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II. Le prime indagini
I. Il fatto III. I ricordi di Roberto Vérod



II.

Le prime indagini.

Francesco Ferpierre, giudice d’istruzione presso il Tribunale cantonale di Losanna, era molto giovane: non aveva ancora quarant’anni. Una cultura legale solidissima, molta scienza della vita e del cuore umano, la nativa attitudine all’osservare che nell’esercizio della professione era divenuta geniale chiaroveggenza e quasi prescienza fatidica, facevano di lui una delle migliori forze della magistratura elvetica. Pure la sua prima vocazione era stata un’altra.

Egli aveva cominciato a coltivar le lettere; aveva anzi, sul principio, trascurato gli studii legali come inutili e ingrati, e nutrito una specie di rancore contro la famiglia che lo esortava a compirli. Scrivendo versi d’amore e prose di romanzo, esercitando la divina facoltà creatrice dell’imaginazione, egli pensava di conquistare la gloria, sdegnoso e neppur bisognevole di più reali compensi. Si ravvide alla morte del padre, sostegno della numerosa famiglia. Compreso il dovere di sostituirlo, egli disse da un giorno all’altro addio alla fantasia favolosa e indirizzò l’attività sua per una via più positiva. I primi esercizii non gli furono però inutili del tutto; l’abitudine dell’indagine psicologica, contratta nel considerare avvenimenti fittizii, gli giovò a districare i misteri proposti alla giustizia inquirente; cominciato a studiare la vita sopra i libri, egli potè presto comprendere come realmente è.

La professione politica e la giudiziaria sono forse quelle che più rapidamente e meglio d’ogni altra facciano conoscere gli uomini; ma dove l’uomo politico è egli stesso in preda a qualcuna di quelle passioni che presume giudicare negli altri, il magistrato, indifferente, sereno, straniero agli interessi che vede agitarsi d’intorno, è meglio d’ogni altro in grado di leggere nel libro del cuore. Ora il Ferpierre, dato sfogo con le artistiche esercitazioni della prima gioventù alle vivaci passioni, aveva compreso in tempo quel che c’è d’esagerato, di falso e di malsano in una troppo assidua prosecuzione poetica dell’esistenza; e come i suoi sentimenti erano divenuti più austeri, più severi erano divenuti i suoi giudizii. Il vecchio fondo morale della razza elvetica, la serietà quasi triste accumulata nel cuor della razza dalla contemplazione delle Alpi giganti, la rigidezza quasi ingrata di quel protestantesimo che escluse un tempo da Ginevra la musica come arte troppo voluttuosa, si ridestarono dopo i primi ardimenti; e la scapataggine un poco voluta del giovane poeta diè luogo alla rettitudine inflessibile dell’uomo maturo.

Contro i personaggi del dramma d’Ouchy, che gli fu narrato dal giudice di pace ai Cyclamens, dove subito accorse alla chiamata, il Ferpierre si sentiva pertanto animato da una secreta diffidenza. Certo la morta gl’ispirava molta pietà; ma se ella stessa aveva voluto uscir di vita, il biasimo contrastava al compatimento. Il legame che l’aveva unita con il principe Zakunine era del resto fuor della legge. L’amicizia tra lei ed il Vérod ne restava contaminata. Senza ancora aver visto l’accusatore, udendone soltanto il nome, il magistrato credè di riconoscere in lui Roberto Vérod, lo scrittore ginevrino che viveva da molti anni a Parigi, di dove diffondeva per il mondo libri pieni d’amari insegnamenti. Anzi, se non s’ingannava, costui gli doveva essere noto più intimamente; perchè, quindici anni addietro, il Vérod entrava nella facoltà di lettere dell’Università di Ginevra, mentre egli stesso vi faceva il penultimo corso degli studii legali, e un circolo di studenti li aveva accolti entrambi durante due anni. Ora perchè mai il giovane vedeva nella morte della contessa un assassinio e presumeva vendicarlo, se non perchè era stato rivale del principe e amante della defunta? L’attitudine di sfida superba della straniera, la durezza dei suoi sguardi, la certezza che anch’ella doveva essere affiliata al nihilismo, avevano disposto il giudice di pace contro di lei; ma tutta la severità del Ferpierre s’accumulava sul capo del principe.

Egli lo conosceva da lungo tempo per fama. Sapeva che, con uno dei maggiori nomi e una delle più larghe fortune del suo paese, ne era stato bandito per complicità in una congiura contro la vita d’un generale. Sapeva che l’esiliato aveva proseguito a cospirare con maggior lena, che era divenuto uno dei più temibili direttori del partito rivoluzionario europeo, che una condanna di morte gli pendeva sul capo. E sapeva ancora che, nonostante lo scopo politico paresse prendere tutta l’attività del ribelle, costui trovava ancor tempo di fare una vita piena d’avventure galanti, di passare d’amore in amore, ripagando col dolore dell’abbandono e del tradimento le sciagurate incapaci di resistere alla sua seduzione. E da questo ribelle sanguinario, da questo indegno Don Giovanni, la contessa d’Arda s’era lasciata sedurre!... Ma aveva ella voluto morire per non assistere alla rovina d’un sogno d’amor fedele, oppure veramente il principe e la nihilista l’avevano uccisa?

Il Ferpierre, incerto e confuso dinanzi al mistero, discuteva la sera stessa della catastrofe, alla villa, questi ed altri quesiti con il giudice di pace, dopo aver ordinato la traduzione del cadavere alla sala incisoria e il sequestro di tutte le carte che si trovavano ai Cyclamens. Posto pure che l’amore o il capriccio del principe per la contessa fosse finito, bastavano la noia ed il fastidio, od anche i malintesi e il disaccordo a spiegare l’omicidio — se un omicidio era stato commesso? La ragione addotta dall’accusatore e riferita dal giudice di pace, cioè la malvagità dei nihilisti, non aveva valore senza un più particolare ed efficace movente. Distruggere una vita per il solo piacere di distruggerla non era da nihilisti, ma da folli. Bisognava dunque che costoro fossero stati spinti da una passione, da qualche interesse. Forse il male che vedeva ordire al principe, le congiure alle quali lo sapeva mescolato, il sangue che udiva essere sparso per opera di lui, avevano atterrito la contessa: volendo impedire che perseverasse nell’opera tremenda ella poteva aver sorpreso qualche suo secreto, o un secreto non suo; e la rigida disciplina della setta misteriosa aveva forse armato quell’uomo e la sua complice? Questa supposizione alla quale il giudice di pace attribuiva un certo fondamento, pareva al Ferpierre, quantunque non del tutto inammissibile, poco probabile.

Era più probabile che, se delitto c’era, si trovassero dinanzi a un delitto d’amore? Il principe, dopo aver disamata quella donna, ricominciava ad amarla e l’aveva uccisa per gelosia? E di chi sarebbe stato geloso, se non di quel Vérod che era tanto turbato dalla morte della contessa, e assumeva, non richiesto, la parte d’accusatore e di vindice? O non piuttosto ella stessa aveva commesso il misfatto perchè amava Zakunine ed era gelosa dell’amore che vedeva da lui portato alla Italiana?... Il delitto, chiunque fosse il colpevole, qualunque fosse lo scopo, non aveva potuto tuttavia essere consumato senza che tra l’assassino e la vittima fosse avvenuta una lotta, sia pur breve; ma nella camera mortuaria non se ne trovava vestigio, nè sulla persona della morta. Dalla posizione dell’arma, che stava con l’impugnatura in fuori e la canna rivolta verso il cadavere, i dottori avevano arguito che la contessa, se era suicida, doveva essersi uccisa in piedi; l’arma, cadendole di pugno, aveva compito una rotazione che ne spiegava la giacitura al suolo. Se pure non pareva molto naturale che la disgraziata avesse portato la mano sopra sè stessa stando ritta, contrariamente a ciò che fanno quasi tutti i suicidi, la circostanza che il revolver le apparteneva ed era tenuto da lei nascosto escludeva che un assassino avesse potuto servirsi proprio di quello. Inoltre da quel revolver mal chiuso una cartuccia era venuta fuori nella caduta: ciò si spiegava molto bene da parte d’una donna poco pratica nel maneggio delle armi, d’una suicida le cui mani dovevano per altre ragioni tremare, e non si spiegava da parte d’un assassino.

Per potersi fermare sopra un’ipotesi bisognava ancora aspettare i risultati dell’autopsia; nel frattempo il Ferpierre, scelta la sala da pranzo della villa come suo gabinetto per l’inchiesta da compiere sulla faccia dei luoghi, ordinò che vi fosse introdotto il Vérod.

Quando il giovane apparve, il pallore del suo viso, l’ambascia dello sguardo, l’imbarazzo dell’atteggiamento confermarono chiaramente come egli dovesse esser legato alla defunta da un sentimento molto forte e delicato ad una volta. E il giudice, senza esitazione, quantunque tanto tempo fosse passato, tosto riconobbe l’antico studente di lettere. Egli rammentò d’averlo incontrato sovente, durante due anni, al circolo universitario ginevrino, e rammentò pure che fra i loro spiriti non era passato alcun moto di simpatia. Fin da quei giorni lontani l’indole triste ed amara dell’ingegno del Vérod si era rivelata nelle discussioni giovanili: nessuno dei sentimenti ai quali il Ferpierre aveva successivamente obbedito, nè gli entusiasmi poetici nè il dovere severo eran parsi intelligibili a quell’anima chiusa. Rammentava anch’egli l’antico incontro? Aveva chiesto del giudice istruttore sapendo chi fosse? Si sarebbe dato a conoscere?

— Avete voluto parlarmi, — disse il Ferpierre, che rivolgeva a sè stesso queste domande pure ordinando sulla tavola le carte sequestrate nella camera della morta e del principe; — eccomi a voi. E innanzi tutto il vostro nome, l’età?

— Roberto Vérod; trentaquattro anni.

— Voi siete Vérod lo scrittore?

— Sì.

— Nato a Ginevra, domiciliato a Parigi?

— Sì.

Il giovane o non lo riconosceva o non voleva dirgli che lo riconosceva.

— Bene. Quali sono le prove che avete da confidarmi?

Non solamente il Vérod non era più, come prima, sicuro di sè; ma da accusatore pareva a un tratto essersi ridotto ad accusato, talmente si confuse a quell’interrogazione che pur doveva prevedere. Rimasto un poco in silenzio, fatto per dire qualcosa, poi pentito e di nuovo esitante, si avvicinò al giudice tendendogli una mano.

— Se voi sapeste, signore, — disse con voce malferma e sommessa, — che tumulto di sentimenti ho nel cuore, come ho paura di parlare, come ho bisogno d’affidarmi alla vostra indulgenza, alla vostra discrezione, per dire ciò che ho da dirvi!...

Quella invocazione fu espressa con tanta delicatezza e sincerità, che il Ferpierre ne fu commosso. Pure non volle ancora provocarlo a farsi riconoscere, aspettando di vedere se egli stesso avrebbe alluso ai loro rapporti d’un tempo. Lasciate le sue carte e stretta la mano che il giovane gli tendeva quasi per afferrarsi a lui, rispose:

— Sarebbe già il dover mio; ma facciamo di meglio: dimentichiamo piuttosto la nostra condizione rispettiva e confidatevi non al magistrato, all’uomo.

— Grazie, signore! Io vi ringrazio di queste buone parole... Al magistrato, infatti, non avrei molto da dire, non riuscirei forse a comunicare, mancando di prove reali, la mia morale certezza...

— Ed all’uomo?

— All’uomo... all’uomo io domanderò: Chi ha sopportato la vita quando era piena di nerezza, credete voi che possa fuggirla mentre vede finalmente la luce risplendere? Chi ha disperato rassegnatamente, in silenzio, si dorrà, si ribellerà all’imprevista speranza?...

Il giudice che era stato a udirlo a capo chino, senza guardarlo, non rispose subito.

Levati gli occhi su lui, interrogò dopo un poco a sua volta:

— Eravate molto intimo della defunta?

Il giovane taceva. I suoi occhi si gonfiarono lentamente di lacrime.

— Non dovrei, no, dire questa cosa... — mormorò con voce rotta. — A nessuno io direi un secreto non mio... non tutto mio... E mi pare, guardate, che Ella se ne dolga, che mi vieti di aggiungere altro.

— Voi l’amaste?

— Sì!

Le sue lacrime s’erano arrestate, il suo sguardo esprimeva ora una gioia orgogliosa, un’altera felicità.

— Sì, d’un amore che può essere confessato, con alta fronte, dinanzi a chiunque. Perchè lo negherei?

— Anch’ella vi amò?

— Sì!... E il mondo non seppe, non saprà mai che cosa fu l’amor nostro. Il mondo è tristo e a breve andare la vita inquina tutte le cose. Ma nulla, non un atto, non una parola, non un pensiero contaminò una sola volta il sentimento del quale vivemmo.

— Nondimeno il principe ebbe ragione d’esser geloso?

L’espressione di superba beatitudine che animava il Vérod diè luogo a un’amara contrazione di sdegno.

— Geloso?... Per esser geloso egli avrebbe dovuto amarla! E se l’avesse amata, fedelmente, puramente, sarei stato amato io stesso?

Il Ferpierre fu stupito dalla manifestazione di quest’idea. Non rammentava egli bene le crude e ingrate verità delle quali il Vérod sin da giovane era stato predicatore: oppure il pessimista, lo scettico si era convertito?

— Ma dunque in che rapporti stavano il principe e la contessa? — continuò frattanto a interrogare. — Non è da dubitare che s’amassero un tempo?

— Voi sapete, signore, che questo nome, che il nome d’amore si dà a tante cose diverse: alle nostre illusioni, ai nostri capricci, alle nostre cupidità... Sì, ella lo amò d’un amore che fu illusione ed inganno. Ella lo amò perchè credette di essere amata da lui; da lui, che sa odiare soltanto!

— Come mai non si separarono, allora?

— Egli, sì, volle separarsene. Glie lo disse, le gettò in faccia la sua fedeltà; l’abbandonò, più volte. Ella non volle riconoscere d’essersi ingannata, o lo riconobbe soltanto tra sè; e pensando che gl’inganni si pagano, che gli errori si scontano, accettò il martirio.

— Potete precisare in che consisterono i mali trattamenti?

— Chi può ridirli tutti? Ogni suo atto, tutte le sue parole erano un’offesa o una durezza.

— Da chi lo sapeste?

Quantunque il giudice avesse nascosto sotto quell’espressione ambigua il suo dubbio, il giovane protestò:

— Non da lei, signore! Io non udii mai da lei un lamento contro quell’uomo!... Seppi, vidi io stesso... Lo conobbi a Parigi, molti anni addietro, prima che fosse con lei: so quel che vale. Non io solo: tutti lo sanno.

— V’incontraste con lui dopo che conosceste la contessa?

— Mai. L’anno scorso pareva ch’egli l’avesse lasciata per sempre. Ora, dopo il suo ritorno, lo vidi da lontano una o due volte.

— Che cosa sapete intorno alla sua attività politica?

— Che non fu uno dei meno gravi dolori della infelice.

— Ignorava ella, quando lo incontrò, gli scopi ch’ei prosegue?

— Non so... non credo... Ma se pur seppe che lo avevano bandito dalla patria e condannato a morte, buona e sensibile come ella era dovè tremare di pietà per lui. Se egli le disse che questa sua sete di sangue è amore di libertà e di giustizia, carità degli oppressi e sogno di perfezione, l’anima sua ignara del male dovè fors’anche accendersi d’entusiasmo ed ammirarlo!...

— Credete che il disinganno sopravvenisse molto presto?

— Troppo presto... e troppo tardi! Sì!

— Quando la conosceste?

— L’anno passato.

— Dove?

— Qui, al Beau-Séjour.

— Non aveva ancora preso in affitto la villa?

— Sì, ma stette alcune settimane all’albergo.

— Dove passava l’inverno?

— A Nizza.

— Dunque l’anno passato essi non erano più insieme?

— No.

— Egli era tornato da poco tempo con lei?

— In questi ultimi mesi.

— Quella donna, quella giovane, sapete dire chi è?

— Una sua connazionale e correligionaria.

— Conoscete la natura dei loro rapporti?

— No; ma non è difficile indovinarli.

— Sarebbe anch’ella sua amante?

— Vi stupirebbe? Non sapete che questi vendicatori dell’asservita umanità amano il piacere, lo cercano, sono ben contenti d’associarlo al dovere?

Sempre più amara era l’espressione del giovane nel parlare di coloro che dovevano aver voluto la morte della creatura adorata.

— Dunque supponiamo che costei sia proprio l’amante del principe. Ella avrebbe ucciso la contessa per gelosia? Ma di chi sarebbe stata gelosa? Non della contessa, mi pare, che non amava più il principe, ma voi. E neppure del principe, certamente, che non amava più la contessa, ma lei!... Egli stesso, in questa condizione di cose, per qual motivo avrebbe commesso il delitto?... Del resto, voi invocaste la testimonianza della cameriera per confortare la vostra accusa. Come spiegate che questa donna, appena visto il cadavere, dice che la sua padrona, uccidendosi, ha posto in atto un antico proponimento?

— Ciò non vi prova, — esclamò il giovane, senza rispondere direttamente all’interrogazione, anzi rispondendo con una nuova domanda, — ciò non vi prova in quale abisso di miseria ella era caduta? Perchè, ispirata e sorretta da una fede come la sua, ella parlasse di darsi la morte, la vita non doveva esserle veramente divenuta odiosa e intollerabile?... Volle morire, una volta. Io stesso udii la parola tremenda dalle sue labbra. Una volta, non ora... Debbo io dirvi la speranza che ora entrambi ci sosteneva... il sogno divino d’una felicità...

Soffocato subitamente dai singhiozzi non potè proseguire. E il giudice, sempre più impressionato dal vedere che la fisonomia morale del giovane era molto diversa da quella che, sulla fede dei ricordi e della fama, gli aveva attribuita, considerava ora tra sè, in atto di discreto compatimento, l’efficacia della prova morale che l’accusatore finalmente precisava.

Se era vero ciò ch’ei diceva, se la morta lo aveva amato, l’accusa appariva meno improbabile. Che il sentimento del di là avesse dovuto impedire a quella donna di uccidersi, il Ferpierre credeva fino ad un certo segno; ma che un sentimento più umano, tutto umano, avesse potuto distoglierla dai funesti propositi, non gli pareva negabile. La qualità dei motivi ai quali gli uomini obbediscono è molto varia, e nella gerarchia dei sentimenti la fede tiene il posto più alto; ma la pratica loro virtù non è in rapporto col grado che occupano in questa scala ideale, e molto spesso non solo le passioni inferiori ma anche gli infimi istinti sono più forti. Contro dolori insopportabili, contro il bisogno di quiete e di riposo il sentimento religioso che vieta la morte volontaria può riuscire inefficace; l’amore, la speranza d’appagare una passione tutta vitale, riconcilia più prontamente con la vita.

Ma che cosa valeva questa presunzione? Come servirsene per incolpare due persone?

— Voi comprenderete, — riprese il magistrato quando vide sedarsi l’ambascia del Vérod, — la necessità che mi spinge a farvi domande certo dolorose per voi. Mi pare d’aver ben compreso il sentimento in forza del quale la contessa, a vostro giudizio, sarebbe rimasta con un uomo cui nulla più la legava. Ella voleva accettare, sopportar quasi, è vero? come un meritato castigo, fino all’ultimo, le conseguenze del proprio errore... Tuttavia, se ciò le fu possibile prima di conoscervi, come mai ella non riprese la sua libertà il giorno che un’altra speranza le sorrise?

— Sì, perchè non la riprese? — ripetè il Vérod come parlando tra sè.

— Non ne sospettaste la cagione?

— Ella stessa me la disse.

Ma, invece di riferirla, il giovane tacque, guardando fiso dinanzi a sè, scrollando il capo, con espressione di dolore amaro.

— E fu?

— Ella non si credeva, non si sentiva più libera.... L’impegno che aveva preso un giorno, accettando di vivere insieme con quell’uomo, era un impegno sacro per lei.... Ella non voleva passare da un uomo all’altro.... Neppur io la volevo, così....

Lo scrupolo espresso dal narratore era credibile? Un amante che si sente amato conosce ostacoli al compimento dei suoi voti? Certo, nelle anime capaci di educarli, i pensieri generosi e gli scrupoli delicati hanno molta forza, segnatamente nei primordii della passione. Che la passione del Vérod fosse alla fase iniziale risultava dalle sue stesse dichiarazioni; ed egli appariva tanto diverso dalla sua reputazione, parlava con accento di così accasciata tristezza, nella sua voce c’era ancora tale tremore di pianto, che il Ferpierre non volle sospettare della sua sincerità.

— Ma allora, — riprese, — se questa donna v’amava e non si credeva libera; se da una parte voleva e non poteva dall’altra infrangere un legame divenuto increscioso; se il nuovo amore nel quale riponeva la sola ragione di vivere le era vietato dagli scrupoli morali, l’argomento da voi addotto per confortare l’accusa non si ritorce contro di essa? La speranza che avrebbe dovuto sostenere questa donna non si dovè mutare invece in un nuovo, in un ultimo motivo di disperazione?

— Come?... Perchè?... — balbettò il Vérod, trasognato.

— Io dico che, volendo e non potendo amarvi, o non potendo amarvi se non a costo del proprio rispetto, questa donna non trovò nell’amor vostro il conforto da voi asserito; al contrario: esso fu per lei l’estremo dolore e la definitiva ragione di lasciare la vita!

Il giovane, come se non avesse dapprima compreso, o avesse voluto dubitare d’aver compreso male, ora guardava il suo interrogatore con occhio spaurito, e da tutto il suo atteggiamento, dalle labbra dischiuse, dal breve e precipitato respiro, dal trepido gesto col quale sollevava il braccio ed appressava la mano al petto, pareva che si fosse sentito improvvisamente trafiggere da una punta acutissima.

— Io?... Io?... Voi dite, per causa mia?... L’ho uccisa io?... Oh!

E nascosta la faccia tra le mani soffocò un grido di dolore inumano.

Il Ferpierre fu costretto al silenzio non tanto dalla discrezione quanto da un insolito turbamento. Egli era venuto ad istruire un processo, ed assisteva frattanto ad un dramma. Lo spettacolo delle passioni gli era abituale, ma il caso lo metteva ora di fronte a un’anima cui lo legavano i ricordi della giovinezza improvvisamente destati. Chi gli stava dinanzi non era soltanto l’antico compagno col quale aveva altra volta discusso, ma anche uno del più chiari ingegni del suo tempo. La natura di quell’ingegno non gli aveva ispirato simpatia; ma, se pure egli non avesse ora scoperto che l’uomo somigliava poco allo scrittore, la stessa rivalità intellettuale lo disturbava, lo toglieva all’ordinaria indifferenza, alla necessaria serenità. E la stessa vista di quel dolore lo commoveva, mentre egli aveva bisogno di tutta la lucidezza del proprio spirito per accertare l’accusa.

Se il giovane gemeva al dubbio d’essere stato egli medesimo causa involontaria del suicidio della contessa, bisognava credere che questo dubbio non solamente non fosse inverisimile, ma che anzi lo addolorasse come un rimorso. Nonostante, il giudice non voleva attribuirgli ancora troppo valore. Mancando le prove materiali, non si poteva fare assegnamento se non sopra mere induzioni: ora tra l’affermazione del Vérod, che la contessa non aveva potuto darsi la morte mentre la luce d’una nuova affezione rischiarava la tenebrosa sua vita, e il sospetto contrario, che la stessa impossibilità di obbedire a questo sentimento le avesse rivelato l’insanabile miseria della propria esistenza, quale meritava più credito?

Avvezzo a esercitare le sue facoltà d’analisi in casi molto dubbii ed oscuri, il giudice non s’era ancora trovato maggiormente esitante. Nondimeno, invece di discutere tra sè le varie ipotesi, egli faceva di tutto per distrarsi, per impedire che una di queste, a sua propria insaputa, mettesse radici e gli contendesse l’esatta percezione del vero. Egli sapeva che la vegetazione delle idee è molto più rapida di quelle di certe piante che in breve stendono attorno folte chiome frondose; e che la vita delle opinioni, quantunque sembri dipendere dalla volontà e cessare sotto l’influenza delle opinioni contrarie, pure è tenacissima e talvolta resiste agli sforzi più gravi.

Anche il Vérod, che pareva tanto confuso ed abbattuto, fu ben tosto sollevato da una vivace reazione.

— No!... — disse a un tratto, rialzando il capo e scrollandolo in atto di chi si ricrede. — No!... Non è possibile!... Non può essere vero!... Se fosse morta per me non m’avrebbe ella detto, non m’avrebbe lasciato una parola, la parola del suo dolore, un saluto, un addio?... Pur ieri io le parlai, e nulla, nulla potè farmi sospettare il pensiero di morte: al contrario!... No! — ripetè, affermando la voce secondo che il suo convincimento si veniva afforzando: — No! Non si è uccisa! È stata assassinata!... Voi non credete perchè non sapete, perchè non la conosceste!... Voi avete bisogno di toccare con mano per credere. Io sono certo invece che un infame delitto è stato qui oggi commesso. Io prendo impegno di confondere gli assassini, di vendicare la morta. Il dover vostro è di non credere nulla, per ora; di indagare, di aiutarmi a cercare le prove che mancano. Esistono: le troverò!

— Tanto meglio! — rispose il Ferpierre. — Voi potete anche essere certo che le cercherò, che le cerco anch’io!...

E, prima d’esser persuaso dalla forza di quella fede, lo congedò e diede ordine che introducessero la giovane sconosciuta.

— Il vostro nome? — le domandò.

— Alessandra Paskovna Natzichev.

— Nata a?...

— Cracovia.

— Quanti anni?

— Ventidue.

— Che professione?

— Studente di medicina.

— Il domicilio?

— Zurigo.

Ella rispondeva con voce breve e secca, quasi insofferente delle domande.

— Come vi trovate in questa casa?

— Venni a parlare con Alessio Petrovich.

— A parlare di che?

— Di cose che non riguardano la giustizia.

— O che la riguardano molto?

La donna non rispose.

— Siete sua correligionaria?

— Sì.

— Venivate a parlargli di affari politici?

Nuovo silenzio.

Il giudice, rimasto ad aspettare un poco la risposta, riprese con tono pacato:

— Vi avverto che le reticenze potrebbero anche nuocervi. Avete udito di che cosa siete accusata?

Ella alzò le spalle in atto di noncuranza sdegnosa.

— Chi accusate? Me, o Alessio Petrovich, o entrambi?

— Mi pare che adesso vogliate invertire le parti! Tocca a voi di rispondere. Siete soltanto correligionaria del principe?

— Non comprendo.

— Siete anche sua amante?

Ella guardò l’inquisitore con espressione quasi irosa, avvampando, senza dir nulla.

— Non volete rispondere neanche ora? Vi farò un’altra domanda. Dove eravate nel momento che quella donna moriva?

— Nello scrittoio del principe.

— Dove era egli?

— Con me.

— Conoscevate la morta?

— Non parlai mai con lei.

— Oggi la vedeste?

— No.

— Sapevate che viveva da anni insieme col vostro amico, che lo amava, che si amavano?

Il giudice, prolungando quella domanda sulla quale faceva assegnamento per leggere nell’anima di lei, non le toglieva gli occhi dagli occhi; ma ella rispose, impassibile:

— Sì.

— Sapevate se erano gelosi l’uno dell’altra?

— Non so.

— V’accorgeste che dopo essersi amati furono per lungo tempo discordi?

— No.

— Quando udiste il colpo che cosa faceste?

— Accorsi.

Il Ferpierre fu un poco insospettito da quella risposta. Se fosse stato vero che ella era col principe, non avrebbe dovuto rispondere: «Accorremmo?»

— Sola? — continuò a domandare.

— Con lui.

— Era già morta?

— Spirava.

— Perchè si sarebbe uccisa?

— Non so.

— Che disse il principe?

— Pianse.

— Quante volte siete venuta in questa casa?

— Due o tre volte.

— Le vostre visite non dispiacevano alla defunta?

— Non so.

— Conoscete il Vérod?

— Non so chi sia.

— È la persona che denuncia l’assassinio.

— Non lo conosco.

Il giudice lasciò allora d’interrogare.

— La vostra ignoranza è un po’ troppo grande. Procureremo di aiutarvi a rammentare. Resterete frattanto a disposizione della giustizia.

Ella andò via a testa alta, impassibile com’era rimasta durante l’interrogatorio; e il Ferpierre, seguendola con gli occhi, pensava che da quella parte non avrebbe nulla saputo. Egli ne aveva conosciuta più d’una, di queste Slave dall’anima misteriosa, di queste giovani che nel fiore dell’età, tra gli studii più severi, proseguivano con ferreo cuore un tragico ideale, e per esso, per assicurarne il trionfo, non solamente sapevano sfidare e vincere resistenze ed ostacoli, ma gettavano perfino la vita. L’oscurità che avvolgeva l’avvenimento, invece di rischiararsi, addensavasi; ma il giudice aspettava ora impaziente d’affrontarsi con quello che doveva pur esserne il principale attore.

Quando il principe gli fu condotto dinanzi egli ne considerò attentamente la figura. Era senza dubbio uno dei più belli uomini che avesse mai visti: alto, forte, agile, con le guance incorniciate dalla barba d’un biondo di seta, i capelli castani un poco diradati sulla fronte che pareva pertanto più ampia, la carnagione bianca, anzi pallida e quasi macerata come quella dei discendenti di razze elettissime, gli occhi azzurri e profondi sotto i puri archi delle sopracciglia, il naso aquilino dalle narici nervose, l’abito elegante, il portamento veramente principesco. A vederlo, tutti avrebbero riconosciuto in lui il gran signore e l’uomo galante, nessuno il rivoluzionario. Il suo viso, dapprima scomposto dall’ambascia in presenza del cadavere dell’amica, poi dall’ira all’accusa del Vérod, era adesso atteggiato ad una cupa tristezza.

— Voi siete il principe Alessio Petrovich Zakunine? Dove siete nato?

— A Cernigov, nel 1855.

— Foste mai condannato?

— Fui condannato alla relegazione in Siberia, per complotto; poi graziato e bandito dalla Russia.

— Non c’è un’altra pena più grave?

— Tutte le successive furono confuse in quella capitale per alto tradimento e regicidio.

— Ora udiste di che vi accusa il Vérod.

A quelle parole il sangue imporporò la faccia del principe, i suoi occhi tornarono a lampeggiare.

— Che rispondete?

Egli si strinse la fronte tra le mani, quasi a reprimere il suo corruccio; poi disse:

— È vero...

Confessava? S’incolpava? Riconosceva d’averla egli assassinata? Il giudice quasi dubitò di avere udito male, tanto gli pareva inverisimile che da un momento all’altro quell’uomo si disdicesse; ma il suo dubbio fu di breve durata, perchè Zakunine così precisava il proprio pensiero:

— È vero... l’ho uccisa io... è morta per me...

Egli parlava piano, immobile, con voce così sorda che s’udiva appena.

— È morta per voi e per mano vostra?

— Che importa? Sono io responsabile...

— Importa moltissimo, invece, e non ho bisogno, credo, di spiegarvi la differenza!... Voi confessate di averla spinta al suicidio, non d’averla uccisa materialmente? Come, perchè l’avreste spinta al suicidio?

— Perchè ero indegno di lei. Perchè la disconobbi. Perchè l’offesi.

— Non l’amavate più?

— Non l’amavo.

— E la piangete così?

C’erano infatti lacrime nella sua voce. Siccome lasciò cadere senza risposta la domanda del giudice, questi riprese:

— Voleste abbandonarla?

— L’abbandonai.

— Perchè tornaste a lei? L’amavate ancora un poco? Vi faceva pietà?

— Tanta.

— Come vi amò ella?

— Come io l’amai, un tempo.

— Foste felici?

Gli occhi del principe s’arrossirono.

— Ella vi amava ancora?

Egli rispose scrollando la testa, lentamente, disperatamente.

— Vi diede motivo di gelosia?

Alla nuova domanda rispose con un gesto dubitoso.

— Sapevate sì o no che nutriva un nuovo affetto?

— Lo supposi.

— Le rimproveraste mai l’amicizia per il Vérod?

A quel nome il principe s’accigliò e tornò a fremere.

— No, — rispose con voce sorda.

— Che cosa lo spingerebbe ad accusarvi?

— Non so.

— Il dolore? La gelosia?

— Forse.

— Da quanto durava la vostra amicizia con la contessa?

— Da cinque anni.

— Era libera quando la conosceste?

— Sì, libera: vedova.

— Dove l’incontraste?

— A Aberdeen, in Iscozia.

— Quanti anni aveva?

— Ventinove.

— Ora o allora?

— Ora.

— Non pensaste mai, neppure nei primi tempi, d’unirvi legalmente in matrimonio?

— Io disconosco questa legge.

— Ella non sofferse d’una situazione che per i suoi sentimenti cristiani doveva essere immorale e punibile?

— Ella si era impegnata dinanzi al suo Dio.

— Vivendo con lei, dormendo sotto lo stesso tetto, conoscendola intimamente, è impossibile che non abbiate visto prepararsi la catastrofe.

— Non vivevo più con lei. Venivo a trovarla talvolta.

— Dove è allora il vostro domicilio?

— A Zurigo.

— Quando veniste qui?

— L’altro ieri.

— Nulla vi fece sospettare il disperato proposito?

— Soffriva più del consueto.

— Vi chiese qualche volta di separarvi?

— Mai.

— Che cosa pensava delle vostre idee politiche, dei vostri atti?

— L’idea del riscatto umano l’infiammava, gli atti le repugnavano.

— Volle impedirvi di commetterli? Tentò di distogliervi dalla vostra attività?

— Più volte.

— In che modo?

— Dicendo che nell’amore, non nell’odio, consiste il rimedio.

— Voi la mettevate a parte dei vostri secreti politici?

— Un tempo.

— Ora non più? Cercò ella qualche volta di sorprenderli?

— Oh, mai!

— Che relazioni passano tra voi e Alessandra Natzichev?

— Pensiamo a un modo.

— Lavorate insieme alla propaganda?

— Sì.

— La defunta ebbe motivo di essere gelosa di questa donna?

— Nessun motivo.

— Null’altro fuorchè l’ideale comune vi lega? Non mentite; da queste carte sapremo la verità.

— Attesto che null’altro ci lega.

La sua voce pareva sincera.

— A vostra insaputa la giovane vi amerebbe e sarebbe stata per ciò secretamente gelosa della contessa?

L’interrogato tacque un poco prima di rispondere.

— No, — disse poi.

— Dove eravate quando udiste lo sparo?

— In camera mia.

— Nella camera da letto?

— Nello scrittoio.

— A che ora sarebbe precisamente avvenuto il suicidio?

— Alle undici e tre quarti.

— Che faceste udendo il colpo?

— Accorsi.

— La vostra compagna accorse dopo di voi? — domandò ancora il giudice, studiandosi di dare alla sua voce un tono di stanchezza quasi infastidita per nascondere l’importanza della domanda.

— Accorse con me.

Entrambi, da principio, avevano risposto al singolare, quando naturalmente avrebbero dovuto dire: «Accorremmo.» Il Ferpierre dava un certo peso a questo fatto, parendogli di poterne dedurre che i due non erano insieme come asserivano. Ma chi era presso la contessa? Chi mentiva? Su chi rivolgere i sospetti?

— Rammentate quando la defunta comprò quell’arma?

— La vinse a una lotteria tempo addietro.

— E le cartucce?

— Furono comprate quando volle esercitarsi a tirare.

— Allora, riassumendo, ella si sarebbe uccisa per i dolori che voi le cagionaste; perchè, sposatasi a voi senza riti, non potè sopportare il vostro abbandono? Però se amava un altro?... Voi avete confessato che sospettaste il suo nuovo amore... Perchè si sarebbe uccisa, se amava un altro? Da chi potevano venirle impedimenti ed ostacoli a una nuova felicità?

— Da sè stessa.

— Che intendete dire?

— I suoi sentimenti del dovere, del rispetto, dell’onestà, erano altissimi.

— Se voi sospettaste che volesse uccidersi, come mai non le toglieste quell’arma?

— Non sospettai.

— La sua donna ha detto invece che era da prevedersi!

— Ella godeva della sua confidenza, non io.

— Infatti, se eravate la causa dei suoi dolori!... Però costei non vi avvertì mai? Non vi disse mai di vegliare?

— No.

— Sentiremo ora da lei.

Il magistrato si decideva improvvisamente a metterli l’uno dinanzi all’altra.

Rammentando la relazione del giudice di pace, secondo la quale il principe al sopravvenire di Giulia Pico s’era turbato e aveva ricominciato a tremare nervosamente ed a respirare con ansia, il Ferpierre pensava che forse in lei Alessio Zakunine avesse visto un’accusatrice e che da ciò provenisse il suo turbamento. Ma ora, all’annunzio del confronto al quale stava per essere sottoposto, nulla rivelava nella sua espressione che la prova gli paresse temibile.

La donna, nella camera funerale, rendeva alla salma della padrona gli estremi pietosi ufficii prima che la trasportassero via: lavata la fronte e la guancia sanguinosa, ricomponeva i capelli, incrociava le mani sul seno, intrecciava alle dita la corona del rosario. La poveretta non vedeva ciò che faceva, così fitto velo di lacrime le appannava gli occhi. Vicino a lei la baronessa di Börne si dava ancora da fare, zelante e loquace: quando la familiare fu chiamata di là per poco non le andò dietro.

Due, tre volte dovette il Ferpierre ripetere le sue domande alla povera donna, talmente costei era stordita dal dolore. Giulia Pico, di quarantacinque anni, nata a Bellano, sul lago di Como, stava al servizio della contessa d’Arda da quando questa era ancora fanciulla, nella casa paterna, a Milano.

— Voi avete detto che la vostra padrona manifestò più volte il proposito di morire?

— Sì.

— Da quanto tempo?

— Da molto... da oltre un anno.

— Non rivelaste mai questo pericolo al suo amico?

— Sì.

Il giudice, come se la smentita non lo stupisse, quasi il principe non fosse presente, continuò a interrogare la familiare senza neppure voltarsi dalla parte dell’accusato.

— Quando glie lo rivelaste? In quali circostanze? Procurate d’esser precisa.

— L’anno passato, un giorno il signore stava per partire... la signora lo pregò lungamente di non lasciarla sola... Egli partì; allora ella pianse molto, molto: parlò della morte... Al ritorno del signore io gli dissi d’aver cura di lei.

— Che cosa avete da rispondere? — pronunziò freddamente il Ferpierre, rivoltandosi verso il principe e guardandolo fiso.

— Non rammento il fatto del quale parla, — rispose questi sostenendo fermamente lo sguardo del giudice. — Ho confessato i miei torti, più volte questa donna me li rappresentò. Forse intendeva mostrarmi il pericolo, ma non disse mai chiaramente che cosa aveva ragione di temere.

— Negli ultimi tempi, — riprese il giudice rivolto a lei, — parlava ella ancora del suo proposito?

— No.

— Come spiegate questo fatto? Non aveva tuttavia ragione di dolersi di lui?

— Il signore era più premuroso da qualche tempo.

— È vero ciò che dice costei?

— Non è vero. Se io avessi riconosciuto i miei torti, se ne avessi fatto ammenda, ella vivrebbe.

Riabbassato lo sguardo, egli parlava ora con accento di così sincero rimorso che il Ferpierre ne fu impressionato. Se la cameriera diceva che il suo padrone era ridiventato migliore, e se costui aveva prima taciuto e quindi anche negava questo fatto perseverando invece nell’incolparsi, l’accusa appariva meno fondata. Allora, se bisognava credere agli argomenti del Vérod, i sospetti dovevano piuttosto rivolgersi contro la giovane studente? Il principe voleva dimostrare il suicidio per salvare la compagna di fede?

— Della donna che era qui in casa, di questa Natzichev, che cosa pensava la vostra padrona?

— Non so. Non la vedeva.

— Pure sapeva delle sue visite? Le dispiacevano?

— Non so...

Parve al giudice che la presenza dell’accusato le impedisse ora di parlare liberamente.

— Lasciateci soli, — disse pertanto al Zakunine. Poi, quando costui, inchinata la testa, fu scomparso dietro l’uscio dove i gendarmi vigilavano, si avvicinò alla donna.

— Sentite, — riprese, piano ma vivacemente e in tono di persuasiva confidenza; — noi qui siamo dinanzi a un dubbio grave. Mentre le apparenze dimostrano che la vostra padrona si è uccisa, qualcuno asserisce che è stata assassinata. Nessuno meglio di voi può aiutare la giustizia a scoprire la verità. Voi pensavate che ella si fosse tolta la vita; ora che avete udito l’accusa non dubitate?

La donna giunse le mani, malcerta, confusa.

— Che dirvi, signore!... È una cosa di spavento!... Io non so...

— Che pensate del vostro padrone? Lo credete capace d’aver commesso un delitto simile?

Ella rispose dopo un minuto di esitazione, ma risoluta:

— No.

— Perchè dite così?

— Volle molto bene alla signora, quando si conobbero. Le volle un bene pazzo. La consolò dei suoi tanti dolori.

— Che dolori?

— Soffriva, era mortalmente inferma. A distanza di pochi mesi perdette il padre e il marito; restò sola al mondo. Il signor conte morì anche in un modo spaventevole, schiacciato sotto un treno.

— Ma il principe poi la maltrattò?

— Sì, offese le sue credenze, l’abbandonò; ma ciò non è una ragione per sospettare questa cosa orribile.

— Rammentate quando, come, perchè cominciarono i mali trattamenti?

— In Italia, quando il signore fu espulso dal nostro paese.

— Da quanto tempo?

— Dall’altro anno. La signora aveva tanto sperato che laggiù egli sarebbe stato migliore, più suo!...

— Vi furono diverbii tra loro?

— Non diverbii propriamente. La signora pregava sempre, quando chiedeva qualche cosa; il signore la lasciava dire, non rispondeva e faceva poi a suo modo.

— La tradì, anche?

— Non so. Chi può dire che cosa facesse nel lungo tempo che stava lontano!

— Diceste che da poco egli era diventato migliore. Da quanto?

— Da tre o quattro mesi.

— Come v’accorgeste del mutamento?

— Venne a trovarla dopo una lunghissima lontananza, quando credevo che non sarebbe mai più tornato.

— Veniva da Zurigo?

— Da Zurigo, credo.

— Restò a lungo?

— Pochi giorni, ma tornò poi molte volte ancora, a Nizza e qui. Pareva un altro. Pareva temesse di lei.

— Come spiegate il mutamento?

— Non posso dire. Forse riconosceva d’aver fatto male vedendola così triste e dolente...

— State bene attenta alla domanda che vi farò. Che cosa era per la vostra padrona il signor Vérod?... Dite quel che sapete. Bisogna scoprire la verità, punire i colpevoli se ce ne sono, vendicare la morte della povera signora se è stata assassinata. Volete che gli assassini restino impuniti?

— Vi dirò quel che compresi. La poveretta non mi parlò mai di lui. Una volta mi disse solamente: «Come è gentile il signor Vérod, è vero?...» Compresi che la sua compagnia, che la sua amicizia le erano molto gradite, benchè qualche volta lo evitasse...

— Come mai?

— Non so: alle volte pareva anzi che le dispiacesse, quasi che avesse avversione anche per lui. Ma era cosa passeggera...

— Forse temeva che il signor Vérod, come tutti gli uomini, non dovesse alla lunga trattarla con la delicatezza dei primi tempi?

— Non credo. Il signor Vérod è tanto buono! Forse temeva, sì; ma...

— Di che cosa?

— Di sè stessa.

— Allora, se ella aveva questa simpatia, e se il vostro padrone se ne accorse come voi, credete che egli divenisse migliore con lei per paura di perderla, per gelosia del Vérod?

Ella aperse le braccia e scrollò il capo.

— Non posso dire, signore.

— Della Russa, della studente, che cosa pensate?... Che cosa veniva a far qui?

— Stavano chiusi nello scrittoio del signore: non so che dicessero.

— Quante volte venne?

— Tre o quattro volte.

— Non avete mai sospettato che tra loro ci fosse una relazione molto intima... che fossero amanti?

— Non posso dire. Un giorno...

— Che cosa?

— La vidi che baciava la mano al signore.

— Non udiste che cosa dicevano?

— Parlavano russo, non potevo comprendere.

— Facciamo una supposizione. Ammettiamo che costei amasse il vostro padrone. Dovrebbe per conseguenza essere stata gelosa della contessa, è vero?

La donna rispose con una ambigua espressione del viso che poteva significare tanto ignoranza quanto consenso.

— Se sapeva della disunione, la sua gelosia non sarebbe stata però molto ragionevole... — soggiunse il Ferpierre, il quale si proponeva da sè stesso le obbiezioni e, nello sforzo di veder chiaro in quel mistero, annunziava tutti i pensieri che gli si venivano affacciando. — Seppe che erano in discordia?

— Non posso dire.

— S’accorse che ultimamente il principe era divenuto migliore per la defunta?

— Non so, signore.

— Quando se ne fosse accorta, se lo amava, la gelosia avrebbe potuto armarla?

Ma la donna non disse nulla, quasi comprendendo che il magistrato, più che interrogarla, non faceva oramai altro che parlare con sè stesso, che pensare ad alta voce.


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