possa uscire dalla nostra bocca. Il Velasquez, nell’arte, è un’aquila; il Murillo è un angelo; il Velasquez s’ammira, il Murillo s’adora. Le sue tele lo fanno conoscere, come se gli si fosse vissuti assieme. Era bello, era buono, era pio: l’invidia non sapeva dove morderlo, intorno alla corona della gloria egli portava un’aureola d’amore. Era nato per dipingere il cielo. Aveva sortito un genio pacato e sereno, che si levava a Dio sulle ali d’una placida ispirazione; e però i suoi quadri più ammirabili spirano un’aura di modesta dolcezza, che desta la simpatia e l’affetto prima ancora che la meraviglia. Una semplice e nobile eleganza di contorni, un’espressione piena di vivezza e di grazia, un’armonia ineffabile di colori, sono ciò che colpisce a primo aspetto; ma più si guarda, più si scopre, e la meraviglia si trasforma a poco a poco in un sentimento dolcissimo di letizia. I suoi santi hanno un aspetto benigno, che rallegra e consola; i suoi angeli, ch’egli aggruppava con una maestria meravigliosa, fanno fremer le labbra dal desiderio dei baci; le sue Vergini, vestite di bianco e avvolte in un gran manto azzurro, con grandi occhi neri, colle mani giunte, sottili, flessibili, aeree, fanno tremare il cuore di dolcezza e gonfiar gli occhi di lagrime. Egli congiunge la verità del Velasquez, agli effetti vigorosi del Ribera, all’armoniosa trasparenza del Tiziano, alla brillante vivezza del Rubens. La Spagna gli diede il nome di Pittore delle Concezioni, poichè fu insuperabile nell’arte di rappresentare questa divina idea. Vi son quattro grandi Concezioni nel Museo di Madrid. Io passai dinanzi a quei quattro quadri, delle mezze giornate, immobile, quasi estatico. Mi rapiva sopra tutte quella non intera, colle braccia incrociate sul petto, e la mezza luna traverso alla vita; molti la pospongono alle altre; io fremevo al sentirlo dire; ero preso d’una passione inesprimibile per quel viso. Più d’una volta, guardandola, mi sentii scorrer le lagrime giù per le guancie. Dinanzi a quel quadro, il mio cuore s’ingentiliva, il mio intelletto si sollevava ad un’altezza di pensieri cui non era mai arrivato. Non era l’entusiasmo della fede; era un desiderio, un’aspirazione immensa alla fede, una speranza che mi faceva intravvedere una vita più nobile, più feconda, più bella di quella che avevo condotto fino allora; un sentimento nuovo della preghiera, un bisogno d’amare, di far del bene, di soffrire per gli altri, di espiare, di nobilitar la mia mente e il mio cuore. Non son mai stato tanto vicino alla fede come in quei momenti; non son mai stato così buono e così affettuoso; e credo che sul mio volto non abbia mai brillato più splendidamente la mia anima. La Vergine dei dolori, Sant’Anna che insegna a leggere alla Vergine, Cristo crocifisso, l’Annunziazione, l’Adorazione dei pastori, la Sacra famiglia, la Vergine del Rosario, Il bambino Gesù son tutti quadri mirabili e belli d’una luce queta e soave, che va all’anima. Bisogna vedere la domenica i fanciulli, le ragazze, le donne del popolo dinanzi a quelle immagini; vedere come i loro volti s’illuminano, e sentire che dolci parole escon dalle loro labbra. Il Murillo, per loro, è un santo; ne pronunziano il nome con un sorriso, come per dire: — È nostro! — e pronunziandolo, vi guardano come per imporvi un atto di reverenza. Gli artisti non ne portan tutti lo stesso giudizio; ma l’amano anche essi sopra ogni altro, e non riescono a sceverare l’ammirazione dall’amore. Il Murillo non è soltanto un grande pittore, è una grand’anima; è più che una gloria, è un affetto della Spagna; è più che un maestro sovrano del bello, è un benefattore, un ispiratore di buone azioni, una immagine cara che, afferrata una volta nelle sue tele, si porta nel cuore tutta la vita, con un sentimento di gratitudine e di devozione religiosa. È uno di quegli uomini, dei quali un non so qual sentimento secreto ci dice che li dovremo rivedere, che il rivederli ci è dovuto come un premio, che non possono essere spariti per sempre, che in qualche luogo sono ancora, che la loro vita non è stata che un lampo d’una luce inestinguibile, che dovrà apparire un giorno in tutto il suo splendore agli occhi dei mortali. Si dirà: errori della fantasia! Ah, cari errori! Dopo le opere di questi quattro grandi maestri, vi son da ammirare i quadri di Joanes, artista intimamente italiano, a cui il disegno corretto e la nobiltà dei caratteri valsero il titolo, benchè profferito sotto voce, di Raffaello spagnuolo; non nell’arte, ma nella vita simile a frate Angelico, poichè il suo studio era un oratorio, dove si digiunava e facea penitenza, ed egli pure, prima di mettersi all’opera, andava a pigliar la comunione. Poi i quadri di Alonso Cano; i quadri del Pacheco, maestro del Murillo; del Pareja, schiavo del Velasquez; del Navarrate il Muto; del Menendez, gran pittore di fiori; dell’Herrera, del Coello, del Carbajal, del Collantes, del Rizi. Del Zurbaran, uno dei più grandi pittori spagnuoli, degno di star accanto ai tre primi, v’è poco. Di quadri d’altri artisti, minori di quegli accennati, ma pure per meriti diversi ammirabili, son pieni i corridoi, le anticamere, le sale di passaggio. Ma non è questo il solo Museo di pittura di Madrid: vi sono centinaia di quadri nell’Accademia di San Fernando, nel ministero del Fomento, e in altre Gallerie private. Ci vorrebbero mesi e mesi a veder bene ogni cosa; che non ci vorrebbe a descrivere, anche a chi avesse ingegno da tanto? Uno dei più potenti scrittori di Francia, amantissimo della pittura e gran maestro di descrizioni, messo al punto, si spaventò, e non seppe far di meglio che cavarsi d’impiccio dicendo che ci sarebbe troppo da dire; e s’egli stimò bene di tacere, a me deve sembrare d’aver già detto anche troppo. È una delle più dolorose conseguenze d'un bel viaggio questa di trovarsi ad avere nella mente una folla di belle immagini e nel cuore un tumulto di grandi affetti, e non potere, non sapere esprimerne che una sì piccola parte! Con che profondo sdegno lacererei queste pagine quando penso a quei quadri! O Murillo, o Velasquez, o povera penna mia!
Pochi giorni dopo ch'ero arrivato a Madrid, vidi per la prima volta, sboccando dalla strada d'Alcalà nella piazza della Porta del Sole, il re Amedeo. Provai un piacere vivissimo, come se avessi riveduto il più intimo dei miei amici. È curiosa quella di trovarsi in un paese dove l'unica persona che si conosca è il Re! Verrebbe voglia di corrergli dietro gridando: — Maestà! son io, sono arrivato. —
Don Amedeo seguiva a Madrid le abitudini paterne. Si levava all'alba e andava a fare una passeggiata nei giardini del Moro che si stendono tra il Palazzo reale e il Manzanare; o si recava a visitare i Musei, attraversando la città a piedi, con un solo aiutante di campo. Las criadas, tornando a casa trafelate colla cesta ripiena, raccontavano alle padrone sonnecchianti che l'avevano incontrato, che gli eran passate accanto, quasi da toccarlo; e le padrone repubblicane dicevano: — Asì debe hacer, — e le carliste storcevan la bocca mormorando: — Que clase de rey! — (che razza di re), o come intesi dire una volta: — Quiere á toda costa que le peguen un tiro. — (Vuole a tutti i costi che gli tirino una fucilata.) Rientrato in Palazzo, riceveva il Capitano generale e il Governatore di Madrid, i quali, giusta una consuetudine antica, dovevan presentarsi ogni giorno al Re per domandargli se avesse nulla da ordinare all’esercito e alla polizia. Venivan dopo i ministri. Oltre a vederli tutti insieme in Consiglio una volta la settimana, Amedeo ne riceveva uno ogni giorno. Partito il ministro, cominciava l’udienza: Don Amedeo dava udienza ogni giorno per un’ora almeno, molte volte per due. Le domande erano innumerevoli, e gli oggetti delle domande facili a indovinarsi: sussidi, pensioni, impieghi, privilegi, croci; il Re riceveva tutti. La Regina pure riceveva; benchè non ogni giorno, a cagione del suo mutevole stato di salute. A lei spettavano tutte le opere di beneficenza. Essa riceveva in presenza d’un maggiordomo e d’una dama d’onore, alla stess’ora che il Re, ogni sorta di gente: signore, operai, donne del popolo, ascoltando pietosamente lunghi racconti di miserie e di dolori. Oltre a cento mila lire al mese ella distribuiva in opere di carità, senza contare le largizioni straordinarie agli ospizi, agli ospedali, agli altri istituti di beneficenza. Alcuni di questi fondò ella stessa. Sulla riva del Manzanare, in vista del palazzo reale, in un luogo aperto e ridente, si vede una casetta dipinta a vivi colori, con un giardinetto all’intorno, di dove, passando, si senton risa, grida e vagiti di bimbi. La Regina fece costruire quella casa per raccogliervi i figliuoli piccini delle lavandaie, i quali, mentre le madri lavoravano, solevan rimaner per le strade esposti a mille pericoli. Là son maestre, balie, donne di servizio, che provvedono a tutti i bisogni dei bimbi: è insieme un ospizio e una scuola. Le spese per la fabbricazione della casa e per il suo mantenimento furon fatte colle venticinque mila lire mensili che lo Stato aveva assegnate al Duca di Puglia. La Regina istituì pure un Ospizio pei trovatelli; una casa, o specie di collegio, pei figliuoli delle operaie da tabacco; una distribuzione di minestra, carne e pane per tutti i poveri della città. Ella stessa si recò più volte ad assistere alla distribuzione, improvvisamente, per accertarsi che non vi si facessero abusi, e avendone scoperti, provvide perchè non s’avessero a rinnovare. Oltre a ciò, le monache di carità ricevevano da lei ogni mese trentamila lire per soccorrere quelle famiglie che per la loro condizione sociale non potevano concorrere alla distribuzione della minestra. Degli atti privati di beneficenza che faceva la Regina era difficile aver notizia perchè soleva farli senza parlarne ad alcuno. Poco si sapeva pure delle sue abitudini, perchè faceva ogni cosa senza pompa, e con un riserbo che sarebbe parso quasi eccessivo anche in una signora privata. Nemmeno le dame di corte sapevano ch’ella andava a sentir la predica a San Luigi dei Francesi: una signora la vide per la prima volta, per caso, in mezzo alle sue vicine. Nel suo vestire non aveva alcun distintivo di Regina, neanco i giorni di pranzo a Corte. La regina Isabella portava un gran manto rosso colle armi di Castiglia, diadema, ornamenti ed insegne: Donna Vittoria nulla. Si vestiva per lo più coi colori della bandiera spagnuola, e con una semplicità che annunziava la corona assai più che lo splendore e lo sfarzo. Nè l'oro spagnuolo ci aveva che vedere neanco con quella semplicità, tutte le spese ch'ella faceva per sè, pei suoi bambini, per le sue cameriere, le faceva col danaro suo.
Quando regnavano i Borboni tutto il palazzo reale era occupato: il Re abitava la parte sinistra, verso la piazza d'Oriente; Isabella, la parte che guarda da un lato sulla piazza d'Oriente, e dall'altro sulla piazza dell'Armeria; il Montpensier, la parte opposta a quella della regina; i principi avevano ciascuno un appartamento verso il Giardino del Moro. Nel tempo che vi soggiornò il re Amedeo, una gran parte dell'immenso edifizio rimase vuota. Egli non aveva che tre piccole stanze: un salottino da studio, una camera da letto, e il tocador (stanzino da toeletta). La camera da letto dava in un lungo corridoio che conduceva alle due stanzine dei principi, accanto alle quali era l'appartamento della Regina, che non voleva scostarsi mai dai suoi figliuoli. V'era poi un salone pei ricevimenti. Tutta questa parte del palazzo che serviva per l'intera famiglia reale, era occupata prima dalla sola regina Isabella. Quando ella seppe che Don Amedeo e donna Vittoria s'eran contentati di così piccolo spazio, si dice che abbia esclamato con meraviglia: — Poveri giovani, non vi si potranno muovere! — Il Re e la Regina solevan pranzare con un maggiordomo e una dama di Corte. Dopo il pranzo, il Re fumava un sigaro di Virginia (se lo sappiano i detrattori di questo principe dei sigari), e andava nel suo gabinetto ad occuparsi delle cose di Stato. Soleva pigliar molti appunti e consigliarsi spesso colla Regina, specie quando si trattava di metter l'accordo tra i Ministri, o comporre gli animi divisi dei capi di parte. Leggeva un gran numero di gazzette d'ogni colore, le lettere cieche che lo minacciavan di morte, quelle che gli davan dei consigli, le poesie satiriche, i progetti di rinnovamento sociale, tutto quello che gli mandavano. Verso le tre esciva dal Palazzo a cavallo, le trombe della Guardia squillavano, un servitore vestito di rosso lo seguiva alla distanza di cinquanta passi. A vederlo, si sarebbe detto ch'egli non sapeva d'essere il Re: guardava i bambini che passavano, le insegne delle botteghe, i soldati, le diligenze, le fontane, con un'espressione di curiosità quasi infantile. Percorreva tutta la strada Alcalà, lentamente, come un cittadino sconosciuto che pensasse ai fatti suoi, e se ne andava al Prado a godere la sua parte d'aria e di sole. I Ministri strillavano; i borbonici, assuefatti all'imponente corteo d'Isabella, dicevano ch'egli strascinava per le strade la maestà del trono di San Ferdinando; persino il servitore che lo seguiva, guardava intorno con un'aria crucciata, come per dire: — Vedete un po' che pazzie! — ma checchè si dicesse, il Re non poteva pigliar l'abitudine di aver paura. E gli Spagnuoli, convien dirlo, gli rendevan giustizia, e qual si fosse il giudizio che portassero della sua mente, della sua condotta e del suo governo, non mancavan mai di soggiungere: — In quanto a coraggio poi, non c'è nulla da dire.
Ogni domenica v'era pranzo a Corte. Erano invitati generali, deputati, professori, accademici, uomini chiari nelle lettere e nelle scienze: la Regina parlava con tutti e di tutto, con una sicurezza e una grazia, che per quanto si sapesse prima del suo ingegno e della sua coltura, superava sempre l'aspettativa. Il popolo, naturalmente, parlando di quello ch'ella sa, faceva le frangie: diceva del greco, dell'arabo, del sanscrito, dell'astronomia, della matematica. Ma è vero che discorreva argutamente di cose lontanissime da ogni consuetudine di studi femminili, e non con quel parlar vago e spicciativo che è proprio di chi non sa altro che titoli e nomi. Aveva studiato profondamente la lingua spagnuola, e la parlava oramai come la propria; la storia, la letteratura, i costumi della sua nuova patria, le eran famigliari; non le mancava per essere spagnuola davvero, che il desiderio di rimanere in Ispagna. I liberali brontolavano, i borbonici dicevano: — Non è la nostra regina; — ma tutti nutrivan per lei un profondo rispetto. I giornali più arrabbiati dicevan tutt'al più la esposa de Don Amedeo, invece di dire La reina. Il più violento dei deputati repubblicani, facendo allusione a lei in un suo discorso alle Cortes, non potè a meno di proclamarla — illustre e virtuosa. — Era la sola persona della Casa sulla quale nessuno si permettesse mai uno scherzo nè di lingua nè di penna: era come una figura lasciata in bianco in mezzo a un quadro di caricature maligne.
Quanto al Re, par che la stampa spagnuola godesse d'una libertà sconfinata. Sotto la salvaguardia dell'appellativo di Savoiardo, di straniero, di giovane della Corte, i giornali avversi alla dinastia dicevano, in sostanza, quello che volevano, e ne dicevan delle amene. Questo se la pigliava a cuore perchè il Re era feo de cara y de perfil, (brutto di viso e di profilo); quello si rodeva perchè camminava troppo stecchito; un terzo trovava a ridire sulla sua maniera di rendere il saluto; e altre piccinerìe da non credersi. Ciò non ostante il popolo di Madrid aveva per lui, se non l'entusiasmo dell'Agenzia Stefani, almeno una simpatia molto viva. La semplicità dei suoi costumi e la bontà del suo cuore eran proverbiali anche fra i fanciulli. Si sapeva ch'egli non serbava rancore con nessuno, neanco con quelli che si eran condotti poco degnamente con lui; che non aveva mai fatto un atto dispettoso a nessuno; che non s'era mai lasciato sfuggire di bocca una parola amara contro i suoi nemici. A chi parlasse di pericoli personali ch'egli potesse correre, ogni buon popolano rispondeva sdegnosamente che il popolo spagnuolo rispetta chi ha fede in lui; i suoi nemici più acerrimi, ne parlavano con ira, ma non con odio; coloro stessi che non si levavano il cappello incontrandolo per via, si sentivano stringere il cuore vedendo che altri non se lo levava, e non potevano nascondere un sentimento di tristezza. Vi sono immagini di Re caduti sulle quali si stende un drappo nero, altre che si ricoprono d'un velo bianco che le fa intravvedere più belle e più venerabili; su codesta, la Spagna ha steso un velo bianco. E chi sa se un giorno la vista di codesta immagine non strapperà dal petto d'ogni onesto spagnuolo un sospiro segreto, come il ricordo d'una cara persona offesa, o come una voce pacata e benigna che dica in suono di mesto rimprovero: — Eppure.... tu hai fatto male!
Una domenica il Re passò in rassegna i voluntarios de la libertad, che sono una specie di guardie nazionali italiane, colla differenza che quelli prestano un buon servizio spontaneamente, e queste non lo prestan neppur cattivo per forza. I voluntarios dovevano schierarsi lungo i viali del Prado; una folla immensa li aspettava. Quando io arrivai v'eran già tre o quattro battaglioni. Il primo era il battaglione dei veterani, tutti uomini sulla cinquantina, non pochi vecchissimi, vestiti di nero, col cappelletto alla Ros, con galloni sopra galloni, e croci sopra croci, lindi e luccicanti come allievi di Accademia, e nel mover degli occhi alteri e tardi, da confondere i granatieri della Vecchia guardia. C'era dopo un altro battaglione con un'altra uniforme: calzoni bigi, tunica aperta e rivoltata sul petto con larghe mostre di panno rossissimo; non più Ros, cheppì con pennacchio azzurro, e baionetta innastata sul fucile. Altro battaglione, altra uniforme; non più cheppì, di nuovo Ros; non più mostre di panno rosso, ma di panno verde; calzoni d'altro colore; non baionette, ma daghe. Un quarto battaglione, un quarto uniforme: pennacchi, colori, armi, tutto diverso. Giungono altri battaglioni, altre foggie. Alcuni hanno l'elmo prussiano, altri l'elmo senza punta; chi ha le baionette, chi le daghe diritte, chi le daghe ricurve, chi le daghe serpeggianti; qui soldati coi cordoni, là senza cordoni, più in là cordoni di nuovo; centurini, spalline, cravatte, penne, ogni cosa cangia ad ogni tratto. E son tutte divise sfoggiate e pompose con cento colori e cento gingilli che pendono, luccicano e svolazzano. Ogni battaglione ha una bandiera di forma diversa, coperta di ricami, di nastri, di frangie; fra gli altri si vedon dei militi vestiti da paesani, con una banda qualunque cucita a lunghi punti sovra un par di calzoni rappezzati; alcuni senza cravatta, altri con cravatta nera, panciotto aperto e camicia ricamata; ragazzi di quindici, di dodici anni, armati di tutto punto, in mezzo alle file; vivandierine con sottane corte e calzoni rossi, e canestri pieni di sigari e d'aranci. Davanti ai battaglioni, è un continuo correre di ufficiali a cavallo. Ogni maggiore porta sul capo, o sul petto o sulla sella qualche ornamento di sua invenzione; ad ogni tratto passa una staffetta che non si sa a che diavol di Corpo appartenga; si vedon galloni sulle braccia, sulle spalle, intorno al collo, d'argento, d'oro, di lana; medaglie e croci fitte tanto da nascondere mezzo il petto, messe l'una su l'altra, e sopra e sotto la cintura; guanti di tutti i colori dell'iride; sciabole, spade, spadine, spadoni, pistole, rivoltelle; un miscuglio, insomma, di tutte le divise e di tutte le armi di tutti gli eserciti, una varietà da stancare dieci commissioni ministeriali per la modificazione del vestiario, una confusione da perderci il capo. Non ricordo se fossero dodici o quattordici battaglioni; ciascuno dei quali scegliendo la propria divisa, s'era sforzato di riuscire quanto più era possibile diverso da tutti gli altri. Erano comandati dal Sindaco, che aveva anch'egli un'uniforme fantastica. Potevano essere un ottomila uomini. All'ora fissata, un improvviso scorrazzare di ufficiali di stato maggiore e un sonar clamoroso di trombe annunziò l'arrivo del Re. Arrivò in fatti dalla strada d'Alcalà Don Amedeo, a cavallo, vestito da capitan generale, con stivaloni, calzoni bianchi e divisa a coda di rondine; e dietro a lui un folto stuolo di generali, d'aiutanti di campo, di servitori rosso-vestiti, di lancieri, di corazzieri, di guardie. Dopo che ebbe percorsa tutta la fronte dell'esercito, dal Prado fino alla chiesa di Atocha, in mezzo a una folla fitta e silenziosa, ritornò verso la strada Alcalà. Qui era una moltitudine immensa che ondeggiava e rumoreggiava come un mare. Il Re e il suo stato maggiore s'andarono a fermare davanti alla chiesa di San José colle spalle volte alla facciata, e la cavalleria fece sgombrare, a gran fatica, un piccolo spazio per dove potessero sfilare i battaglioni. Sfilarono per plotoni. Via via che passavano, a un cenno del comandante gridavano: — Viva el Rey! Viva Don Amadeo primero!
Il primo ufficiale che lanciò il grido ebbe una idea infelice. L'evviva gridato spontaneamente dai primi diventò come un dovere per tutti gli altri; e fu cagione che il pubblico pigliasse la maggior o minor forza ed armonia delle voci come segno di dimostrazione politica. Alcuni plotoni gridavano un evviva così fioco e corto, che pareva la voce d'un gruppo di malati che chiedessero aiuto: allora la folla prorompeva in risa. Altri plotoni gridavano a squarciagola, ed anco il loro grido era interpretato come una dimostrazione di ostilità alla dinastia. Varie voci correvano fra la gente serrata intorno a me. Uno diceva: — Ora viene il tal battaglione, è un battaglione di repubblicani, vedrete che non grida. — Il battaglione non gridava: gli spettatori tossivano. Un altro diceva: — È una vergogna, una mancanza d'educazione; a mi tampoco me gusta Don Amadeo, pero callo (taccio) y respeto. — Vi fu qualche litigio. Un giovinastro gridò viva con voce in falsetto, un caballero gli diede dell'impertinente, quegli si risentì, alzarono tutti e due le mani, un terzo li divise. Tra battaglione e battaglione passavano cittadini a cavallo; alcuni non si levavano il cappello, e fissavano nondimeno il Re; e allora si sentivan nella folla voci diverse come muy bien e mal criado. Altri che avrebbero voluto salutare, non salutavano per paura; e passavano col capo basso e il viso rosso. Altri invece, stomacati da quello spettacolo, facevano alla barba di tutti una coraggiosa dimostrazione di amedeismo, passando col cappello in mano, e guardando ora rispettosamente il Re, ora fieramente la folla, pel tratto di una decina di passi. Il Re restò immobile fino alla fine dello sfilamento con una espressione inalterata di serena alterezza. Così ebbe fine la rassegna.
Questa milizia nazionale, benchè meno disfatta e sfinita della nostra, non è più tuttavia che una larva; il ridicolo ne ha corroso le radici; ma come divertimento nei giorni di festa, benchè il numero dei volontarii sia molto scemato (ascendevano una volta a trentamila), è sempre uno spettacolo che rivende tutte le antenne e tutti i cenci rossi del signor Ottino.
LE CORSE DEI TORI.
Il trentun di marzo s'inaugurò lo spettacolo delle corse dei Tori. Discorriamone a nostro bell'agio, perchè l'argomento n'è degno. Chi ha letto la descrizione del Baretti, faccia conto di non aver letto nulla. Il Baretti non vide che le corse dei tori di Lisbona, che appetto a quelle di Madrid son giuochi da ragazzi; la sede dell'arte è Madrid; qui i grandi artisti, qui gli spettacoli sfarzosi, qui gli spettatori esperti, qui i giudici che sanciscono la gloria. Il Circo di Madrid è il Teatro della Scala dell'arte toresca.
L'inaugurazione delle Corse dei Tori a Madrid è assai più importante d'un cangiamento di Ministero; un mese prima n'è sparso l'annunzio in tutta la Spagna; da Cadice a Barcellona, da Bilbao ad Almeria, nei palazzi dei Grandi e nei tugurii dei poveri, si parla degli artisti e delle razze dei tori; si istituiscono corse di piacere fra le provincie e la Capitale; chi è corto a quattrini, fa dei risparmi per potersi procurare un bel posto nel Circo il giorno solenne; i padri e le madri promettono ai figliuoli studiosi che ce li condurranno; gli amanti lo promettono alle belle; i giornali assicurano che si avrà una buona stagione; i toreros scritturati, che si vedon già per Madrid, son segnati a dito; corre voce che i tori sono già arrivati, c'è chi li ha visti, si briga per andarli a vedere; son tori dei pascoli del duca di Veragua, del marchese de la Merced, dell'eccellentissima signora vedova di Villaseca, stupendi, formidabili; s'apre l'ufficio per gli abbonamenti, accorrono in folla i dilettanti, i servitori delle famiglie nobili, i sensali, gli amici incaricati dagli assenti; il primo giorno l'Impresario ha incassato cinquantamila lire, il secondo, trenta, in una settimana cento mila; Frascuelo, il famoso matador, è arrivato; è arrivato il Cuco, è arrivato il Calderon; ci son tutti; ancora tre giorni! migliaia di persone non parlan d'altro, vi son signore che sognano il Circo, ministri che non han più il capo agli affari, vecchi dilettanti che non stan più nella pelle; operai, poveri che non fumano più il cigarrito per aver quei pochi soldi il giorno dello spettacolo. Finalmente s'arriva alla vigilia: il sabato mattina, prima dell'alba, in una stanza a terreno della strada d'Alcalà, si cominciano a vendere i biglietti; v'è già una folla di gente prima che s'apra la porta; urlano, si pigiano, si picchiano; venti guardie civili colla rivoltella alla cintura duran fatica a ottener un po' di quiete; fino a notte è un via vai incessante. Spunta il giorno sospirato: lo spettacolo comincia alle tre; a mezzodì muove gente da tutte le parti verso il Circo; il Circo è all'estremità del borgo di Salamanca, al di là del Prado, fuori di porta Alcalà; tutte le strade che vi conducono, sono corse da una processione di popolo; nei dintorni dell'edifizio è un formicolaio; arrivano drappelli di soldati e di volontarii della libertà, preceduti dalle bande musicali; una turba d'acquaioli e d'aranciai empiono il cielo di grida; i rivenditori di biglietti corrono qua e là chiamati da cento voci; disgraziato chi non ha ancora il suo biglietto! pagherà il doppio, il triplo, il quadruplo! ma che importa? si pagò un biglietto anche cinquanta, anche ottanta lire! Si aspetta il Re, si dice che verrà pure la Regina; cominciano ad arrivare le carrozze dei pezzi grossi; il duca Fernan Nunez, il duca di Abrantes, il marchese de la Vega de Armijo, una folla di grandi di Spagna, le deesse dell'aristocrazia; i ministri, i generali, gli ambasciatori, tuttociò che v'è di bello, di splendido e di potente nella grande città. S'entra nel Circo per molte porte; prima d'entrare s'è già assordati.
Entrai: il Circo è immenso. Visto di fuori non presenta nulla di notevole, è un edifizio rotondo, basso, senza finestre, intonacato di giallo; ma all'entrare, si prova un senso vivissimo di meraviglia. È un Circo per un popolo, ci stanno diecimila spettatori, ci potrebbe armeggiare un reggimento di cavalleria. L'arena è circolare, vastissima, da contener dieci dei nostri circhi equestri, cinta da una barriera di legno, alta fin quasi al collo d'un uomo, munita dalla parte interna d'un piccolo rilievo, a pochi palmi da terra, sul quale mettono il piede i toreros per saltar al di là, quando il toro gl'insegue. Dopo questa barriera, ve n'è un'altra più alta, perchè il toro salta sovente al di là della prima; fra questa e quella corre tutt'intorno all'arena una corsía, larga un po' più d'un metro, nella quale vanno e vengono i toreros prima del combattimento, e stanno durante il combattimento i servitori del Circo, i falegnami pronti a riparare ai guasti che può fare il toro, le guardie, i venditori d'aranci, i dilettanti che godono dell'amicizia dell'Impresario, i pezzi grossi ai quali è concesso di fare un buco nel regolamento. Al di là della seconda barriera, s'alza una gradinata di pietra; al di là della gradinata i palchi; sotto i palchi corre una galleria occupata da tre giri di sedili. I palchi son grandi da capire ciascuno due o tre famiglie; il palco del Re è una gran sala; accanto al palco del Re, v'è quello del Municipio, dal quale il Sindaco, o qualcuno per lui, presiede allo spettacolo. V'è il palco dei Ministri, del Governatore, degli Ambasciatori; ogni famiglia nobile n'ha uno; i giovanotti bontonisti, come direbbe il Giusti, n'hanno uno in molti; ci son poi i palchi d'affitto, che costano un subisso. Tutti i posti delle gradinate son numerati; ciascuno ha il suo biglietto; l'entrata si fa senza il menomo disordine. Il Circo è diviso in due: la parte dove batte il sole, la parte all'ombra; in questa si paga di più; nell'altra va il basso popolo. L'arena ha quattro porte a intervalli quasi uguali fra loro: la porta per la quale entrano i toreros, quella per i tori, quella pei cavalli, quella per gli annunziatori dello spettacolo, sotto il palco del Re. Al di sopra della porta per la quale entrano i tori, s'alza una specie di terrazza, che si chiama il toril: fortunato chi ci può trovar posto! Su questa terrazza, sur un palchetto, stanno coloro che, a un cenno che si fa dal palco del Municipio, suonan la tromba e il tamburo per annunziare l'uscita del toro. In faccia al Toril, dalla parte opposta dell'Arena, sulla gradinata, c'è la banda musicale. Tutta la gradinata è divisa in scompartimenti, ognuno dei quali ha la sua porta d'entrata. Prima che cominci lo spettacolo, il popolo può entrar nell'Arena, e girare per tutti i recessi dell'edifizio; si va a vedere i cavalli, chiusi in un cortile, destinati la maggior parte, ahimè! a morire; si va a vedere i chiusi oscuri entro cui son serrati i tori, che si fan poi passare dall'uno all'altro, fino a un corridoio, dal quale si slancian nell'arena; si va a vedere l'Infermeria dove son trasportati i toreros feriti; una volta c'era da veder pure una Cappella, nella quale celebravasi la messa durante il combattimento, e i toreros andavano a pregare prima d'affrontare la belva; si va presso la porta principale d'entrata, dove sono esposte le banderillas che saranno confitte nel collo ai tori, e dove si vede una folla di toreros vecchi, quale storpio, quale senza un braccio, quale colle stampelle, e di toreros giovani, che non sono ancora ammessi agli onori del Circo di Madrid; si compra un numero del giornale il Buletin de los Toros che promette meraviglie per la funcion del giorno; ci si fa dare dai custodi il programma dello spettacolo, e un fogliolino stampato, diviso in colonne, per notarvi i colpi di picca, le stoccate, le cadute, le ferite; si gira per gl'interminabili corridoi e le interminabili scale in mezzo a una folla che va e viene, sale e scende gridando e strepitando, da far tremar l'edifizio; e finalmente si ritorna al proprio posto.
Il Circo è pieno zeppo ed offre uno spettacolo del quale è impossibile, a chi non l'abbia visto, di formarsi un'immagine; è un mare di teste, di cappelli, di ventagli, di mani che s'agitano in aria; dalla parte dell'ombra, dove sono i signori, tutto nero; dalla parte del sole, dov'è il basso popolo, mille colori vivissimi di vestiti, di ombrellini, di ventagli di carta, un'immensa mascherata; non c'è più posto per un bambino; la folla è compatta come una falange, nessuno può uscire, si stenta a muovere le braccia. E non è un brulichío, uno strepito come negli altri teatri; è diverso; è un'agitazione, una vita affatto propria del Circo; tutti gridano, si chiamano, si salutano, con un'allegrezza frenetica; i bambini e le donne strillano, gli uomini più gravi folleggiano come giovinetti; i giovani, a gruppi di venti, di trenta insieme, vociando in cadenza, e battendo le canne sulle gradinate, annunziano al rappresentante del Municipio che è l'ora; nei palchi è un ribollimento da piccionaja di teatro diurno; al gridío assordante della folla si mescono gli urli d'un centinaio di rivenditori che gettano aranci da tutte le parti; suona la banda, i tori muggiscono, rumoreggia la folla accalcata di fuori; è uno spettacolo che dà le vertigini; prima che la lotta cominci, si è già stanchi, ebbri, smemorati.
All'improvviso s'alza un grido: — El Rey! — Il Re è arrivato; è arrivato in una carrozza tirata da quattro cavalli bianchi, montati da servitori vestiti del pittoresco costume andaluso; le vetriere che chiudono il palco reale s'aprono; il Re entra con un folto corteo di ministri, di generali, di maggiordomi. La Regina non c'è; si prevedeva: si sa che ha orrore di codesto spettacolo; oh! ma il Re non ci poteva mancare, c'è sempre venuto; si dice che ne va matto. È l'ora, si comincia. Mi ricorderò per tutta la vita del freddo che sentii nelle vene in quel punto.
Squilla la tromba: quattro guardie del Circo, a cavallo, con cappello e pennacchio alla Enrico IV, mantellina nera, giustacore, stivaloni, spada, entrano dalla porta che è sotto il palco del Re, e fanno a lento passo il giro dell'Arena; la gente sgombra, ognuno va al suo posto, l'Arena riman vuota. I quattro cavalieri si vanno a mettere a due a due dinanzi alla porta, ancora chiusa, che fa fronte al palco reale. I diecimila spettatori hanno l'occhio là, si fa un silenzio generale; di là deve uscir la cuadrilla, tutti i toreros, in gran gala, che vengono a presentarsi al Re e al popolo. La banda suona, la porta s'apre, s'ode uno scoppio immenso d'applausi, i toreros si avanzano. Vengon primi i tre espadas, Frascuelo, Lagartijo, Cayetano, i tre famosi, vestiti del costume di Figaro nel Barbiere di Siviglia, di raso, di seta, di velluto ranciato, incarnato, azzurro, coperti di ricami, di frangie, di galloni, di filigrane, di lustrini, di ciondolini d'oro e d'argento, che nascondon quasi tutto il vestito; avvolti in ampie cappe gialle e rosse; con calze bianche, cintura di seta, un gruppo di treccie sulla nuca, un berretto di pelo. Vengon dopo i banderilleros e i capeadores, uno stuolo, anch'essi coperti d'oro e d'argento; poi i picadores a cavallo, a due a due, con una gran lancia nel pugno, un cappello grigio, basso, di grandissima tesa, una giacchettina ricamata, un paio di calzoni di pelle di bufalo gialla, imbottiti e guarniti al di dentro di lamine di ferro; poi i chulos, o servitori, vestiti dei loro panni di gala; e tutti insieme attraversano maestosamente l'Arena, dirigendosi verso il palco del Re. Nulla si può immaginare di più pittoresco di quello spettacolo: vi son tutti i colori d'un giardino, tutti gli splendori d'un corteo reale, tutta la gaiezza d'una frotta di maschere, tutta l'imponenza d'una schiera di guerrieri; a chiuder gli occhi, non si vede che un barbaglio d'oro e d'argento. E son uomini bellissimi, i picadores alti e tarchiati come atleti; gli altri sottili, svelti, di forme scultorie, visi bruni, occhi grandi e fieri; figure di gladiatori antichi, vestite con uno sfarzo da principi asiatici.
Tutta la cuadrilla si arresta dinanzi al palco del Re e saluta; l'Alcade fa cenno che si può cominciare; cade dal palco nell'Arena la chiave del toril dove son chiusi i tori; una guardia del Circo la raccoglie e la rimette al custode che si va a piantare accanto alla porta, pronto ad aprire. Lo stuolo dei toreros si scioglie, gli espadas saltano al di là della barriera, i capeadores si sparpagliano per l'Arena agitando le loro capas rosse e gialle, dei picadores alcuni si ritirano ad aspettare il loro turno, gli altri spronano il cavallo e vanno ad appostarsi a sinistra del toril, alla distanza di una ventina di passi l'un dall'altro, colle spalle volte alla barriera, e la lancia in resta. È un momento d'agitazione, d'ansietà inesprimibile; tutti gli sguardi son fissi alla porta dalla quale uscirà il toro; tutti i cuori battono; un silenzio profondo regna in tutto il Circo; non si sente che il muggito del toro che s'avanza di chiuso in chiuso, nell'oscurità della sua vasta prigione, quasi gridando: — Sangue! Sangue! — I cavalli tremano, i picadores impallidiscono; — ancora un istante; — squilla la tromba, la porta si spalanca, un toro enorme si slancia nell'Arena; un grido formidabile, scoppiato a un punto da dieci mila petti, lo saluta. La strage comincia.
Ah! si ha un bell'avere la fibra forte: in quel momento si diventa bianchi come cadaveri!
Io non ricordo che in confuso ciò che seguì nei primi istanti; non so dove avessi la testa. Il toro si slanciò contro il primo picador, poi retrocedette, riprese la corsa, e si slanciò contro il secondo; seguì una lotta, non ricordo; di lì a un minuto il toro si slanciò contro il terzo; poi corse in mezzo all'Arena, si fermò e guardò. Guardai io pure e mi copersi il viso colle mani. Tutta la parte dell'Arena che il toro aveva percorso era rigata di sangue; il primo cavallo giaceva in terra, col ventre squarciato, colle viscere sparse; il secondo, col petto aperto da una larga ferita da cui sgorgava il sangue a fiotti, andava qua e là barcollando; il terzo, ch'era stato buttato a terra, si sforzava di rialzarsi; i chulos, accorsi in fretta, sollevavano da terra i picadores, toglievan la sella e le briglie al cavallo morto, cercavan di mettere in piedi il ferito; un urlìo d'inferno risuonava da tutte le parti del Circo. Così comincia per lo più lo spettacolo. I primi a ricever l'urto del toro sono i picadores; l'aspettano di piè fermo, e gli piantano la lancia tra capo e collo nell'atto ch'ei s'abbassa per dar la cornata al cavallo. La lancia, si noti, non ha che una piccola punta, che non può aprire una ferita profonda, e i picadores debbono, facendo forza col braccio, tener il toro lontano, e salvare la cavalcatura. Ci vuol un colpo d'occhio sicuro, un braccio di bronzo e un cuore intrepido; non sempre ci riescono; anzi non ci riescono il più delle volte, e il toro pianta le corna nella pancia del cavallo, e il picador cade a terra. Allora i capeadores accorrono, e mentre il toro sbarazza le corna dalle viscere della sua vittima, gli agitano le capas sugli occhi, lo distraggono, si fanno inseguire, e lasciano in salvo il cavaliere caduto, che i chulos vanno a soccorrere, per rimetterlo in sella se il cavallo regge ancora, o portarlo all'infermeria, se si è sfracellata la testa.
Il toro, fermo in mezzo all'Arena, colle corna insanguinate, anelante, guardava intorno come per dire: — Ne avete assai? — Uno stuolo di capeadores gli corse incontro, l'attorniò, e cominciarono a provocarlo, a aizzarlo, a farlo correre di qua e di là, scotendogli le cappe sugli occhi, facendogliele passare sulla testa, attirandolo e sfuggendolo con rapidissime giravolte, per tornare a provocarlo e a sfuggirlo daccapo; e il toro a dar dietro or all'uno ora all'altro, a inseguirli fino alla barriera, e là a picchiar cornate contro gli assiti, a scalpitare, a far capriole, a muggire, a riconfiggere le corna, passando, nel ventre dei cavalli morti, a far degli sforzi per saltare nella corsia, a correr l'Arena da tutte le parti. Intanto erano entrati altri picadores per sostituire i due ai quali era stato ucciso il cavallo, e s'eran posti, lontani l'un dall'altro, dalla banda del toril, colla lancia in resta, aspettando che il toro assalisse. I capeadores lo tirarono destramente da quel lato: il toro, visto il primo cavallo, gli si slanciò contro a capo basso. Ma questa volta il suo assalto andò fallito; la lancia del picador gli si confisse nella spalla, e resistette; il toro s'ostinò, ponzò, fece impeto con tutta la sua mole; ma invano; il picador tenne duro, il toro dette indietro, il cavallo fu salvo, e uno scoppio fragoroso d'applausi salutò il salvatore. L'altro picador fu meno fortunato: il toro lo assalì, egli non riuscì a piantar la lancia, il corno formidabile penetrò nel ventre del cavallo colla rapidità d'una spada, si dibattè nella ferita, si ritrasse: gli intestini del povero animale caddero e rimasero sospesi dondolando come un sacco quasi fino a terra; il picador rimase in sella. Qui si vide un'orrenda cosa. Invece di scendere, il picador, visto che la ferita non era mortale, diè una spronata e s'andò ad appostare da un'altra parte per aspettare un secondo assalto: il cavallo attraversò l'Arena con le viscere fuor del corpo, che gli battevan nelle gambe e gl'intralciavano il passo; il toro l'inseguì per qualche momento, e si fermò. In quel punto s'udì uno squillo di tromba: era il segnale che i picadores dovevano ritirarsi, s'aperse una porta, se n'andarono l'un dopo l'altro al galoppo; rimasero due cavalli morti, e qua e là guazzi e righe di sangue, che due chulos copriron di terra.
Dopo i picadores vengono i banderilleros. Pei profani è la parte dello spettacolo, perchè meno cruenta, più dilettevole. Le banderillas sono frecciuole lunghe un due palmi, ornate di carta colorata, munite d'una punta metallica formata in modo che, una volta confitta nelle carni, non se ne può più staccare, e il toro agitandosi e scuotendola non fa che configgerla più addentro. Il banderillero prende due di queste freccie, una per mano, e si va a piantar ritto una quindicina di passi davanti al toro, e alzando le braccia e gridando, lo provoca ad assalirlo. Il toro gli si slancia contro; il banderillero, alla sua volta, corre verso il toro; questi abbassa la testa per dargli le corna nel ventre, quegli gli pianta le banderillas nel collo, una di qua e una di là, e con una rapidissima giravolta si salva. Se si china, se gli fallisce un piede, se esita un secondo, è infilato come un ranocchio. Il toro mugge, sbuffa, salta e si mette a inseguire i capeadores con uno spaventoso furore; in un minuto tutti son saltati nella corsia, l'arena è sgombra, la belva col muso schiumante, cogli occhi sanguigni, col collo rigato di sangue, pesta la terra, si dibatte, percuote la barriera, domanda vendetta, vuol uccidere, ha bisogno di strage, nessuno s'attenta ad affrontarla, gli spettatori empiono l'aria di grida: — Avanti! coraggio! L'altro banderillero! — L'altro banderillero si fa innanzi e pianta le sue freccie, poi un terzo, poi di nuovo il primo. Quel giorno gliene piantaron otto; la povera bestia, quando si sentì configger le ultime due, mandò un muggito lungo, straziante, orrendo, e slanciatosi dietro ad uno dei suoi nemici, lo inseguì sino alla barriera, spiccò un salto, e cascò con lui nella corsia; i dieci mila spettatori si levarono in piedi tutti in un punto, gridando: — Lo ha ucciso! — Ma il banderillero s'era scansato. Il toro corse e ricorse avanti e indietro fra le due barriere, sotto una pioggia di bastonate e di pugni, sin che s'abbattè in una porta aperta, rientrò nell'arena, e la porta si richiuse. Allora tutti i banderilleros e tutti i capeadores gli si slanciarono di nuovo intorno; uno passandogli dietro, gli diè uno strappo alla coda, e disparve come un fulmine; un altro, trapassando rapidissimamente, gli avvolse la capa intorno alle corna; un terzo spinse l'audacia sino ad andargli a togliere con una mano un piccolo nastro di seta che aveva attaccato sulla groppa; un quarto, più temerario di tutti, puntò un'asta in terra, mentre il toro correva, e spiccato un salto, gli passò al di sopra e andò a cascare dall'altra parte, buttando l'asta tra le gambe dell'animale stupefatto. E tutto questo facevano con una rapidità da prestigiatori e una grazia da ballerini, come se avessero scherzato con una pecora! E intanto la folla immensa faceva rimbombare il circo di risa, di applausi, di grida di gioia, di meraviglia, di terrore.
Squilla un'altra volta la tromba; i banderilleros han finito; ora tocca all'espada; è il momento solenne, è la crisi del dramma; la folla si queta, le signore si sporgon fuori dei palchi, il Re si alza in piedi. Il celebre Frascuelo, tenendo in una mano la spada e la muleta, che è un pezzo di stoffa rossa attaccata a un bastoncino, entra nell'arena, si presenta dinanzi al palco reale, si leva il berretto, e consacra al Re, pronunciando una poetica frase, il toro che va ad uccidere; poi getta il berretto in aria, come per dire: — Vincerò o morirò! — e seguìto dallo splendido corteo dei capeadores, si muove con passo risoluto verso il toro. Qui segue una vera lotta corpo a corpo, degna d'un canto d'Omero. Da un lato la belva colle sue corna terribili, colla sua forza enorme, colla sua sete di sangue, inasprita dal dolore, acciecata dall'ira, torva, insanguinata, spaventosa; dall'altra un giovane di vent'anni, vestito come un ballerino, a piedi, solo, senza difesa con una leggera spadina tra le mani. Ma egli ha diecimila sguardi addosso! Il Re gli prepara un dono! La sua amante è lassù, in un palco, cogli occhi fissi su di lui! Mille signore tremano per la sua vita! Il toro si ferma, lo guarda; egli guarda il toro, e gli agita dinanzi il panno rosso; il toro si caccia sotto, l'espada si scansa, il corno formidabile gli rasenta il fianco, urta il panno rosso e colpisce nel vuoto. Un tuono d'applausi scoppia su tutte le gradinate, in tutti i palchi, in tutte le gallerie. Le signore guardano col canocchiale e gridano: — Non ha impallidito! — Si fa silenzio daccapo, non si sente una voce, non un bisbiglio. L'audace torero fa volteggiare a più riprese la muleta sugli occhi dell'animale inferocito, gliela passa sulla testa, tra le corna, intorno al collo, lo fa retrocedere, avanzare, girare, saltare; si fa assalire dieci volte, e dieci volte, con un leggerissimo movimento, scansa la morte; lascia cader la muleta, la raccoglie sotto gli occhi del toro, gli ride sul muso, lo provoca, l'insulta, se ne trastulla; tutt'a un tratto si ferma, si mette in guardia, alza la spada, piglia la mira; il toro lo guarda; ancora un istante, e si slancieranno addosso, l'un all'altro, nello stesso punto; uno dei due deve morire; diecimila sguardi corrono con una rapidità fulminea dalla punta della spada alla punta delle corna, dieci mila cuori battono di ansietà e di terrore, tutti i visi sono immobili, non si sente un respiro, l'immensa folla par pietrificata, — ancora un istante, — ecco il punto! Il toro si slancia, l'uomo vibra la spada; un solo altissimo grido, seguito da uno scoppio tempestoso di applausi, prorompe da ogni parte; la spada penetrò fino all'elsa nel collo del toro, il toro barcolla, e gettando dalla bocca un fiotto di sangue, cade come colpito da un fulmine. L'uomo ha vinto! Allora segue un tumulto indescrivibile; la moltitudine sembra forsennata; tutti si levano in piedi, scotendo le braccia, gettando alte grida; le signore sventolano i fazzoletti, batton le mani, agitano i ventagli; la banda suona; l'espada vincitore s'avvicina alla barriera e fa il giro dell'arena; via via che passa, dalle gallerie, dai palchi, dalle gradinate, gli spettatori rapiti d'entusiasmo gli gettano addosso manate di sigari, portafogli, bastoni, cappelli, tutto quello che cade loro sotto le mani; in pochi momenti il fortunato torero ha le braccia ingombre di roba, chiama in soccorso i capeadores, rigetta i cappelli agli ammiratori, ringrazia, risponde come può ai saluti, alle lodi, ai titoli gloriosi che gli si gridan da mille parti, e giunge finalmente sotto il palco del Re. Allora tutti gli occhi si rivolgono sul Re. Il Re mette una mano in tasca, tira fuori un portasigari pieno di biglietti di banca e lo butta giù; il torero lo coglie in aria, la moltitudine prorompe in applausi. Intanto la banda suona l'aria funebre al toro; s'apre una porta, entrano di galoppo quattro stupende mule ornate di pennacchi, di fiocchi e di nastri gialli e rossi, condotte da uno stuolo di chulos che gridano e fan chioccare le fruste; trascinano via un dopo l'altro, i cavalli morti, e poi il toro, che vien subito portato in una piazzetta vicino al circo dove l'aspetta una turba di monelli, per intingere il dito nel suo sangue, dopo di che vien scorticato, tagliato e venduto. Rimasta libera l'arena, squilla la tromba, suona il tamburo: un altro toro si precipita fuori della gabbia, assalta i picadores, squarcia il ventre ai cavalli, offre il collo alle banderillas, è ucciso da un'espada; e così si presentano nell'arena, l'un dopo l'altro, senza alcuna interruzione, sei tori.
Quante scosse, quanti brividi, quanti accessi di freddo al cuore e di sangue al capo, vi pigliano durante quello spettacolo! Quanti pallori improvvisi! Ma voi, straniero, voi solo impallidite: il ragazzo che avete accanto ride, la fanciulla che vi siede dinanzi è pazza dalla gioia, la signora che vedete nel palco vicino, dice che non s'è mai divertita tanto! Che gridìo! Che esclamazioni! Là per imparare la lingua! Comparisce il toro, è giudicato da mille voci: — Che bella testa! — Che occhi! Quello farà sangue! — Anda que vales un tesoro! — Gli gridano delle frasi d'amore. Ha ucciso un cavallo: — Bueno! — Guarda quanta roba gli ha cavato dal ventre! — Un picador fallisce il colpo, e ferisce malamente il toro, o si perita ad affrontarlo: allora è un diluvio d'ingiurie atroci; — Poltrone! Impostore! Assassino! Vatti a nascondere! Fatti ammazzare! — Tutti s'alzano, lo segnano a dito, gli mostrano i pugni, gli tiran sul viso le scorze d'arancio e i mozziconi dei sigari, lo minacciano col bastone. Quando l'espada fredda il toro alla prima, allora sono parole da innamorati in delirio, gesti da pazzi: — Vieni qui, angelo! — Dio ti benedica, Frascuelo! — Gli mandan dei baci, lo chiamano, tendon le mani come per abbracciarlo. Che profusione di epiteti, di frizzi, di proverbi! Quanto fuoco! Quanta vita!
Ma io non dissi che delle vicende d'un toro; in un'intera corrida seguon mille accidenti. In quello stesso giorno un toro cacciò la testa sotto il ventre d'un cavallo, sollevò cavallo e cavaliere, e portatili un po' in trionfo a traverso l'arena, li scaraventò in terra tutti e due come un sacco di cenci. Un altro toro uccise quattro cavalli in pochi minuti; un terzo investì così malamente un picador, che questo cadde, diè del capo nella barriera e svenne, e fu portato via. Ma non per questo, nè per un ferimento grave, e neanco per la morte d'un torero s'interrompe lo spettacolo; il programma lo dice; se uno muore, ce n'è un altro pronto. Il toro non assalta sempre; ve ne son dei vigliacchi, che vanno incontro al picador, s’arrestano, e dopo un istante di esitazione, fuggono; altri, dopo il primo assalto, non assaltan più; altri, d’indole mite e benigna, non rispondon neanco alle provocazioni, si lascian venire addosso il picador, si lascian piantare la lancia nel collo, danno indietro, scrollan la testa, come per dire: — Non voglio! —, fuggono e poi si voltano, tutt’a un tratto, a guardare con aria attonita lo stuolo dei capeadores che gl’insegue come se volessero dimandare: — Che volete da me? Che v’ho fatto? Perchè mi volete uccidere? — Allora la folla prorompe in imprecazioni contro il toro vigliacco, contro l’impresario, contro i toreros; e prima qualcuno dei dilettanti del toril, poi gli spettatori della banda del sole, poi i signori della banda dell’ombra, poi le signore, poi tutti gli spettatori del circo gridano a una voce: Banderillas de fuego! — Il grido è diretto all’Alcade; le banderillas di fuoco servono a inferocire il toro; son banderillas munite d’un razzo che s’accende nell’atto stesso che la punta penetra nelle carni, e brucia la ferita cagionando un dolore atroce, e stordisce ed irrita l’animale al punto da mutarlo di vigliacco in temerario, di queto in furioso. Per metter le banderillas de fuego ci vuole il permesso dell’Alcade; se l’Alcade esita a darlo, tutti gli spettatori s’alzano in piedi; e allora è un colpo d’occhio stupendo; si vedon dieci mila fazzoletti che sventolano come le bandierine di dieci reggimenti di lancieri, e formano dai palchi all'Arena, tutt'intorno, uno strato bianco ondeggiante sotto il quale sparisce quasi la folla; e dieci mila voci gridano: — fuego! fuego! fuego! — Allora l'Alcade cede; ma se s'ostina nel suo no, i fazzoletti spariscono, s'alzano i pugni e i bastoni, prorompono le ingiurie: — No sea usted necio! — Non faccia il minchione! — Non rompa i corbelli! — Las banderillas al Alcalde! — Fuego al Alcalde!
L'agonia del toro è tremenda. Qualche volta il torero non aggiusta il colpo a dovere, e la spada penetra bensì fino all'elsa, ma fuor della via del cuore. Allora il toro si mette a correr l'arena colla spada confitta nelle carni, irrigando il terreno di sangue, mandando altissimi muggiti, divincolandosi e scontorcendosi in mille modi per liberarsi da quella tortura; e in quell'impetuosa corsa, qualche volta la spada salta via; qualche volta si configge più addentro, e gli cagiona la morte. Sovente l' espada è costretto a dargli una seconda stoccata, non di rado una terza, talora una quarta; il toro versa un torrente di sangue; tutte le capas dei capeadores ne sono intrise, n'è macchiato l' espada, n'è aspersa la barriera, per tutto cola sangue, gli spettatori indignati coprono il torero d'ingiurie. Qualche volta il toro profondamente ferito, cade a terra; ma non muore, e resta là immobile, colla testa alta, minaccioso, come per dire: — Venite, assassini, se vi basta l'animo! — Allora la lotta è finita; bisogna accorciar l'agonia; un uomo misterioso scavalca la barriera, s'avvicina a passi furtivi, si apposta dietro al toro, e colto il momento, gli vibra un colpo di pugnale nella testa, che gli penetra al cervello e lo fredda. Spesso neanche questo colpo non riesce; l'uomo misterioso deve vibrarne due, tre, persino quattro; allora l'indignazione del popolo si scatena come una tempesta, gli danno del boia, del codardo, dell'infame, gli augurano la morte, se lo avesser nelle mani, lo strozzerebbero come un cane. Altre volte il toro, ferito a morte, barcolla un pezzo prima di cadere, e barcollando s'allontana a lento passo dal luogo dove fu colpito per andar a morir in pace in un canto appartato; tutti i toreros lo seguono lentamente, come un corteggio funebre, a una certa distanza; la folla tien dietro cogli occhi a tutti i suoi movimenti, conta i suoi passi, misura il progresso dell'agonía; un silenzio profondo accompagna i suoi ultimi momenti; la sua morte ha qualcosa di maestoso e di solenne. Vi son dei tori indomabili, che non vogliono chinar la testa se non traendo l'ultimo respiro; tori che, versando ruscelli di sangue per la bocca, minacciano ancora; tori che, trafitti da dieci colpi di spada, pugnalati, dissanguati, alzano ancora il collo con un movimento superbo che fa retrocedere lo stuolo dei loro persecutori fino a metà dell'arena; tori che hanno un'agonía più spaventevole della loro prima furia, che straziano i cavalli morti, spezzano la barriera, calpestano rabbiosamente le capas sparse per l'arena, saltano nella corsia, corrono intorno colla testa alta dando gli spettatori con un'aria di sfida, cadono, si rialzano, muoiono muggendo.
L'agonia dei cavalli, meno lunga, è più dolorosa. Ad alcuni il toro spezza una gamba, ad altri trafigge il collo da parte a parte, altri uccide, con una cornata al petto, sul colpo, senza che versin neanco una goccia di sangue; altri, presi dallo spavento, piglian la carriera, diritto davanti a sè, e vanno a urtare la testa con un tremendo colpo contro la barriera, e cadono morti; altri si dibattono lungo tempo in un lago di sangue prima di morire; altri, feriti, sanguinosi, sbudellati, storpiati, galoppano ancora con una furia disperata, vanno incontro al toro, stramazzano, si rialzano e combattono ancora, fin che son portati via, disfatti, ma vivi; e allora gli si rimetton gl'intestini al posto, gli si cucisce la pancia, e servono per un'altra volta; altri, paurosi, all'avvicinarsi della belva, tremano verga a verga, scalpitano, rinculano, nitriscono, non vogliono morire; e son quelli che destano più pietà. Qualche volta un sol toro ne uccide cinque; qualche volta, in una corrida, ne muoion venti, tutti i picadores sono intrisi di sangue, l'arena sparsa di viscere fumanti, i tori stanchi di uccidere.
I toreros, anch'essi, hanno i loro brutti momenti. I picadores, talvolta, invece di cadere sotto il cavallo, cadono tra il cavallo e il toro; allora questo si precipita su di loro per ucciderli; la folla getta un grido; ma un capeador ardito getta la capa sugli occhi alla belva, e rischiando la sua vita salva quella del compagno. Sovente, invece di slanciarsi contro la muleta, il toro accorto, si slancia contro l'espada, lo rasenta, lo investe, lo insegue, lo costringe a buttar via l'arma e a salvarsi, pallido e tremante, di là dalla barriera. Qualche volta l'urta colla testa e lo atterra; l' espada sparisce in un nuvolo di polvere, la folla grida: — È morto! — il toro passa, l' espada è salvo. Qualche volta gli arriva sotto ad un tratto, lo solleva colla testa e lo sbatte da un lato. Non di rado il toro non si lascia pigliar di mira colla spada, il matador non riesce a coglierlo di fronte, e poichè non lo può ferire, giusta gli statuti, che in quel dato punto e in quel dato modo, si stanca inutilmente per lunga pezza, e stancandosi si confonde, e corre cento volte il rischio di farsi uccidere; e intanto la folla urla, fischia, l'insulta; finchè il pover uomo, disperato, si risolve a uccidere o a morire, e vibra il colpo come vien viene; ed o gli riesce ed è levato a cielo, o gli fallisce, ed è vilipeso, schernito, tempestato di scorze d'arancio, fosse anche il più intrepido, il più valente, il più decantato torero della Spagna.
Nella folla, poi, durante lo spettacolo, seguono mille avvenimenti. Di tratto in tratto scoppia una rissa fra due spettatori. Pigiata com'è la gente, qualche bastonata tocca ai vicini; i vicini dan di mano ai bastoni e picchiano anch'essi; il circolo delle bastonate s'allarga, la rissa si estende a tutto lo scompartimento della gradinata; in pochi momenti, cappelli in aria, cravatte in brani, visi sanguinosi, grida da intronare il cielo, tutti gli spettatori in piedi, le guardie in moto, i toreros, di attori, divenuti spettatori. Altre volte è un gruppo di giovanotti burloni che si voltan tutti insieme da una parte gridando: "Eccolo là." — "Chi?" — Nessuno; ma intanto i vicini si alzano, i lontani salgono in piedi sui sedili, le signore si sporgon fuori dei palchi; in un momento tutto il Circo è sossopra. Allora il gruppo dei giovanotti dà in una sonora risata; i vicini, per non parer minchioni, fanno eco; si ride nei palchi, si ride nelle gallerie, diecimila persone ridono. Altre volte è uno straniero, spettatore per la prima volta della corsa dei tori, che sviene; la notizia si spande in un baleno, tutti s'alzano, tutti cercano, tutti gridano, si fa un casa del diavolo che non ha nome. Altre volte è un bell'umore che saluta un suo amico posto all'estremità opposta del Circo con un portavoce che fa l'effetto d'uno scoppio di tuono. Quella grande folla è agitata in pochi istanti da mille sentimenti contrarii; passa con una vicenda incessante dal terrore all'entusiasmo, dall'entusiasmo alla pietà, dalla pietà all'ira, dall'ira all'allegrezza, alla meraviglia, alla gioia sfrenata.
L'impressione insomma che lascia nell'animo questo spettacolo è indescrivibile, è un miscuglio di sentimenti nel quale è impossibile raccapezzar nulla di schietto, non si sa che pensarne. A momenti, inorriditi, vorreste fuggire dal Circo, e giurate di non tornarci mai più; a momenti, meravigliati, rapiti, quasi ebbri, non vorreste che lo spettacolo avesse mai fine; ora vi sentite quasi pigliar male; ora anche voi, come i vostri vicini, prorompete in grida, in risa e in applausi; il sangue vi fa ribrezzo, ma il coraggio meraviglioso dell'uomo vi esalta; il pericolo vi stringe il cuore, ma la vittoria vi rallegra; a poco a poco la febbre che agita la folla s'impadronisce di voi; non riconoscete più voi stesso; siete un altro; avete anche voi degli accessi d'ira, di ferocia, d'entusiasmo; vi sentite vigoroso e audace; la lotta vi accende il sangue; il balenío della spada vi mette un fremito; e poi quelle migliaia di visi, quello strepito, quella musica, quei muggíti, quel sangue, quei silenzi profondi, quei fragori improvvisi, quella vastità, quella luce, quei colori, quel non so che di grande, di forte, di crudele, di magnifico, che v'abbarbaglia, vi stordisce e vi rimescola....
Bello è il veder uscir la gente; son dieci torrenti che sgorgano da dieci porte e allagano in pochi minuti il borgo di Salamanca, il Prado, i viali di Recoletos, la strada Alcalà; migliaia di carrozze aspettano nei dintorni del Circo; per un'ora, da qualunque parte uno si volga, non vede che un formicolaio a perdita d'occhio; e tutti tacciono; le emozioni hanno spossato tutti; non si sente che il rumore dei passi; pare che la folla voglia dileguarsi furtivamente; una specie di tristezza è sottentrata alla clamorosa allegria di poc'anzi. Io, per mio conto, la prima volta che uscii da quel Circo, avevo appena tanta forza da reggermi in piedi; la testa mi girava come un arcolaio, le orecchie mi fischiavano, per tutto vedevo corna di tori, occhi iniettati di sangue, cavalli morti, luccichío di spade. Presi la via più corta per andare a casa, e appena arrivato, mi cacciai in letto, e m'addormentai d'un sonno profondo. L'indomani mattina venne in gran fretta la padrona di casa a domandarmi: "Ebbene? che gliene parve? s'è divertito? ci tornerà? che cosa ne dice?" — "Non so" risposi "mi par d'aver sognato, gliene parlerò poi, ho bisogno di pensarci." — Venne il sabato, la vigilia della seconda corsa dei tori. "Ci va?" mi domandò la padrona. "No..." risposi pensando ad altro. Uscii, infilai la strada d'Alcalà, mi trovai, senza accorgermene, davanti alla bottega dove si vendono i biglietti; c'era un visibilio di gente; dissi fra me: — Ci ho da andare?... Sì?... No?... — "Vuole un biglietto?" mi domandò un ragazzo: "un asiento de sombra, tendido numero seis, barrera, quince reales?" Ed io risposi: "Qua!"
Ma per comprender bene la natura di codesto spettacolo, bisogna conoscerne la storia. Quando si sia fatto per la prima volta un combattimento coi tori, non si sa in modo sicuro; la tradizione narra che fu il Cid Campeador il primo cavaliere che scese colla lancia nell'arena, e uccise da cavallo il formidabile animale. D'allora in poi i giovani nobili si dedicarono con grande ardore a questo esercizio; in tutte le feste solenni vi furon corse di tori; e solamente alla nobiltà era concesso l'onore di combattere; i re stessi scendevan nell'arena; durante tutto il medio-evo era codesto lo spettacolo favorito delle corti, e l'esercizio prediletto dei guerrieri, non solo tra gli Spagnuoli, ma anco tra gli Arabi; e gli uni e gli altri gareggiavano nell'arena toresca come sul campo di battaglia. Isabella la Cattolica volle proibire le corse dei tori, perchè, avendone vista una, le aveva fatto orrore; ma i molti e potenti partigiani dello spettacolo la distolsero dal mandare ad effetto quel disegno. Dopo Isabella, le corse presero un grande incremento. Carlo V stesso uccise di propria mano un toro nella piazza maggiore di Valladolid; Ferdinando Pizzarro, il celebre conquistatore del Perù, fu un torero valente; il re Don Sebastiano di Portogallo colse nell'arena più d'un alloro; Filippo III fece abbellire il circo di Madrid; Filippo IV vi combattè; Carlo II protesse l'arte; sotto il regno di Filippo V, si costrussero, per ordine del Governo, parecchi circhi; ma l'onore di torear apparteneva sempre esclusivamente alla nobiltà; non si toreaba che a cavallo, e con cavalli bellissimi, e però non si spargeva altro sangue che quello del toro. Solamente verso la metà del secolo scorso l'arte si estese al popolo, e sorsero i toreros propriamente detti, artisti di professione, che combattevano a piedi e a cavallo. Il famoso Francisco Romero de Ronda perfezionò il toreo a piedi, introdusse l'uso di uccidere il toro, faccia a faccia, con la spada e la muleta, e fissò le regole dell'arte. D'allora in poi lo spettacolo diventò nazionale e il popolo vi accorse con entusiasmo. Il re Carlo II lo proibì; ma la sua proibizione non fece che convertire l'entusiasmo popolare, come dice un cronista spagnuolo, in una aficion epidémica. Il re Ferdinando VII, appassionato pei tori, istituì una scuola di tauromachía a Siviglia; Isabella II fu più entusiasta di Ferdinando VII; Amedeo primero non fu da meno, a quello che si dice, di Isabella II. Ed ora il toreo fiorisce più che mai nella Spagna; più di cento sono i grandi proprietarii che allevano tori per gli spettacoli; Madrid, Siviglia, Barcellona, Cadice, Valenza, Jerez, Porto di Santa Maria hanno un circo di tori di prim'ordine; non meno di cinquanta sono i piccoli circhi capaci di tremila fino a novemila spettatori; in tutti i villaggi, dove non c'è circo, si fanno le corridas nelle piazze; a Madrid tutte le domeniche, nelle altre città ogni volta che si può, da per tutto con immenso concorso di gente dalle città vicine, dai villaggi, dalla campagna, dai monti, dalle isole, e persino di fuori Stato. Non tutti gli Spagnuoli, è vero, son matti di codesto spettacolo; molti non ci vanno mai; non pochi lo disapprovano, lo condannano, lo vorrebbero veder bandito dalla Spagna; qualche giornalista, di tanto in tanto, alza un grido di protesta; qualche deputato, l'indomani dell'uccisione d'un torero, parla di fare un'interpellanza al Governo; ma son tutti nemici timidi e fiacchi. Per contro si scrivono apologie delle corse dei tori, si fabbricano nuovi circhi, si rinnovano gli antichi, si deridono gli stranieri che gridano alla barbarie spagnuola. E non si fan solo corridas di tori l'estate, nè lo spettacolo è sempre uguale. L'inverno, nel circo di Madrid, ogni domenica c'è rappresentazione; non sono quei tori belli e focosi dell'estate, non sono i grandi artisti che la Spagna ammira; son torelli di picciola mole e di piccolo animo, sono toreros non ancora provetti nell'arte; ma c'è spettacolo a ogni modo, e benchè non ci vada il Re, nè il fiore della cittadinanza, come alle corse d'estate, il circo è sempre pieno di gente. Si sparge poco sangue, non si uccidono che due tori, si chiude lo spettacolo con dei fuochi d'artifizio; è un divertimento, come dicono con disprezzo i torofili appassionati, da serve e da bambini. Ma v'è un episodio, negli spettacoli d'inverno, che diverte assai. Quando i toreros hanno ucciso i toros de muerte, l'arena rimane a disposizione dei dilettanti; da tutte le parti ci salta dentro gente; in un minuto v'è un centinaio di operai, di scolari, di monelli, chi con un mantello in mano, chi con uno scialle, chi con un cencio qualunque, affollati a destra e a sinistra del toril, pronti a ricevere il toro. La porta s'apre, un toro colle corna fasciate si slancia nell'arena, e lì comincia un parapiglia da non potersi descrivere; la folla lo circonda, lo insegue, lo tira di qua e di là, lo capea coi mantelli e cogli scialli, lo provoca e lo tormenta in mille maniere, finchè il povero animale non potendone più, è fatto uscir dall'arena, e un altro gli sottentra. È incredibile l'audacia con cui quei ragazzi gli si caccian sotto, lo trascinan per la coda, gli saltano addosso; incredibile l’agilità con cui ne scansano i colpi. Qualche volta il toro, voltandosi all’improvviso, ne arriva qualcuno, lo atterra, lo butta in aria, lo solleva in alto sulle corna; talora ne rovescia nella polvere con un sol colpo una mezza dozzina, e toro ed uomini spariscono in un nuvolo di polvere, e lo spettatore teme per un istante che ne sia stato ammazzato qualcuno. Nemmanco per idea! Gl’intrepidi capeadores s’alzano coll’ossa péste e col viso polveroso, scrollan le spalle, e daccapo. Ma non è neanco questo il più bell’episodio degli spettacoli d’inverno. Qualche volta invece dei toreros affrontano il toro le toreras; donne vestite da danzatrici di corda; faccie, davanti alle quali, non gli angeli, ma Lucifero:
«Farìa dell’ali agli occhi una visiera;»
le picadoras a cavallo a un asino, la espada — quella ch’io vidi era una vecchia sessantenne, chiamata la Martina, asturiana, nota in tutti i circhi di Spagna, — la espada a piedi, collo stocco e la muleta, come il più intrepido matador del sesso forte; tutta la cuadrilla accompagnata da un corteo di chulos con grandi parrucche e grandi gobbe. Per quaranta lire quelle disgraziate rischian la vita! Un toro, il giorno ch’io assistei a quello spettacolo, ruppe un braccio a una banderillera, e a un’altra lacerò le sottane per modo che la lasciò in mezzo al circo con appena tanta roba addosso da coprir quello che dev’essere assolutamente coperto. Dopo le donne, le fiere. In vari tempi si fece combattere il toro coi leoni e colle tigri; pochi anni or sono ebbe luogo una di codeste lotte nel Circo di Madrid. È celebre quella che fece fare il conte duca di Olivares per festeggiar il giorno onomastico, se non m'inganna la memoria, di Don Baltasar Carlos d'Austria, principe delle Asturie. Il toro combattè col leone, colla tigre, col leopardo, e riuscì vincitore di tutti. Anche nel combattimento di pochi anni sono, la tigre e il leone ebbero la peggio; l'una e l'altro si slanciarono impetuosamente addosso al toro; ma prima di riuscire ad addentargli il collo, infilati dal terribile corno, caddero a terra in un lago di sangue. Il solo elefante, un elefante enorme che vive tuttora nei giardini del Buon Ritiro, riportò la vittoria: il toro lo assalì, quegli non fece che mettergli la testa sul dorso e premere, e la pressione fu così delicata che il malcauto assalitore ne fu schiacciato come una polpetta. Ma è agevole immaginare quanta destrezza, quanto coraggio, e che imperturbabile tranquillità d'animo occorra ad un uomo per affrontare con la spada un animale che uccide il leone, che assale l'elefante, e che per tutto dove tocca, squarcia, spezza, rovescia ed insanguina! E vi son degli uomini che l'affrontano tutti i giorni!
I toreros non son mica artisti, come qualcuno può supporre, da mettersi in un mazzo coi saltimbanchi, e pei quali il popolo non nutra altro sentimento che quello dell'ammirazione. Il torero è rispettato anche fuori del Circo, gode la protezione dei giovani aristocratici, va al teatro in palco, frequenta il più signorile caffè di Madrid, è salutato per la strada con profonde scappellate da persone di garbo. Gli espada illustri, come il Frascuelo, il Lagartijo, il Cayetano, guadagnano la bellezza di qualche diecina di mila lire all’anno, possedono case e ville, abitano in appartamenti sontuosi, vestono con isfarzo, profondon monti di scudi nei loro vestiti inargentati e dorati, viaggiano da principi e fumano sigari d’Avana. Il loro vestire, fuor del Circo, è curiosissimo: un cappello all’Orsini di velluto nero, una giacchettina stretta alla vita, sbottonata, che non arriva a toccare i calzoni; un panciotto aperto fino all’ombelico, che lascia vedere una camicia bianca finissima; nessuna cravatta; una fascia di seta rossa o azzurra intorno ai fianchi; un par di calzoni giusti alla gamba come calze da ballerini, un par di scarpette di pelle del Marocco ornate di ricami, un piccolo codino a treccia che scende sul dorso; e poi bottoni d’oro, catenelle, diamanti, anelli, ciondoli, tutta una bottega da orefice addosso. Molti tengon cavallo da sella, qualcuno carrozza, e quando non ammazzano, son sempre in giro al Prado, alla Puerta del Sol, nei giardini di Recoletos, colle loro spose o le loro amanti splendidamente vestite e amorosamente superbe. I loro nomi, i loro visi, le loro gesta sono assai più noti al popolo che le gesta, i visi e i nomi dei comandanti d’esercito e dei ministri di Stato. Toreros nelle commedie, toreros nelle canzoni, toreros nei quadri, toreros nelle vetrine dei venditori di stampe, statue che rappresentan toreros, ventagli coi ritratti dei toreros, fazzoletti con l’effigie dei toreros; se ne vede, se ne rivede e se ne intravvede da tutte le parti. Il mestiere del torero è il più lucroso e più onorifico mestiere a cui un coraggioso figliuolo del popolo possa aspirare. Moltissimi, di fatti, vi si dedicano. Ma pochissimi riescono eccellenti; i più rimangon mediocri capeadores, pochi arrivano ad essere banderilleros di vaglia, meno ancora picadores di grido; bravi espada, poi, non diventano che pochi prediletti dalla natura e dalla fortuna; bisogna esser venuti al mondo con quel bernoccolo; si nasce espada come si nasce poeta. Di uccisi dal toro ce n’è di rado, si contan sulle dita per un lungo giro di tempo; ma gli stroppiati, i malconci, i ridotti in stato da non poter più combattere, sono innumerevoli. Se ne vedono per le città col bastone e le stampelle, chi senza un braccio, chi senza una gamba. Il famoso Tato, che fu il primo dei toreros contemporanei, perdette una gamba; nei pochi mesi ch’io stetti in Spagna, fu mezzo ammazzato un banderillero a Siviglia, fu ferito gravemente un picador a Madrid, fu malconcio il Lagartijo, furono uccisi tre capeadores dilettanti in un villaggio. Non c’è quasi torero che non abbia sparso sangue nell’Arena.
Prima di partire da Madrid volli parlare col tanto celebrato Frascuelo, il principe degli espadas, l’idolo del popolo di Madrid, la gloria dell’arte. Un
genovese, capitano di bastimento, che lo conosceva, s'incaricò di fare la presentazione; fissammo il giorno, ci trovammo nel caffè imperiale della Puerta del Sol. Mi vien da ridere quando penso all'emozione che provai vedendolo comparire da lontano e venire verso di noi. Era vestito con gran lusso, carico di ciondoli, luccicante come un generale in grande uniforme; attraversò il caffè, mille teste si voltarono, mille occhi si fissarono su di lui, su di me, sul mio compagno: io mi sentii diventar pallido. "Ecco il signor Salvador Sanchez," disse il Capitano (Frascuelo è un soprannome). E poi, presentando me a Frascuelo: "Ecco il signor tale dei tali, suo ammiratore." L'illustre matador s'inchinò, io feci una riverenza, sedemmo e cominciammo a discorrere. Che strano uomo! A sentirlo discorrere si sarebbe detto che non aveva cuore d'infilzare una mosca con una spilla. È un giovanotto di venticinque anni, di mezzana statura, svelto, bruno, bello, con uno sguardo fisso e un sorriso d'uomo distratto. Gli domandai mille cose intorno all'arte sua e alla sua vita; parlava a monosillabi; bisognava che gli cavassi le parole di bocca, a una a una, a furia di domandare. Ai complimenti rispondeva guardandosi la punta dei piedi con uno sguardo modesto. Gli chiesi se fosse mai stato ferito: si toccò un ginocchio, una coscia, la spalla, il petto, e disse: "Qui, e poi qui, e poi qui e poi ancora qui;" sorridendo colla semplicità d'un bambino. Mi scrisse l'indirizzo di casa sua, mi invitò ad andarlo a trovare, mi diede un sigaro e se n'andò. Tre giorni dopo, alla corsa dei tori, ero in un posto vicino alla barriera; egli mi passò davanti per raccogliere i sigari che gli gettavano gli spettatori; gli lanciai un sigaro di Milano di quei colla paglia; lo prese, lo guardò, sorrise, e cercò chi gliel'aveva gettato; gli feci un cenno, mi vide, ed esclamò: — Ah! el italiano! — Mi pare ancora di vederlo: aveva un vestito color cenerino coperto di ricami d'oro e una mano macchiata di sangue.....
Ma, insomma, un giudizio finale sulle corse dei tori! Sono o no una cosa barbara, indegna d'un popolo civile? Sono o no uno spettacolo che guasta il cuore? Fuori una parola schietta! Una parola schietta? Io non voglio, rispondendo in un modo, tirarmi addosso un diluvio d'invettive, e rispondendo in un altro, darmi della zappa sui piedi, dacchè debbo confessare che sono andato al Circo tutte le domeniche. Ho narrato e descritto, il lettore ne sa quanto me, giudichi lui, e mi conceda di non metterci bocca.
Vidi, a Madrid, la famosa cerimonia funebre che si celebra ogni anno, il 2 di maggio, in onore degli Spagnuoli che morirono combattendo, o furon passati per l'armi dai soldati francesi, sessantacinque anni or sono, in quella tremenda giornata che empì d'orrore l'Europa e fece scoppiare la guerra d'indipendenza. All'alba tuona il cannone, e in tutte le chiese parrocchiali di Madrid, e dinanzi a un altare eretto accanto al Monumento si comincia a celebrar messe, e si seguita fino a sera. La ceremonia consiste in una solenne processione che parte per lo più dalle vicinanze del palazzo reale, va a sentire un sermone nella chiesa di Sant'Isidoro, dove giacquero sepolte fino al 1840 le ossa del morti; e poi si reca al Monumento a sentire la messa.
In tutte le strade per le quali dovea passare la processione erano schierati i battaglioni dei volontari, i reggimenti di fanteria, gli squadroni di corazzieri, le guardie civili a piedi, le artiglierie, i cadetti; da ogni parte suonavan trombe, tamburi, bande; si vedeva da lontano, al di sopra della folla, un viavai continuo di cappelli di generali, di pennacchi d'aiutanti, di bandiere, di spade; accorrevano da tutte le strade le carrozze del Senato e delle Cortes, grandi come carri trionfali, dorate fin nelle ruote, listate di velluto e di seta, sopraccariche di frangie e di fiocchi, e tirate da superbi cavalli impennacchiati. Le finestre di tutte le case erano ornate di arazzi e di fiori; tutto il popolo di Madrid era in moto.
Vidi passare la processione per la strada d'Alcalà. Venivano innanzi i cacciatori della milizia cittadina a cavallo; poi i ragazzi di tutti i collegi, di tutti gli asili, di tutti gli ospizi di Madrid, a due a due, migliaia; poi gl'invalidi dell'esercito, quali con le stampelle, quali con la testa fasciata, alcuni sorretti dai compagni, altri decrepiti, quasi portati; soldati, generali, con antiche divise, col petto coperto di ciondoli e di nastri, e lunghe spade e cappelli piumati; poi una folla d'ufficiali di tutti i Corpi, luccicanti d'oro e d'argento, e vestiti di mille colori; poi gli alti impiegati dello Stato, i deputati provinciali, i deputati del Congresso, i Senatori; poi gli araldi del Municipio e delle Camere, con ampie toghe di velluto e le mazze d'argento; poi tutti gli impiegati municipali, tutti gli alcaldes di Madrid, vestiti di nero, colle medaglie al collo; infine il Re, vestito da generale, a piedi, accompagnato dal Sindaco, dal capitano generale della Provincia, dai generali, dai ministri, dai deputati, dagli ufficiali d'ordinanza, dagli aiutanti di campo, tutti col capo scoperto. Chiudevano la processione le cento guardie a cavallo, sfolgoreggianti come guerrieri del medio evo; le guardie reali a piedi, con gran berretto di pelo alla foggia della guardia napoleonica, tunica rossa a coda di rondine, calzoni bianchi, due larghe tracolle incrociate sul petto, ghette nere fino al ginocchio, spada, fiocchi, cordoni, fermagli, gingilli; poi ancora volontari, soldati di fanteria, artiglieri, popolo. Tutti andavano a passo lento; sonavano tutte le bande e tutte le campane; il popolo era silenzioso; e quell'insieme di bambini, di poveri, di preti, di magistrati, di veterani mutilati, di grandi di Spagna, presentava un aspetto gentile e magnifico, che ispirava ad un tempo tenerezza e riverenza. La processione sboccò nel Prado e si diresse verso il Monumento. I viali, i campi, i giardini erano pieni di popolo. Le signore ritte nelle carrozze, sulle seggiole, sui sedili di pietra, coi bambini tra le braccia; gente sugli alberi e sui tetti; a ogni passo, bandiere, iscrizioni funebri, elenchi delle vittime del 2 di maggio, poesie appiccicate ai tronchi delle piante, giornali listati di nero, stampe rappresentanti episodi della strage, ghirlande, crocifissi, tavolini con vassoi per limosine, candele accese, ritratti, statuette, giocattoli pei ragazzi coll'immagine del Monumento; per tutto ricordi del 1808, emblemi, segni di lutto, di festa, di guerra. Gli uomini quasi tutti vestiti di nero; le donne in gran gala, con lunghi strascichi e il velo; frotte di contadini accorsi da tutti i villaggi, coi loro panni festivi; e in mezzo a tutta questa folla un gridìo assordante di acquaiuoli, di guardie, di ufficiali.
Il Monumento del 2 maggio, che sorge nel punto dove furon fucilati il maggior numero degli Spagnuoli, benchè non abbia un valore artistico pari alla fama, è, — per servirmi d'una parola da strapazzo ma significativa, — imponente. È semplice, nudo, e al parer di molti anche pesante e sgraziato; ma arresta lo sguardo e il pensiero, anche di chi non sappia che cosa sia; a prima vista, si capisce che in quel luogo dev'essere accaduto alcun che di tremendo. Sopra un rialto ottagonale di granito con quattro gradinate, s'innalza un grandioso sarcofago di forma quadrata, munito d'iscrizioni, di stemmi, e d'un bassorilievo che rappresenta i due ufficiali spagnuoli morti il 2 maggio nella difesa del Parco d'artiglieria. Sul sarcofago sorge un piedistallo d'ordine dorico, sul quale stanno quattro statuette che simboleggiano l'amor di patria, il valore, la costanza, la virtù. In mezzo alle statue s'erge un alto obelisco, con suvvi scritto a caratteri d'oro: Dos de mayo. Intorno al Monumento si stende un giardino rotondo, intersecato da otto viali che convergono al centro; ogni viale è fiancheggiato da cipressi; il giardino è cinto d'una cancellata di ferro, circuita alla sua volta da una gradinata di marmo. Quel boschetto di cipressi, quel giardino chiuso e solitario, in mezzo al passeggio più allegro di Madrid, è come una immagine della morte in mezzo alle gioie della vita; non si può passar di là senza volgergli uno sguardo; non si può guardarlo, senza pensare; di notte, quando vi batte la luna sembra un'apparizione fantastica, e spira intorno un'aura di mestizia solenne.
Arrivò il Re, fu celebrata la messa, sfilarono tutti i reggimenti, e terminò la cerimonia. Così si celebra l'anniversario del 2 di maggio dal 1814 in poi, con una dignità, con un affetto, con una venerazione, che non onora solamente il popolo spagnuolo, ma il cuore umano. È la vera festa nazionale della Spagna, è il solo giorno dell'anno in cui tacciono le ire di parte, e tutti i cuori si uniscono in un sentimento comune. Nè in questo sentimento, come si potrebbe credere, è nulla d'amaro contro la Francia. La Spagna ha rovesciato tutta la colpa della guerra, e delle stragi che ne furono cagione, sovra Napoleone e Murat; i Francesi sono amichevolmente accolti come tutti gli altri stranieri; delle infauste giornate di maggio non si parla che per rendere onore ai morti e alla patria; tutto, in questa cerimonia, è nobile e grande; dinanzi a quel sacro Monumento la Spagna non ha che parole di perdono e di pace.
Un'altra cosa da vedersi, a Madrid, sono i combattimenti dei Galli.
Lessi un giorno nella Correspondencia, il seguente avviso: — «En la funcion que se celebrarà mañana en el circo de Gallos de Recoletos, habrà, entre otras, dos peleas (combattimenti), en las que figurarán gallos de los conocidos aficionados Francisco Calderon y Don Josè Diez, por lo que se espera serà muy animada la diversion.» Lo spettacolo cominciava a mezzogiorno: ci andai. Fui colpito dalla originalità e dalla leggiadria del teatro. Sembra un chiosco da collinetta di giardino; ma è vasto tanto da contenere poco meno di un migliaio di persone. La forma è perfettamente cilindrica. Nel mezzo sorge una specie di palco circolare, alto poco più di tre palmi, coperto d'un tappeto verde, e aggirato da una ringhiera dell'altezza di quelle dei terrazzini: è il campo di battaglia dei galli. Tra ferro e ferro della ringhiera si stende una sottilissima rete di fili metallici, che preclude lo scampo ai combattenti. Intorno a questa specie di gabbia, il piano della quale è grande quanto una gran tavola da pranzo, ricorre un cerchio di poltrone, e dietro a questo, un po' più alto, un secondo; le une e le altre rivestite di panno rosso. Su parecchie delle prime è scritto a lettere di scatola: — Presidente — Secretario — ed altri titoli di personaggi che compongono il tribunale dello spettacolo. Al di là delle poltrone s'alza come una gradinata di banchi, fino alla parete, nella quale s'apre una galleria sostenuta da dieci sottili colonne. La luce viene dall'alto. Il rosso vivo delle poltrone, i fiori dipinti sui muri, le colonne, la luce, l'aria, in una parola, del teatro, ha un non so che di nuovo e di pittoresco, che piace e rallegra. A prima vista, pare che in quel luogo si debba piuttosto sentire una musica festiva e gentile che assistere ad una lotta di bestie.
Quando entrai, v'era già un centinaio di persone. — O che gente è questa? — mi domandai. E veramente il pubblico del circo dei Galli non rassomiglia a quello di nessun altro teatro; è una mescolanza sui generis che si vede soltanto a Madrid. Non c'è donne, non ragazzi, non soldati, non operai, poichè è giorno di lavoro e un'ora incomoda; e nondimeno vi si nota una maggior varietà di aspetti, di vestiti e di atteggiamenti che in qualunque altro ritrovo popolare. È tutta gente che non ha che fare lungo la giornata: commedianti coi capelli lunghi e lo staio spelato; toreros, — c'era Calderon, il famoso picador, — colla loro ciarpa rossa intorno alla vita; studenti colle traccie sul viso della notte passata al gioco; negozianti di galli, giovanotti eleganti, vecchi signori aficionados vestiti di nero, con guanti neri e cravattone. Questi intorno alla gabbia. Più in là, rari nantes, qualche inglese, qualche bighellone, di quei che si vedon per tutto, i servitori del circo, una donna di mala vita, una guardia civile. Tranne i forestieri e la guardia, gli altri, — signori, toreros, negozianti, commedianti, — si conoscon tutti, e parlan tutti tra loro, a una voce sola, della qualità dei galli annunziati dal programma dello spettacolo, delle scommesse del giorno innanzi, degli accidenti delle lotte, di zampe, di penne, di sproni, di ali, di becchi, di ferite, ostentando la ricchissima terminologia dell’arte, e citando regole, esempi, galli dei tempi andati, e lotte e vincite e perdite famose.
Lo spettacolo cominciò all’ora fissata. Si presentò un uomo in mezzo al circo con un foglio in mano e cominciò a leggere; tutti tacquero. Lesse una serie di numeri che indicavano il peso delle varie coppie di galli che dovevan combattere, poichè, coppia per coppia, non possono pesare l’un più dell’altro di là d’una misura determinata del codice gallistico. Ricominciaron le chiacchiere, poi ricessarono a un tratto. Un altr’uomo con due cassette tra le braccia venne innanzi; aperse uno sportello della ringhiera, salì sul palco, e attaccò le due cassette ai due capi d’una bilancia pendente dal soffitto. Due testimoni s’accertarono che il peso era quasi eguale dalle due parti, tutti sedettero, il presidente si mise al suo posto, il segretario gridò: — Silencio! — , il pesatore e un altro servitore presero una cassetta ciascuno, e sporgendola dai due opposti sportelli della ringhiera, l’apersero tutti e due insieme. I galli uscirono, gli sportelli si richiusero, gli spettatori serbarono per qualche momento un silenzio profondo.
Eran due galli andalusi di razza inglese per servirmi della curiosa definizione datami da uno spettatore, alti, smilzi, diritti come fusi, con un lungo collo mobilissimo, completamente spennati nelle parti posteriori, e dal petto in su; senza cresta, la testa piccina, e un par d’occhi che rivelavano l’indole battagliera. Gli spettatori li osservarono attentamente senza profferire parola. Gli aficionados, in quei pochi istanti, giudicano dai colori, dalle forme, dai movimenti dei due animali quale sarà probabilmente il vincitore; poi propongono le scommesse. È un giudizio, come ognun può comprendere, molto incerto; ma è l’incertezza che dà vita al gioco. A un tratto, il silenzio è rotto da uno scoppio di grida.
— Un duro (uno scudo) por el derecho! — Un duro por el izquierdo! (il sinistro) — Va! — Tres duros por el negro! — Quatro duros por el pardo! (il grigio) — Una onza (ottanta lire) por el chico! — Va! — Va por el negro! — Va por el pardo! —
Tutti urlano, agitano le mani, si accennano l’un l’altro col bastone, le scommesse s’incrociano in tutti i sensi; in pochi momenti v’è un migliaio di lire in gioco.
I due galli, da principio, non si guardano. Uno volto da una parte, l'altro dall'altra, cantano, allungando il collo verso gli spettatori, come se domandassero: — Che cosa volete? — A poco a poco, senza far segno di essersi visti, s'avvicinano; pare che l'uno voglia pigliar l'altro di sorpresa. All'improvviso, colla rapidità del lampo, spiccano un salto coll'ali aperte, s'urtan nell'aria, e ricadono, spandendo intorno un nuvolo di penne. Dopo il primo urto, si fermano, e si piantano l'uno dinanzi all'altro, col collo teso e i becchi che quasi si toccano, guardandosi fissi, immobili, come se volessero avvelenarsi cogli occhi. Poi di nuovo s'avventano l'un contro l'altro con una grande violenza, dopo di che gli assalti si succedono senza interruzione. Si feriscono a zampate, a spronate, a colpi di becco; si stringono coll'ali in modo che paiono un gallo solo con due teste; si caccian l'un sotto il ventre dell'altro, si sbattono contro i ferri della ringhiera, si inseguono, cadono, strisciano, svolazzano; e via via i colpi si fan più fitti, volan via le piume della testa, i colli diventan color di fuoco, e metton sangue. Poi prendono a punzecchiarsi nel capo, intorno agli occhi, negli occhi, si scarnificano colla furia di due forsennati che abbian paura d'esser divisi; par che sappiano che uno dei due deve morire; non mettono una voce, non un gemito; non si sente che lo strepito delle ali agitate, delle penne che si rompono, dei becchi che picchian nell'ossa; e non un istante di tregua; è un furore che va dritto alla morte.
Gli spettatori seguon coll'occhio intento tutte le mosse, contan le penne divelte, numerano le ferite; e il gridìo si fa sempre più concitato, e le scommesse più forti: — Cinco duros por el chico! (il piccolo) — Ocho duros por el pardo! — Veinte duros por el negro! — Va! — Va! —
A un certo punto, uno dei due galli fa un movimento che tradisce l'inferiorità delle sue forze, e comincia a dar segno di stanchezza. Pur resistendo sempre, le sue beccate si succedon più rade, le sue spronate più fiacche, i suoi salti più bassi; par che comprenda che dovrà morire; non combatte più per uccidere, combatte per non essere ucciso; retrocede, fugge, cade, si rialza, torna a cadere, barcolla come preso dal capogiro. Allora lo spettacolo comincia ad essere orribile. Dinanzi al nemico che cede, il vincitore inferocisce; le sue beccate cadono fitte, rabbiose, spietate negli occhi della vittima colla regolarità dell'ago d'una macchina da cucire; il suo collo s'allunga e scatta col vigore d'una molla, il suo becco afferra le carni, si torce e dilania; poi si figge nella ferita, e vi si dibatte come per cercare le fibre più riposte; poi picchia e ripicchia sul capo, come se volesse aprire il cranio e cavarne il cervello. Non c'è parola che esprima l'orrore di quel picchiare continuo, instancabile, inesorabile. La vittima si dibatte, scappa, s'aggira per la gabbia, e quegli dietro, accanto, addosso, indivisibile come un'ombra, colla testa china su quella del fuggitivo come un confessore, sempre picchiando, punzecchiando, lacerando. Ha qualcosa dell'aguzzino, del boia; par che dica qualcosa nell'orecchio alla sua vittima, par che accompagni ogni colpo con un insulto: — To', prendi, soffri, muori, no! vivi, prendi anche questa, quest'altra, ancor una! — Un po' della sua rabbia sanguinaria s'insinua nelle vostre vene, quella crudeltà codarda vi mette una smania di vendetta, lo strozzereste colle vostre mani, gli schiacciereste il capo col piede. Il gallo vinto, tutto intriso di sangue, spennato, vacillante, tenta ancora di tratto in tratto qualche assalto, dà qualche beccata, e sfugge, e si slancia contro i ferri della ringhiera per cercare uno scampo.
Gli scommettitori s'accendono ed urlano di più in più forte. Non possono più scommettere sulla lotta, scommettono sull'agonia. — Cinco duros á que no tira tres veces! (Che la vittima non tenta più tre assalti). — Tres duros á que no tira cinco! — Quatro duros á que no tira dos! — Va! — Va!
A questo punto udii una voce che mi fece rabbrividire: — Es ciego! — (È cieco).
Mi avvicinai alla ringhiera, guardai il gallo vinto e torsi il viso con raccapriccio. Non aveva più pelle, non aveva più occhi, il suo collo non era più che un osso sanguinoso, il capo era un teschio, le ali, ridotte a tre o quattro penne, strascicavano come due cenci; pareva impossibile che così disfatto potesse vivere e camminare; non aveva più forma. Eppure quel resto, quel mostro, quello scheletro stillante di sangue, si difendeva ancora, si dibatteva nelle tenebre, scotendo le ali dimezzate come due moncherini, allungando il collo scarnificato, agitando il teschio a caso, qua e là, come i cani neonati; era schifoso ed orribile; io socchiudevo gli occhi per vederlo in confuso. E il carnefice continuava a beccare le piaghe, a sforacchiare le occhiaie, a picchiare sul nudo cranio; non era più una lotta, era un rodimento; pareva che volesse disfarlo, senza ucciderlo; a volte, quando la vittima rimaneva un momento immobile, si chinava a guardarla coll'attenzione d'un anatomico; a volte si scostava e la guardava dall'alto coll'indifferenza d'un becchino; poi di nuovo addosso coll'avidità d'un vampiro, e lì becca, e succhia e strazia con più vigore di prima. Finalmente il moribondo, fermatosi all'improvviso, chinò il capo a terra come preso dal sonno, e il carnefice, guardandolo attentamente, ristette.
Allora le grida raddoppiarono; non si poteva più scommettere sulle convulsioni dell'agonia, si scommetteva sui sintomi della morte: — Cinco duros á que no levanta mas la cabeza! (che non rialza più il capo). — Dos duros á que la levanta! — Tres duros á que la levanta dos veces! — Va! — Va!
Il gallo moribondo rialzò adagio adagio la testa; il boia, pronto, gli rovesciò addosso una tempesta di beccate; le grida tornarono a scoppiare; la vittima fece di nuovo un leggero movimento, — toccò un'altra beccata, — si scosse, — toccò una beccata ancora, — versò sangue per la bocca, vacillò e cadde. Il vincitore, vigliacco, si mise a cantare. Venne un servitore e li portò via tutti e due. Tutti gli spettatori s'alzarono e cominciò una rumorosa conversazione; i vincitori sghignazzando, i vinti bestemmiando, e gli uni e gli altri discutendo i meriti dei galli e le vicende della lotta: — Buena pelea! — Buenos los gallos! — Los gallos malos! — No valen nada! — No entiende Usted! — Cállese Usted! — Buenos! — Malos!
— Sentarse, caballeros! — gridò il presidente; tutti sedettero e cominciò un'altra lotta.
Io diedi un'occhiata al campo di battaglia, ed uscii. Qualcuno esiterà a crederlo: quello spettacolo mi fece più orrore che la prima corsa dei tori. Non avevo idea d'una ferocia così crudele; non credevo, prima di vedere, che una bestia, dopo averne reso impotente un'altra, potesse torturarla, martoriarla, straziarla in quel modo, coll'accanimento dell'odio e colla voluttà della vendetta; non credevo che il furore d'una bestia potesse giungere al segno di presentare il carattere della più forsennata malvagità umana. Oggi ancora, ed è trascorso tanto tempo, ogni volta che ricordo quello spettacolo, volto involontariamente la testa da un lato, come per fuggir l'orrenda vista del gallo moribondo; e non mi accade mai di metter le mani sovra una ringhiera, senza ch'io abbassi gli occhi coll'idea di vedere il suolo sparso di penne e di sangue. Se andrete in Spagna, seguite il mio consiglio:
«State contente, umane genti, ai tori.»
IL CONVENTO DELL'ESCURIALE.
Prima di partire per l’Andalusia andai a vedere il famoso convento dell’Escuriale, il Leviatan dell’Architettura, l’ottava meraviglia del mondo, il più gran mucchio di granito che esista sulla terra, e se volete altre denominazioni grandiose, immaginatene pure, chè non ne troverete nessuna che non gli sia stata ancora applicata. Partii da Madrid di buon mattino. Il villaggio dell’Escurial, che diede il nome al convento, è a otto leghe dalla città, a poca distanza dal Guadarrama; e la strada attraversa una campagna arida e spopolata, chiusa all’orizzonte da monti coperti di neve. Quando arrivai alla stazione dell’Escuriale, veniva giù una pioggiolina fitta e fredda che dava i brividi. Dalla stazione al villaggio c’è un mezzo miglio di salita; m’infilai in una diligenza, e di lì a pochi minuti fui sbarcato in una strada solitaria, fiancheggiata a sinistra dal convento, a destra dalle case del villaggio, e in fondo chiusa dalla montagna. A primo aspetto non si raccapezza nulla; si credeva di vedere un edifizio, si vede una città; non si sa se si è già dentro al convento o se si è ancora fuori; da ogni parte si vedon quelle mura; si va oltre, ci si trova in una piazza; si guarda attorno, si vedon delle strade; non si è ancora entrati, e già il convento ci circonda, e noi abbiamo perduto la bussola e non sappiamo più da che parte voltarci. Il primo sentimento è tristo: tutto l’edifizio è di pietra color terrigno, e rigato di bianco tra pietra e pietra; i tetti son coperti di lamine di piombo. Sembra un edifizio di terra. Le mura sono altissime e nude, e hanno un gran numero di finestre che paion feritoie. Più che un convento, si direbbe che è una prigione. Per tutto si vede quel color cupo, morto; e non anima viva, e un silenzio di fortezza abbandonata; e di là dai tetti neri, la montagna nera, che par che penda sull’edifizio, e gli dà un’aria di misteriosa solitudine. Il luogo, le forme, i colori, ogni cosa par scelto da chi fondò l’edifizio coll’intento di offrire agli occhi degli uomini uno spettacolo tristo e solenne. Prima d’entrare, voi avete perduto la vostra gaiezza; non sorridete più, pensate. Vi arrestate alle porte dell’Escuriale con una sorta di trepidazione, come alle porte d’una città vuota; vi pare che, se in qualche angolo del mondo regnasse ancora il terrore della Inquisizione, dovrebbe regnar tra quelle mura; direste che là dentro se n’ha a vedere l’ultima traccia e a sentire l’ultima eco.
Tutti sanno che la basilica e il convento dell’Escurial furon fondati da Filippo II dopo la battaglia di San Quintino, in adempimento d’un voto fatto a san Lorenzo, durante l’assedio, quando gli assedianti eran stati costretti a cannoneggiare una chiesa consacrata a quel santo. Don Juan Batista di Toledo iniziò l'opera, l'Herrera la compì; i lavori durarono vent'un anno. Filippo II volle che l'edifizio presentasse la forma d'una graticola a commemorazione del martirio di san Lorenzo; e tale è infatti la sua forma. Il piano è un parallelogrammo rettangolare. Ai quattro angoli s'alzano quattro grandi torri quadrate col tetto a punta, che rappresentano i quattro piedi della graticola; la chiesa e il palazzo reale che sorgon da un lato, simboleggiano il manico; gli edifizi interni che congiungono i due lati più lunghi, tengon luogo delle sbarre traversali. Altri edifizi minori sorgono fuori del parallelogrammo, a breve distanza dal convento, lungo uno dei lati lunghi, e uno dei corti, e formano due grandi piazze; dagli altri due lati sono i giardini. Facciate, porte, atrii, ogni cosa è in armonia colla grandezza e col carattere dell'edifizio; ed è inutile ammontar descrizioni su descrizioni. Il palazzo reale è splendidissimo, e convien vederlo, per non mescolar poi disparate impressioni, prima di entrare nel convento e nella chiesa. Questo palazzo occupa l'angolo levante-tramontana dell'edifizio. Alcune sale son piene di quadri, altre tappezzate dal pavimento alla volta di tappeti che rappresentan corse di tori, balli popolari, giuochi, feste, costumi spagnuoli, disegnati dal Goya; altre regalmente mobiliate e parate; il pavimento, le porte, le finestre coperte di meravigliosi lavori d'intarsio e di dorature stupende. Ma fra tutte le sale è notevole quella di Filippo II; una cella meglio che una sala, nuda e squallida, con un'alcova che risponde all'oratorio reale della chiesa, in modo che dal letto, tenendo schiuse le porte, si può vedere il sacerdote che dice la messa. Filippo II dormiva in quella cella, vi fece la sua ultima malattia e vi morì. Si vedono ancora alcune seggiole usate da lui, due panchettini sui quali appoggiava la gamba tormentata dalla gotta, e uno scrittoio. Le pareti son bianche, il soffitto piano e senza ornamenti, il pavimento di mattoni.
Visto il palazzo reale, si esce dall'edifizio, si attraversa la piazza e si rientra per la porta principale. Un custode vi si attacca ai panni, attraversate un ampio vestibolo, vi trovate nel cortile dei Re. Là vi potete formare una prima idea della immane ossatura dell'edifizio. Il cortile è tutto chiuso da muri; dal lato opposto alla porta è la facciata della chiesa. Sur una spaziosa gradinata s'alzano sei enormi colonne doriche, ognuna delle quali sostiene un grande piedestallo, e ogni piedestallo una statua. Son sei statue colossali, di Battista Monegro, rappresentanti Giosafat, Ezechiello, Davide, Salomone, Giosuè, Manasse. Il cortile è lastricato, sparso di cespi d'erba, umido; i muri paion roccie tagliate a picco; tutto è rigido, massiccio, pesante, e offre non so che fantastico aspetto di edifizio titanico, cavato in una montagna di pietra, e atto a sfidare le scosse della terra e i fulmini del cielo. Là si comincia a capire che cosa sia l'Escuriale.
Si sale la gradinata e si entra nella chiesa.
L'interno della chiesa è tristo e nudo; quattro enormi pilastri di granito bigio sostengono le vòlte dipinte a fresco da Luca Giordano; accanto all'altar maggiore, scolpito e dorato alla spagnuola, negli intercolonni di due oratori reali, si vedono due gruppi di statue di bronzo inginocchiate, colle mani giunte verso l'altare; a destra Carlo V, l'imperatrice Isabella e parecchie principesse; a sinistra Filippo II, colle sue mogli. Sopra la porta della chiesa, a trenta piedi dal suolo, in fondo alla navata maggiore, s'alza il coro, con due giri di seggiole d'ordine corintio, di semplice disegno. In un canto, vicino a una porta segreta, è la seggiola che occupava Filippo II. Egli riceveva da quella porta le lettere e le imbasciate importanti, senza che se n'avvedessero i preti che cantavano nel coro. Questa chiesa che, appetto all'intero edifizio, par piccina, è nullameno una delle più vaste chiese della Spagna; e benchè appaia così spoglia d'ornamenti, racchiude immensi tesori di marmi, d'ori, di reliquie, di quadri, che l'oscurità in parte nasconde, e dai quali il triste aspetto dell'edifizio distrae l'attenzione. Oltre le mille opere d'arte che si vedon nelle cappelle, negli stanzini attigui alla chiesa, nelle scale che salgono alle tribune, v'è in un corridoio dietro al coro uno stupendo crocifisso di marmo bianco di Benvenuto Cellini, coll'iscrizione: Benvenutus Zelinus, civis florentinus facebat 1562. In altre parti si vedon quadri del Navarrete e dell'Herrera. Ma ogni sentimento di meraviglia muore in quello della tristezza. Il colore della pietra, la luce dubbia, il silenzio profondo che vi circonda, richiama il vostro pensiero alla vastità, ai recessi ignoti, alla solitudine dell'edifizio, e non vi lascia luogo al diletto dell'ammirazione. L'aspetto di quella chiesa vi desta un senso inesprimibile di inquietudine. Voi indovinereste, quando non lo sapeste altrimenti, che intorno a quelle mura, per un grande spazio, non v'è che granito, oscurità e silenzio; senza vedere lo smisurato edifizio, lo sentite; sentite che vi trovate in mezzo a una città disabitata; vorreste affrettare il passo per vederla presto, per liberarvi dall'incubo di quel mistero, per cercare, se in qualche parte vi fosse, la luce viva, il rumore, la vita.
Dalla chiesa, per parecchie stanze nude e fredde, si va nella sacrestia, un'ampia sala a volta, nella quale tutta una parete è occupata da armadi di legni svariati e finissimi, che racchiudono gli ornamenti sacri; la parete opposta, da una serie di quadri del Ribera, del Giordano, del Zurbaran, del Tintoretto e d'altri pittori italiani e spagnuoli; e in fondo il famoso altare della Santa forma col celeberrimo quadro del povero Claudio Coello, che morì di crepacuore per la chiamata di Luca Giordano all'Escuriale. L'effetto di questo quadro è veramente superiore ad ogni immaginazione. Rappresenta, con figure di grandezza naturale, la processione che si fece per collocare in quel medesimo luogo la Santa forma; vi è ritratta appunto quella sacrestia, e l'altare; il priore inginocchiato sulla gradinata, colla custodia e l'ostia sacra nelle mani; intorno a lui i diaconi; da un lato Carlo II in ginocchio; più in là monaci, chierici, seminaristi ed altri fedeli. Le figure sono così vive e parlanti, la prospettiva così vera, il colorito, l'ombre, la luce così efficaci, che al primo entrare nella sacrestia, si scambia il quadro con uno specchio che rifletta una funzione religiosa celebrata in quel momento in una sala vicina. Poi l'illusione delle figure sparisce; ma resta quella del fondo del quadro, e si ha proprio bisogno di avvicinarsi fin quasi a toccarlo, per credere che quella non è un'altra sacrestia, ma una tela dipinta. Nei giorni di giubileo questa tela si arrotola, ed appare in mezzo a una piccola cappella un tempietto di bronzo dorato, dentro al quale si vede una magnifica custodia che racchiude l'ostia sacra, tempestata di diecimila tra rubini, diamanti, amatiste, granate, disposti in forma di raggi, che abbarbaglian la vista.
Dalla sacrestia andammo al Panteon. Un custode con una fiaccola accesa mi precedette, scendemmo una lunga scala di granito, giungemmo a una porta sotterranea dove non penetrava raggio di luce. Al di sopra di questa porta si legge la seguente iscrizione in lettere di bronzo dorato:
«Dio Onnipotente e Grande!
«Luogo consacrato dalla pietà della dinastia austriaca alle spoglie mortali dei re cattolici, che stanno aspettando il desiderato giorno sotto l'altar maggiore sacro al Redentore del genere umano. Carlo V, il più illustre dei Cesari, desiderò questo luogo di ultimo riposo per sè e pel suo lignaggio; Filippo II, il più prudente dei re, lo designò. Filippo III, monarca sinceramente pietoso, diede principio ai lavori. Filippo IV, grande per la sua clemenza, costanza e devozione, lo ampliò, lo abbellì e lo condusse a termine l'anno del Signore 1654.»
Il custode entrò, lo seguii, mi trovai in mezzo ai sepolcri, o meglio in un sepolcro oscuro e freddo come la grotta d'una montagna. È una piccola sala ottagonale, tutta marmo, con un altarino nella parete opposta alla porta, e nelle rimanenti, dal suolo alla vòlta, l'una sull'altra, le tombe, distinte con ornamenti di bronzo e bassorilievi; la vòlta corrisponde all'altar maggiore della chiesa. A destra dell'altare son sepolti Carlo V, Filippo II, Filippo III, Filippo IV, Luigi I, i tre Don Carlos, Ferdinando VII; a sinistra le imperatrici e le regine. Il custode avvicinò la fiaccola alla tomba di Donna Maria Luisa di Savoia, moglie di Carlo III, e mi disse con aria di mistero: — Legga. — Il marmo è rigato in vari sensi; con un po' d'attenzione riescii a raccapezzare cinque lettere; è il nome — Luisa — scritto dalla stessa regina Luisa con la punta delle forbici. A un tratto il custode spense la fiaccola e rimanemmo nelle tenebre: mi si agghiacciò il sangue nelle vene. — Accenda! — gridai. Il custode rise d'un riso lungo e lugubre, che mi parve il rantolo d'un moribondo, e rispose: — Guardi! — Guardai: un debolissimo raggio di luce, scendendo da un'apertura vicino alla vôlta, lungo la parete, sin quasi al pavimento, rischiarava appena tanto da renderle visibili, alcune tombe di regine; e pareva un raggio di luna; e i bassorilievi e i bronzi delle tombe luccicavano a quel barlume d'una luce strana, come se stillassero acqua. In quel momento sentii per la prima volta l'odore di quell'aria sepolcrale, e mi prese un brivido di freddo; penetrai, coll'immaginazione, in quelle tombe, e vidi tutti quei cadaveri irrigiditi; cercai uno scampo al di sopra della vòlta, mi trovai solo nella chiesa; fuggii dalla chiesa, mi perdetti nei labirinti del convento; mi rifeci presente a me stesso, in mezzo a quelle tombe, e sentii che veramente ero nel cuore dell'edifizio mostruoso, nella parte più profonda, nel recesso più gelido, nel penetrale più tremendo; e mi parve d'esser prigioniero, sepolto in quel gran monte di granito, e che mi gravitasse tutto addosso, e che da tutti i lati mi premesse, e mi chiudesse l'uscita; e pensai al cielo, alla campagna, all'aria libera come a un mondo remoto, e con un sentimento ineffabile di mestizia. — Signore! — mi disse solennemente il custode, prima di uscire, tendendo la mano verso la tomba di Carlo V: — L'imperatore è là, tal quale come quando ce l'hanno messo, cogli occhi ancora aperti, che par vivo e parlante! È un miracolo d'Iddio che ha il suo perchè! Chi vivrà vedrà! — E dicendo quest'ultime parole abbassò la voce come per timore che l'imperatore sentisse, e fatto il segno della croce, mi precedette su per la scala. Dopo la chiesa e la sacrestia, si va a visitare il Museo di pittura, che contiene un gran numero di quadri d'artisti d'ogni paese, non già de' migliori, chè questi furon portati al Museo di Madrid; ma pur tali da meritare una visita attenta di mezza giornata. Dal Museo di pittura si va alla Biblioteca, passando per la grande scala sulla quale s'incurva una smisurata vòlta tutta dipinta a fresco da Luca Giordano. La Biblioteca è composta d'una vastissima sala ornata di grandi pitture allegoriche, che contiene più di cinquantamila volumi preziosissimi, quattromila dei quali regalati da Filippo II, e d'un'altra sala dove è una ricchissima raccolta di manoscritti. Dalla Biblioteca si va al Convento.
Qui l'immaginazione umana si perde. Se qualcuno dei lettori ha letto l'Estudiante de Salamanca dell'Espronceda, si rammenti di quell'instancabile giovane, quando, tenendo dietro alla signora misteriosa che incontrò di notte ai piedi d'un tabernacolo, trascorre di strada in strada, di piazza in piazza, di vicolo in vicolo, e svoltando, e girando e rigirando arriva fino a un punto dove non ravvisa più le case di Salamanca, e si trova in una città sconosciuta; e continua a svoltare cantonate, a traversar piazze, a percorrer strade; e via via che va oltre gli par che la città s'allarghi, e le strade si allunghino, e i vicoli s'incrocino più fitto; e va ancora, e va sempre, e va senza posa, e non sa se sogna, o se è desto, o ubriaco, o impazzito; e nel suo cuore di ferro comincia a penetrare il terrore, e i più strani fantasimi gli si affollano nella mente smarrita; così lo straniero nel convento dell'Escuriale. Infilate un lungo corridoio sotterraneo stretto da toccarne le pareti coi gomiti, basso da urtar quasi la testa nella vòlta, e umido come una grotta sottomarina; arrivate in fondo, svoltate, siete in un altro corridoio. Andate oltre, incontrate delle porte, guardate: altri corridoi si allungano a perdita d'occhio. In fondo a qualcuno vedete un barlume di luce, in fondo ad altri una porta aperta che lascia intravedere una fuga di stanze. Di tratto in tratto sentite il rumor d'un passo, v'arrestate, non lo sentite più; poi lo risentite; non sapete se è sopra il vostro capo, o a destra, o a sinistra, o dietro, o davanti. V'affacciate a una porta, e retrocedete impaurito: in fondo allo sterminato corridoio in cui avete lanciato lo sguardo, avete visto un uomo immobile, come uno spettro, che vi guardava. Tirate innanzi, riescite in un cortile angusto, cinto di mura altissime, erboso, sonoro, illuminato di una luce scialba, che par che scenda da un sole ignoto, simile ai cortili delle streghe che ci descrivevano da ragazzi. Uscite dal cortile, salite su per una scala, riuscite sopra una galleria, guardate giù: è un altro cortile silenzioso e deserto. Infilate un altro corridoio, scendete un'altra scala, vi trovate in un terzo cortile; poi daccapo corridoi e scale e fughe di sale vuote e cortili angusti, e per tutto granito, erba, luce scialba, silenzio di tomba. Per un po' di tempo vi pare che riuscirete a tornare sui vostri passi; poi la memoria vi si turba, e non ricordate più nulla; vi pare d'aver fatto dieci miglia, di essere in quel laberinto da un mese, di non poterne più uscire. Vi affacciate sur un cortile e dite: — l'ho già visto! — No, v'ingannate, è un altro. Credete di essere da quella tal parte dell'edifizio, siete dalla parto opposta. Domandate al custode dov'è il claustro, vi risponde: — È qui; — e camminate ancora per mezz'ora. Vi par di sognare: vedete di sfuggita lunghi muri dipinti a fresco, ornati di quadri, di croci, d'iscrizioni; vedete e dimenticate; chiedete a voi stessi: dove sono? Vedete una luce d'un altro mondo; non avevate idea d'una siffatta luce; è l'effetto del riflesso del granito? è il lume della luna? No, è giorno; ma è una luce più trista delle tenebre; è una luce falsa, sinistra, fantastica. E avanti, di corridoio in corridoio, di cortile in cortile; vi guardate innanzi con sospetto; aspettate di veder all'improvviso, allo svoltar d'un canto, una fila di frati scheletriti, col cappuccio sugli occhi e le braccia in croce; pensate a Filippo II; vi par di sentire il suo passo lento allontanarsi per gli anditi oscuri; vi ricordate tutto quello che avete letto di lui, dei suoi terrori, dell'Inquisizione, e ogni cosa vi s'illumina agli occhi della mente d'una subita luce; capite ogni cosa per la prima volta; l'Escuriale è Filippo II, lo vedete a ogni passo, sentite il suo respiro, egli è ancora là, vivo e spaventevole, e con lui l'immagine del suo Dio tremendo. Allora voi vorreste ribellarvi, sollevare il pensiero al Dio del vostro cuore e delle vostre speranze, e vincere il terrore misterioso che il luogo v'ispira; ma non potete; l'Escuriale vi circonda, vi possiede, vi schiaccia; il freddo delle sue pietre vi penetra nelle ossa; la tristezza dei suoi laberinti sepolcrali v'invade l'anima; se siete con un amico, gli dite: — Usciamo; — se foste colla vostra amante la stringereste al cuore con un senso di trepidazione; se foste solo, pigliereste la corsa; infine salite una scala, entrate in una stanza, v'affacciate a una finestra, e salutate con uno slancio di gratitudine i monti, il sole, la libertà, il Dio grande e benefico che ama e che perdona.
Che respirone si tira a quella finestra!
Di là si vedono i giardini, che occupano uno spazio ristretto, e son semplicissimi; ma quanto si può dire eleganti e belli, e in perfetta armonia coll'edifizio. Vi si vedon dodici leggiadre fontane, ciascuna circondata da quattro quadrati di mortella che rappresentano scudi reali, disegnati con un gusto sì squisito e arrotondati con una tal finitezza, che a guardarli sulle finestre, paion tessuti di felpa e di velluto, e formano nella bianca arena dei sentierini un graziosissimo spicco. Non alberi, non fiori, non capanni: in tutto il giardino non si vedono che fontane, quadrati di mortella, e due soli colori, il verde e il bianco; ed è tale la bellezza di quella nobile semplicità, che non se ne può staccare lo sguardo, e quando lo si è staccato, il pensiero vi ritorna, e ci si arresta con un diletto dolcissimo temperato di una sorta di mestizia gentile. In una stanza vicina a quella che guarda in sul giardino, mi si fece vedere una serie di reliquie, che considerai in silenzio senza lasciar trapelare al custode il mio intimo sentimento di dubbio: una scheggia della santa croce regalata dal Papa a Isabella II, un pezzo di legno bagnato del sangue, ancora visibile, di san Lorenzo, un calamaio di santa Teresa, ed altri oggetti, fra i quali un altarino portatile di Carlo V, e una corona di spine e un par di tanaglie da tortura, trovate non so più dove. Di là mi condussero sulla cupola della chiesa di dove si gode un colpo d'occhio immenso. Da un lato lo sguardo si stende per tutta la campagna montuosa che corre fra l'Escuriale e Madrid; dall'altro si vedono le montagne nevose del Guadarrama; sotto, si abbraccia con un'occhiata tutto lo smisurato edifizio, i lunghi tetti di piombo, le torri; si vede nell'interno dei cortili, dei claustri, dei portici, delle gallerie; si possono ricorrere col pensiero i mille andirivieni dei corridoi e delle scale, e dire: — Un'ora fa ero laggiù — qui — lassù — là sotto — laggiù lontano, — e maravigliarsi d'aver fatto tanto cammino, e rallegrarsi d'essere uscito da quel labirinto, da quelle tombe, da quelle tenebre, e di poter tornare in città e rivedere gli amici.
Un viaggiatore illustre disse che dopo aver passato una giornata nel convento dell'Escurial, ci si deve sentir felici per tutta la vita, solo pensando che si potrebbe essere ancora fra quelle mura e che non ci s'è più. È quasi vero. Ancora adesso, dopo tanto tempo, nei giorni piovosi, quando sono tristo, penso all'Escurial, poi guardo le pareti della mia stanza, e mi rallegro; nelle notti insonni, vedo i cortili dell'Escurial; quando sto male e dormo un sonno torbido e penoso, sogno di girare per quei corridoi, solo, al buio, inseguito dal fantasma d'un vecchio frate, gridando e picchiando a tutte le porte, senza trovare l'uscita, finchè vo a dar del capo nel Panteon e la porta mi si chiude fragorosamente alle spalle e resto sepolto tra le tombe. Con che piacere rividi i mille lumi della Puerta del Sol, i caffè affollati, e la grande e rumorosa strada d'Alcalà! Rientrando in casa feci un tale strepito che la serva, ch'era una buona e semplice galiziana, corse tutta affannata dalla padrona e le disse: — Me parece que el italiano se ha vuelto loco! — (Mi pare che l'italiano sia diventato matto.)
Più dei galli e più dei tori, mi divertirono i deputati delle Cortes. M'era riuscito di ottenere un posticino nella tribuna dei giornalisti, e mi ci andavo a piantare ogni giorno, e ci stavo fino alla fine con un piacere infinito. Il Parlamento spagnuolo ha un aspetto più giovanile del nostro; non perchè i deputati sian più giovani; ma perchè son più attillati e più lindi. Là non si vedono quelle chiome scarmigliate, quelle barbe incolte, e quelle casacche di nessun colore che si vedon sui banchi della nostra Camera: là barbe e capelli ravviati e lucidi, gran camicie ricamate, soprabiti neri, calzoncini chiari, guanti ranciati, mazzine col pomo d'argento e fiori all'occhiello. Il Parlamento spagnuolo s'attiene al figurino della moda. E quale il vestire, tale il parlare: vivo, gaio, fiorito, scintillante. Noi lamentiamo già che i nostri deputati siano solleciti della forma più che non convenga ad oratori politici; ma i deputati spagnuoli la curano assai più studiosamente e, convien dirlo, con assai miglior garbo. Non solo parlano con facilità meravigliosa, così che è rarissimo il sentire un deputato che s'interrompa a mezzo il periodo per cercare la frase; ma non c'è chi non si sforzi di parlar corretto, e di dare alla sua parola un po' di lustro poetico, un po' di sapor classico, un po' d'impronta di grande stile oratorio. I ministri più gravi, i deputati più timidi, i finanzieri più rigorosi, quand'anche parlino di argomenti lontanissimi da quanto può dare appiglio alla rettorica, infiorano i loro discorsi di bei modi da Antologia, d'aneddoti ameni, di versi famosi, d'apostrofi alla civiltà, alla libertà, alla patria; e tiran via a precipizio come se recitassero cose imparate a mente, con un'intonazione sempre misurata ed armonica, e una varietà di atteggiamenti e di gesti che non lascia luogo un istante alla noia. E i giornali, giudicando i loro discorsi, lodano l'elevatezza dello stile, la purità della lingua, los rasgos sublimes, i tratti sublimi, che vi si ammirarono, se si tratta dei loro amici, si sottintende; oppure dicono con disprezzo che lo stile è sesquipedale, la lingua corrotta, la forma, in una parola, questa benedetta forma! incolta, ignobile, indegna delle splendide tradizioni dell'arte oratoria spagnuola. Questo culto della forma, questa grande facilità di parola degenera in vanità ampollosa; e certo che non s'hanno a cercare nel Parlamento di Madrid i modelli della vera eloquenza politica; ma non è men vero quello che universalmente si dice: che codesto Parlamento è fra tutti gli europei il più ricco di facondi oratori nel senso generale della parola. Bisogna sentire una discussione sur un argomento di alta politica, che muova le passioni! È una vera battaglia! Non son più discorsi, son diluvii di parole, da fare ammattire gli stenografi e confonder la testa agli uditori delle tribune! Sono voci, gesti, impeti, rapimenti d'ispirazione che fan pensare all'Assemblea francese nei giorni turbolenti della rivoluzione! Vi si sente un Rios Rosas, oratore violentissimo, che domina i tumulti col ruggito; un Martos, oratore dalla forma eletta, che uccide col ridicolo; un Pi y Margall, vecchio venerabile, che atterrisce coi sinistri pronostici; un Collantes, parlatore infaticabile, che schiaccia la Camera sotto una valanga di parole; un Rodriguez, che con meravigliosa flessuosità di ragionamenti e di giri, incalza, avviluppa e soffoca gli avversari; e in mezzo ad altri cento, un Castelar che vince e trascina amici e nemici con un torrente di poesia e di armonia. E questo Castelar, noto in tutta Europa, è veramente la più completa espressione dell'eloquenza spagnuola. Egli spinge il culto della forma fino all'idolatria; la sua eloquenza è musica; il suo ragionamento è schiavo del suo orecchio ei dice o non dice una cosa, o la dice in un senso meglio che in un altro, secondo che torna o non torna al periodo; ha un'armonia nella mente, la segue, la obbedisce, le sacrifica tutto quello che la può offendere; il suo periodo è una strofa; bisogna sentirlo per credere che la parola umana, senza misura poetica e senza canto, si possa avvicinar così all'armonia del canto e della poesia. È più artista che uomo politico, ha d'artista, non solo l'ingegno, ma il cuore; un cuore di fanciullo, incapace di odio o d'inimicizia. In tutti i suoi discorsi non si trova un'ingiuria; nelle Cortes non ha mai provocato una seria quistione personale; non ricorre mai alla satira, non adopera mai l'ironia; nelle sue più violente filippiche non versa una dramma di fiele; e questa n'è una prova che, repubblicano, avversario di tutti i ministeri, giornalista battagliero, accusatore perpetuo di chi esercita un potere, e di chi non è fanatico per la libertà, non s'è fatto odiare da nessuno. E però i suoi discorsi si godono e non si temono; la sua parola è troppo bella per esser terribile; il suo carattere troppo ingenuo perchè egli possa esercitare una influenza politica; egli non sa armeggiare, tramare e barcamenarsi; egli non è buono che a piacere ed a splendere; la sua eloquenza, quando è più grande, è tenera; i suoi più bei discorsi fan piangere. Per lui la Camera è un teatro. Come i poeti improvvisatori, per aver l'ispirazione piena e serena, egli ha bisogno di parlare a quella data ora, in quel determinato punto e con quel certo tempo libero dinanzi a sè. Perciò, il giorno che deve parlare, prende le sue misure col Presidente della Camera; il Presidente dispone in modo che gli tocchi la parola quando le tribune sono affollate e tutti i deputati al loro posto; i suoi giornali annunziano la sera innanzi il suo discorso affinchè le signore possano procurarsi il biglietto; egli ha bisogno d'aspettazione. Prima di parlare è inquieto, non può posare un istante, entra nella Camera, esce, rientra, torna ad uscire, gira pei corridoi, va nella biblioteca a sfogliare un libro, scappa nel caffè a bere un bicchier d'acqua, par preso dalla febbre, gli sembra che non saprà accozzar due parole, che farà ridere, che si farà fischiare; del suo discorso non gli rimane una sola idea lucida nella mente, ha confuso tutto, ha dimenticato tutto. — Come va il polso? — gli domandano sorridendo gli amici. Giunto il momento solenne, sale al suo banco col capo basso, tremante, pallido, come un condannato che va a morire, rassegnato a perdere in un sol giorno la gloria conquistata in tanti anni e con tante fatiche. In quel momento i suoi stessi nemici senton pietà del suo stato. Egli si alza, volge uno sguardo intorno, e dice: — Señores! — È salvo; il suo coraggio si rinfranca, la sua mente si rischiara, il suo discorso gli si ricompone nella testa come un'arietta dimenticata; il Presidente, le Cortes, le tribune spariscono; egli non vede più che il suo gesto, non ode più che la sua voce, non sente più che la fiamma irresistibile che lo accende e la forza misteriosa che lo solleva. È bello sentir dire da lui queste cose: «Io non vedo più le pareti della sala,» dice, «vedo genti e paesi lontani che non ho mai visti.» — E parla per ore e per ore, e non un deputato esce dall'aula, non una persona si muove nelle tribune, non una voce lo interrompe, non un gesto lo distrae; neanche quando fa una scappatella in barba del Regolamento, il Presidente non ha il coraggio d'interromperlo; egli fa balenare a suo bell'agio l'immagine della sua repubblica vestita di bianco e coronata di rose, e i monarchici non s'arrischiano a protestare, perchè, così vestita, la trovan bella anch'essi; il Castelar è signore dell'Assemblea: tuona, sfolgora, canta, strepita e scintilla come un fuoco d'artifizio, fa sorridere, strappa grida di entusiasmo, finisce in mezzo a un immenso fragore d'applausi, e se ne va colla testa in visibilio. Tale è questo famoso Castelar, professore di storia all'Università, fecondissimo scrittore di politica, d'arte, di religione; pubblicista che razzola cinquantamila lire all'anno nei giornali d'America, accademico eletto ad unanimità dall'Academia española, segnato a dito per le vie, festeggiato dal popolo, amato dai nemici, giovane, gentile, vanerello, generoso, beato.
E poichè siamo all'eloquenza politica diamo uno sguardo alla letteratura. Raffiguriamoci una sala di Accademia piena di confusione e di strepito. Una folla di poeti, di romanzieri e di scrittori d'ogni natura, aventi quasi tutti qualcosa di francese nel volto e nei modi, benchè studiosissimi tutti di non lasciarlo parere; leggono e declamano le opere loro, facendo gli uni a soverchiar la voce degli altri, a fine di farsi sentire dal popolo accalcato nelle tribune; il quale, dal canto suo, bada a legger le gazzette e a disputar di politica. A quando a quando una voce vibrata e armoniosa vince il tumulto; e allora cento voci, prorompono insieme in un canto della sala, gridando: — È un carlista! — e una salva di fischi tien dietro alle grida; oppure: — È un repubblicano! — e un'altra salva di fischi, da un'altra parte, soffoca la voce vibrata e armoniosa. Gli accademici si tirano dei giornali rappallottolati, si urlan l'un l'altro nell'orecchio: — Ateo! — Gesuita! — Demagogo! — Neo-cattolico! — Banderuola! — Traditore! — A tender ben l'orecchio verso quei che leggono, si colgono strofe armoniose, periodi ben torniti, frasi potenti; il primo effetto è gradevole; son davvero poesie e prose piene di calore, di vita, di sprazzi di luce, di felici comparazioni tolte da tutto quello che splende e che suona nel cielo e sul mare e sulla terra; e ogni cosa vagamente lumeggiato di colori orientali e riccamente vestito di armonie italiane. Ma ahimè! non è che letteratura per gli occhi e per gli orecchi; non è che musica e pittura; raramente la musa, in mezzo a un nembo di fiori, lascia cadere la gemma d'un pensiero; e di codesta pioggia luminosa non rimane che un leggiero profumo nell'aria, e l'eco d'un lieve mormorio nell'orecchio. Intanto, s'odon nella strada grida di popolo, colpi di fucili e suon di tamburi; a ogni tratto, qualche artista diserta l'arringo, e va a sventolare una bandiera tra la folla; spariscono a due, a tre, a frotte, e vanno a ingrossare il drappello dei gazzettieri; lo strepito e la vicenda continua degli avvenimenti, distolgono i più tenaci dalle opere di lunga lena; invano qualche solitario nella folla grida: — In nome del Cervantes, fermate! — Alcune voci potenti si sollevano al di sopra di quel gridìo; ma son voci d'uomini raggruppati in disparte, molti dei quali in procinto di partire per un viaggio senza ritorno. È la voce dell'Hatzembuch, il principe del dramma; è la voce del Breton de los Herreros, il principe della commedia; è la voce dello Zorrilla, il principe della poesia; è un orientalista che si chiama Gayango, un archeologo che si chiama Guerra, un commediografo che si chiama Tamayo, un novelliere che si chiama Fernand Caballero, un critico che si chiama Amador de Los Rios, un romanziere che si chiama Fernandez y Gonzalez, e una schiera d'altri ingegni arditi e fecondi; in mezzo ai quali è ancora viva la memoria del gran poeta della rivoluzione, Quintana; del Byron della Spagna, Espronceda; d'un Nicasio Gallego, d'un Martinez della Rosa, d'un duca di Rivas. Ma il tumulto, il disordine e la discordia invadono ed avvolgono, come un torrente, ogni cosa. E per uscir di allegoria, la letteratura spagnuola si trova in quasi eguali condizioni della nostra: una schiera di illustri che declinano; ma che ebbero due grandi ispirazioni: o la religione o la patria, o entrambe; e che però lasciarono un’orma propria e durevole nel campo dell’arte; e una schiera di giovani che vengono innanzi a tentoni, domandando che cosa hanno da fare, piuttosto che facendo davvero; ondeggianti tra la fede e il dubbio, o aventi la fede senza il coraggio, o non avendola, indotti dall’uso a simularla; malsicuri anch’essi della propria lingua, e titubanti fra le Accademie che gridano: — Purezza! — e il popolo che grida: — Verità!; incerti tra la legge della tradizione e il bisogno del momento; lasciáti in un canto dai mille che danno la fama o vituperati dai pochi che la suggellano; costretti a pensare in un modo e a scrivere in un altro, a non esprimersi interi, a lasciarsi sfuggire il presente per non si staccare dal passato, a barcamenarsi alla meglio fra opposte difficoltà. Gran ventura poter far surnuotare, per qualche anno, il proprio nome al torrente di libri francesi onde il paese è allagato! Dal che nasce lo sconforto prima nelle proprie forze e poi nel genio nazionale; e di qui o l’imitazione che mantiene nella mediocrità, o l’abbandono della letteratura dai larghi studi e dalle larghe speranze, per il facile e proficuo scribacchiar nei giornali. Unico, fra le tante rovine, riman ritto il teatro. La nuova letteratura drammatica non ha più dell’antica nè l’invenzione meravigliosa, nè la forma splendida, nè quell’impronta originale di nobiltà e di grandezza, che era propria d’un popolo dominatore dell’Europa e del Nuovo Mondo; e meno ancora la fecondità incredibile e la varietà senza fine; ma per compenso una più sana dottrina, un’osservazione più profonda, una delicatezza più squisita, e una maggiore conformità allo scopo vero del teatro, che è di correggere i costumi e di nobilitare i cuori e le menti. In tutte le opere letterarie poi, come nel teatro, nei romanzi, nei canti popolari, nei poemi, nelle storie, sempre vivo e dominante il sentimento che informa più profondamente, forse, che ogni altra letteratura europea, la letteratura spagnuola, dai primi tentativi lirici del Berceo ai vigorosi inni guerrieri del Quintana: — l’orgoglio nazionale.
E qui accade di parlare del carattere degli Spagnuoli. Il loro orgoglio nazionale è tale oggi ancora, dopo tante e sventure e una sì bassa caduta, da far dubitare allo straniero che vive in mezzo a loro, s’essi sian spagnuoli di tre secoli fa, o spagnuoli del secolo decimonono. Ma è un orgoglio che non offende, un orgoglio innocentemente rettorico. Non deprimon già le altre nazioni per parer alla volta loro più alti; no; le rispettano, le lodano, le ammirano, ma lasciando però trasparire il sentimento di una superiorità che, nel concetto loro, ritrae appunto da quell’ammirazione, una luminosa evidenza. Sono, per le altre nazioni, benevoli di quella benevolenza che il Leopardi dice giustamente essere propria degli uomini pieni del concetto di se medesimi; i quali, credendosi ammirati da tutti, amano i loro creduti ammiratori, anche perchè giudicano ciò conveniente a quella maggioranza onde stimano che la sorte gli abbia favoriti. Non può esservi stato al mondo un popolo più fiero della sua storia che il popolo spagnuolo. È una cosa incredibile. Il ragazzo che vi lustra gli stivali, il facchino che vi porta la valigia, il mendicante che vi chiede l’elemosina, alzan la testa e mandan lampi dagli occhi al nome di Carlo V, di Filippo II, di Ferdinando Cortes, di Don Giovanni d’Austria, come se fossero eroi del loro tempo, e li avesser veduti il giorno prima entrare trionfalmente nella città. Si pronuncia il nome di España coll’accento col quale dovevan pronunciar Roma i Romani a’ tempi più gloriosi della repubblica. Quando si parla della Spagna, è bandita anche la modestia, dagli uomini naturalmente più modesti, senza che sul loro viso appaia il menomo indizio di quell’esaltamento a cui si condona l’intemperanza del linguaggio. Si inneggia a freddo, per uso, senza accorgersene. Nei discorsi al Parlamento, negli articoli delle gazzette, nelle scritture delle accademie, si chiama il popolo spagnuolo, senza perifrasi, un pueblo de héroes, la grande nazione, la meraviglia del mondo, la gloria dei secoli. È raro il sentir dire o leggere cento parole da chi si sia e a qual si voglia uditorio, senza che o prima o poi non suoni il ritornello obbligato di Lepanto, di scoperta d’America, di guerra d’indipendenza, a cui tien dietro sempre uno scoppio d’applausi.
E appunto la tradizione della guerra d’indipendenza costituisce nel popolo spagnuolo una forza intima immensa. Chi non sia vissuto o poco o molto in Spagna non può credere che una guerra, per quanto fortunata e gloriosa, possa lasciare in un popolo una così profonda fede nel valor nazionale. Baylen, Victoria, San Marcial sono tradizioni per la Spagna assai più efficaci che non siano per la Francia Marengo, Jena, Austerlitz. La stessa gloria guerriera degli eserciti di Napoleone, veduta a traverso la guerra d’indipendenza che vi stese su il primo velo, appare agli occhi della Spagna assai meno splendida che a ogni altro popolo d’Europa. L’idea di una invasione straniera desta negli Spagnuoli un sorriso di sdegnoso disprezzo; non credono alla possibilità d’esser vinti nel loro paese; bisognava sentire con che tòno parlavan della Germania quando correva voce che l’imperatore Guglielmo fosse risoluto a sostenere colle armi il trono del duca d’Aosta. E non c’è dubbio che, se avessero a combattere una nuova guerra d’indipendenza, forse combatterebbero, con meno fortunato successo, ma con prodezza e costanza pari a quella maravigliosa che spiegarono allora. Il 1808 è il 93 della Spagna; è una data che ogni spagnuolo ha dinanzi agli occhi scritta in carattere di fuoco; se ne gloriano le donne, i ragazzi, i bambini che cominciano a scioglier la lingua; è il grido di guerra della nazione.
E quella stessa alterezza l’hanno dei loro scrittori e dei loro artisti. L’accattone invece di dir España, vi dice qualche volta la patria de Cervantes. Nessun scrittore al mondo ebbe mai nel suo popolo la popolarità che ha in Spagna l’autore del Don Chisciotte. Io credo che non vi sia un contadino, un pastore, dai Pirenei alla Sierra Nevada, dalla costa di Valenza ai colli d’Estremadura, che interrogato di chi sia il Cervantes, non risponda con un sorriso di compiacenza: — El imortal autor del Quijote. — La Spagna è forse il paese dove si celebrano più anniversarii di grandi scrittori: da Juan de Mena all’Espronceda, ognuno ha il suo giorno solenne, nel quale si offre alla sua tomba un tributo di canti e di fiori. Nelle piazze, nei caffè, nei carrozzoni della strada ferrata, per tutto occorre di sentir citar versi di poeti illustri, da ogni sorta di gente; chi non ha letto, ha sentito leggere; chi non ha sentito leggere, ripete la citazione come un proverbio, per averla udita da un altro; e quando uno dice un verso, tutti drizzan gli orecchi. Chi conosca per poco la letteratura spagnuola, può fare un viaggio in quel paese colla sicurezza di aver sempre di che discorrere e di come ispirar simpatia, dovunque capiti, in chiunque s’abbatta. La letteratura nazionale è là veramente nazionale.
Il difetto degli Spagnuoli che colpisce fin dalle prime lo straniero, è questo: che nell’estimare le cose, gli uomini e gli avvenimenti del loro tempo e del loro paese, sbagliano, se così può dirsi, la misura; ingigantiscon tutto; vedono ogni cosa come a traverso una lente che ne dilata spropositatamente i contorni. Non avendo avuto da lungo tempo una partecipazione immediata nella vita comune d’Europa mancò loro l’occasione di paragonarsi cogli altri Stati, e di giudicar sè stessi dal paragone. Perciò le loro guerre civili, le guerre d’America, d’Affrica, di Cuba, sono per loro quello che son per noi, non la piccola guerra del 1860 e 61 contro l’esercito papale od anche la rivoluzione del 1860; ma la gran guerra di Crimea, quella del 1859, quella del 1866. Dei combattimenti, sanguinosi senza dubbio, ma non grandi, che illustrarono le armi spagnuole in quelle guerre, parlano come i Francesi di Solferino, i Prussiani di Sadowa, gli Austriaci di Custoza. I Prim, i Serrano, gli O’Donnell, sono generali che mettono al lato dei più insigni degli altri paesi. Mi ricordo del chiasso fatto a Madrid per la vittoria riportata dal general Morriones su quattro o cinque mila Carlisti. I deputati, nella sala di conversazione delle Cortes, esclamavano enfaticamente: — Eh! La sangre española! —; alcuni dicevan persino che se un esercito di trecentomila Spagnuoli, si fosse trovato in luogo dei Francesi nel 1870, sarebbe corso difilato a Berlino. E certo non si può dubitar del valore spagnuolo, che diede di sè tante prove; ma è lecito il supporre che fra Carlisti disordinati e Prussiani stretti in corpi d’esercito, fra soldati d’Europa, per farla più larga, e soldati d’Affrica, fra grandi battaglie campali, dove la mitraglia miete le vite a migliaia, e combattimenti di diecimila soldati per parte, con disparità grande di armamento e di disciplina, ci corra. E come parlan di guerra, parlan d’ogni altra cosa; non già il popolo solo, ma la gente colta. Agli scrittori si prodigano lodi sperticate; si dà di grande poeta a molti, il cui nome non è mai uscito di Spagna; gli epiteti di inarrivabile, di sublime, di meraviglioso, sono moneta corrente che si spende e si riceve senza il menomo dubbio sulla bontà della lega. Si direbbe che la Spagna guarda e giudica ogni sua cosa, piuttosto come un popolo americano, che come un popolo europeo; e che invece dei Pirenei, la separi dall’Europa un oceano, e la congiunga all’America un istmo.
Del resto, quanto son simili a noi! A sentir parlare il popolo di politica, par d’essere in Italia; non si discute, si sentenzia; non si censura, si condanna; ad ogni giudizio basta un argomento, e per foggiare un argomento basta un indizio. Il tal ministro? Un furfante. Il tal altro? Un traditore. Quell’altro tale? un ipocrita; una fitta di ladri tutti; uno ha fatto vendere gli alberi dei giardini d’Aranjuez, l’altro ha portato via dei tesori dall’Escuriale, un terzo ha vuotato le casse dello Stato, un quarto ha venduto l’anima per un sacchetto di dobloni. Negli uomini che hanno avuto mano in tutti i rivolgimenti politici da trent’anni in qua, non hanno più fede; anche nel popolo minuto serpeggia un sentimento di sconforto, del quale s’intende l’espressione ad ogni tratto e in ogni lato: — Pobre España! — Desgraciado pais! — Desdichados españoles!
Ma l’esacerbamento delle passioni politiche e il furore delle lotte intestine non ha mutato il fondo dell’antico carattere spagnuolo. Solamente quella parte della società alla quale si dà il nome di mondo politico, questa solamente è corrotta; il popolo, benchè pur sempre inchinevole a quei ciechi e talora selvaggi impeti di passione che tradiscono la mescolanza del sangue arabo col sangue latino, è buono, leale, capace di sensi magnanimi e di sublimi slanci d’entusiasmo. La honra de España è ancora un motto che fa battere tutti i cuori. E poi hanno modi franchi e gentili; forse men fini, ma certo più amabilmente ingenui, di quelli onde van lodati i Francesi. Invece di farvi un sorriso vi porgono un sigaro, invece di dirvi una garbatezza vi stringon la mano, e sono più ospitali a fatti che a offerte. Nondimeno le formole di saluto serbano l’antica impronta cortigianesca; l’uomo dice alla donna: — Ai suoi piedi; — la donna dice all’uomo: — Le bacio la mano; — gli uomini, fra loro, sottoscrivon le lettere col Q. B. S. M., — que besa sus manos, — come da servo a signore; gli amici soli si dicono addio e il popolo ha il suo saluto affettuoso di Vaya Vsted con Dios che val più di tutti i baci sulle mani.
Con codesta natura calda e espansiva della gente, è impossibile stare un mese a Madrid senza farsi cento amici, anche senza cercarli. Figuratevi quanti se ne può far chi li cerca. Questo era il caso mio. E non posso dir proprio amici, ma conoscenti ne ebbi tanti che non mi pareva più di essere in una città straniera. Anche gli uomini illustri sono di facilissimo abbordo e però non c’è bisogno, come altrove, di un monte di lettere e d’imbasciate d’amici per arrivar fino a loro. Ebbi l’onore di conoscere il Tamayo, l’Hatzembuch, il Guerra, il Saavedra, il Valera, il Rodriguez, il Castelar, e molti altri chiarissimi quali nelle lettere e quali nelle scienze, e li trovai tutti a un modo: aperti, cordiali, focosi; uomini coi capelli bianchi, ma con occhi e voci di giovani ventenni; appassionati per la poesia, per la musica, per la pittura; allegri, gesticolanti, ridenti d’un riso fresco e sonoro. Quanti ne vidi leggendo dei versi del Quintana o dell’Espronceda, impallidire, piangere, balzare in piedi come scossi da una scintilla elettrica, e mostrar tutta l’anima negli sguardi raggianti! Che giovanili anime! Che ardenti cuori! Come mi compiacevo, vedendoli ed ascoltandoli, di appartenere a questa povera razza latina, di cui diciamo ora le sette pèste, e come mi rallegravo pensando che più o meno siamo tutti fatti su quello stampo, e che, perdio, potremo abituarci a poco a poco a invidiare lo stampo degli altri, ma non riusciremo a perdere il nostro mai!
Dopo tre mesi e più di soggiorno a Madrid, dovetti partire per non lasciarmi poi cogliere dall’estate nel mezzogiorno della Spagna. Ricorderò sempre quella bella mattina di maggio, ch’io abbandonai, forse per sempre, la mia cara Madrid. Partivo per andar a vedere l’Andalusia, la terra promessa dei viaggiatori, la fantastica Andalusia della quale avevo tanto inteso decantare le meraviglie in Italia e in Spagna, dai romanzieri e dai poeti; quell’Andalusia per la quale posso dire che avevo il viaggio; eppure ero tristo. Avevo passato tanti bei giorni a Madrid! Ci lasciavo tanti cari amici! Per andare alla stazione della strada ferrata del mezzogiorno, attraversai la strada d’Alcalà, salutai da lontano i giardini di Recoletos, passai davanti al palazzo del Museo di pittura, mi fermai a guardare ancora una volta la statua del Murillo, e arrivai alla stazione col cuore stretto. — Tre mesi? — domandavo a me stesso pochi momenti prima che il treno partisse; — son già passati tre mesi? Non è stato un sogno? Eppure sì, gli è come se avessi sognato! Non rivedrò forse mai più la mia buona padrona di casa, mai più la bambina del signor Saavedra, mai più il viso dolce e sereno del Guerra, mai più gli amici del caffè Fornos, mai più nessuno! Ma che! Non potrò tornare?... Tornare! Oh no! Lo so bene che non potrò tornare! E allora... addio, amici! Addio, Madrid! Addio, o mia piccola stanza di strada dell’Alduana! — Mi pare che in questo momento mi si strappi una fibra nel cuore, e sento il bisogno di nascondere il viso.