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IX. Spasimo
VIII. La lettera



IX.

Spasimo.

Gli anni passarono, e la contessa Fiorenza d’Arda, il principe Alessio Zakunine e Alessandra Natzichev si cancellarono a poco a poco dalla memoria degli uomini. I proprietarii dei Cyclamens avevano pensato dapprima di mutare il nome della villa temendo che il triste ricordo non impedisse che altri la volesse abitare; ma, alla nuova stagione, un Inglese la richiese espressamente per la curiosità destata in lui dal dramma di Ouchy. Due anni dopo fu presa da una famiglia americana che non sapeva della morte nè del processo, e così il nome rimase.

La baronessa di Börne, assidua frequentatrice della Casa di salute, riferiva ai nuovi venuti la storia, con molta ricchezza di particolari, e i nuovi venuti stavano ad ascoltarla, indifferenti a quelle cose passate delle quali non erano stati spettatori e infastiditi anche dal suo monotono eloquio. A poco per volta anch’ella se ne dimenticò.

Suor Anna Brighton doveva esser morta a Stonehaven; il nome della contessa d’Arda si cancellava dalla croce del cimitero della Sallaz. Del principe e della giovane nihilista nessuno seppe più nulla dopo la liberazione: sicuramente essi erano tornati alla loro propaganda. Ai loro amori, anche? Era probabile: dopo l’eroico tentativo di salvarlo, Alessandra Natzichev doveva aver vista ricambiata da Zakunine la passione che ella gli portava. I giornali, pieni una volta delle notizie relative all’accusa che li minacciava entrambi, non parlavano più di loro; altre storie di altre passioni occupavano il posto già tenuto dal dramma di Ouchy.

Più degli altri il giudice Ferpierre, nonostante i nuovi processi e i nuovi misteri proposti alla sua indagine, ne serbò memoria: troppo grave era stato il suo dubbio, troppo penoso il dispetto di non aver saputo veder chiaro in quell’intrico. Cercando di giustificarsi agli occhi suoi proprii, egli pensava che, dopo la lettura delle memorie della contessa e l’interrogatorio del Vérod, aveva visto ed affermato la verità; poi il ricordo delle esitazioni, dei sospetti, dei tentativi ambigui ed infelici lo confondeva. Come non s’era mantenuto nell’opinione che l’accusa era tutta una costruzione dell’odio del Vérod? Una specie di sordo e assiduo rimorso l’occupò lungo tempo all’idea di avere spinto una innocente a un sacrifizio terribile; poi quel suo errore si confuse con altri, egli pensò che non c’era stata altra colpa da sua parte se non quella d’uno zelo soverchio nell’accertare l’accusa, e così anche per lui la memoria di quei fatti si venne alfine perdendo.

Roberto Vérod diceva a sè stesso che anch’egli avrebbe dimenticato, ma il tempo tardava a produrre l’usato benefizio.

Certe volte, quando un nuovo pensiero lo toglieva alle dolorose memorie, egli tremava perchè il pensiero nuovo era senza fine più grave. Dinanzi all’evidenza egli aveva dovuto riconoscere il proprio torto, ammettere l’ingiustizia delle proprie accuse, convenire che solo l’odio glie le aveva suggerite. Dinanzi alla prova palese egli dava ragione al severo giudizio del magistrato, sentiva d’avere anch’egli contribuito alla morte dell’infelice; e il rimorso che un tempo gli era parso atroce, ora quasi gli parea lieve. Egli non solamente non tentava di scagionarsi, ma insisteva con una specie di cupa efficacia nel confessare l’errore, s’incolpava acerbamente, accresceva il peso della propria responsabilità per tentar di sottrarsi a un pensiero senza fine più molesto: invano. Egli voleva pensare che l’amor suo aveva uccisa quella donna, per non credere che ella ne era immeritevole.

Tutte le ragioni da lui addotte contro l’ipotesi del suicidio gli stavano nella mente, irrecusabili. Era credibile che ella si fosse uccisa senza lasciargli un ultimo saluto? Se aveva fede in Dio poteva ella uccidersi? Qualunque fosse l’ambascia nella quale era ridotta, nonostante i propositi di morte, sul punto di metterli in atto la sua mano non doveva tremare? Il suo braccio non doveva ricadere inerte al pensiero di lasciare il triste esempio a lui che aveva riconciliato con la vita? Uccidendosi, non lo uccideva?

«Questo è particolarmente grave, nell’amore: che ciascun amante non è responsabile degli atti suoi proprii, ma anche di quelli ai quali spinge la persona amata.»

Erano le sue parole. Per uccidersi aveva dovuto dimenticarle. E le aveva dimenticate! La sua fede in Dio non era tanto salda quanto pareva, giacchè ella si era uccisa! Si era uccisa pensando a un’estranea, senza lasciare a lui la parola del commiato, ridandogli invece i dubbii ai quali aveva voluto sottrarlo!

Questa era la realtà. Egli era stato vittima di un’illusione, dell’eterno inganno dell’amore, attribuendo a quella donna le sublimi virtù che non possedeva, esagerando la bellezza di quell’anima sino a farne una perfezione oltre umana.

«Io dovevo sapere,» diceva egli a sè stesso tentando di reagire contro la tristezza del disinganno, «che la perfezione è fuor dell’umano; che gli uomini possono pensarla e cercarla, ma non raggiungerla mai. Questa certezza mi avrebbe impedito di esaltare oltre ogni misura quell’anima; questa persuasione deve ora temperare la mia sfiducia e impedirmi d’avvilirla oltre misura.»

Perchè, infatti, mutata la disposizione del suo spirito, egli accusava la memoria di lei non soltanto di debolezza, ma di menzogna e quasi d’indegnità. Prima d’uccidersi ella gli aveva pur detto che lo amava; ed era evidente che gli aveva mentito. Chi assicurava che non avesse mentito altre volte?... Come tutti gli acri umori latenti in un sangue corrotto si ridestano alla più lieve ferita e l’esacerbano e l’incancreniscono, così il disinganno era in lui alimentato ed accresciuto da una moltitudine di pensieri rodenti, dei quali non aveva prima avuto coscienza. Egli ora quasi si sdegnava e si scherniva per aver fatto un ideale di perfezione d’una donna vissuta fuor della legge.

Non era vissuta fuor della legge? Il suo legame col principe non era indegno? Che valor dare all’impegno che ella sosteneva d’aver preso secretamente con sè stessa? Si poteva credere che fosse stata sincera nel prenderlo, o non aveva tentato con quell’asserzione di riscattarsi agli occhi altrui ed ai proprii dopo aver misurato la gravezza della sua colpa? Si poteva credere che ella si fosse data a quell’uomo per esercitare il gratuito ufficio di redenzione? Se almeno, senza la chimera della redenzione, senza la fede nella durata del patto, ella avesse amato d’amor puro! Ma il dolente negava anche questo; egli non poteva concedere che un uomo come Zakunine ispirasse una passione sincera. Sanguinario e tirannico mentre predicava la pace e la libertà, intento a godere avidamente mentre diceva di gemere alle sofferenze degli altri; cupido, dissipatore, infedele, bugiardo, colui non poteva essere amato nobilmente; poteva esercitare un fascino perverso, una curiosità malsana, una brama servile. Servile, malsana, perversa era stata la passione di quella donna.

La gelosia impotente, l’umiliato amor di sè stesso facevano accogliere al Vérod questi pensieri. Vivendo Fiorenza d’Arda, egli non li aveva concepiti; finchè aveva potuto vedere nella sua morte l’opera d’un assassino, finchè ella gli era apparsa cinta dell’aureola del martirio, nessun sospetto aveva potuto contaminarla; sentendosi amato, d’amor puro e fidente l’aveva ripagata. Ora egli scopriva che l’amore di lei non era stato verace. Se l’avesse realmente amato, avrebbe potuto lasciarlo così? Per trovare nel legame con Zakunine un impedimento tanto grave alla felicità, non doveva ella sentire ancora qualche cosa per costui? Era morta per restargli fedele! La nozione dell’astratto dovere può avere tanta forza se non si accorda con un sentimento concreto, con un interesse tutto personale e presente?... Il bugiardo pentimento di Zakunine, la mentita resurrezione d’un amore che non era mai stato credibile, avevano ridestato in lei la servile passione d’un tempo, e comprendendo la viltà del proprio servilismo, ma non potendola vincere, ella si era data la morte!...

Così egli vedeva corrompersi e a poco a poco dissolversi in putredine la figura già sollevata sopra un altare. Ma allora le profetiche parole di un giorno lontano gli tornavano tutte alla memoria:

«Troppo a lungo io sono vissuta fuor della legge perchè possa sperare di rientrarvi. Voi non vorrete crederlo, ora, e siete sincero; ma sarete egualmente sincero più tardi, credendolo. Il sentimento indelebile della mia decadenza deve contendere la vita alla fede, ora in me soltanto, più tardi anche in voi...»

Ed egli restava sovrappreso da un immenso stupore angoscioso vedendo finalmente avverarsi la profezia, comprendendo di non avere più il diritto di togliere la sua stima alla morta, se ella stessa, dolorosamente, umilmente, contro la fervida fiducia di lui, aveva riconosciuto la propria indegnità.

Egli si era ribellato, allora, pieno il cuore di reverenza; ora doveva riconoscere che ella non s’ingannava. Ella antivedeva l’avvenire immancabile: logicamente, fatalmente questo risultato doveva prodursi: «Verrà il giorno che mi giudicherete come io stessa mi giudico.» Non era quasi venuto in vita della infelice? Il giorno del loro ultimo incontro, quando ella gli aveva parlato dell’uomo al quale era legata, che tornava a volerla sua, l’impeto dell’odio contro Zakunine e l’insoffribile sentimento dell’impotenza del proprio amore non lo avevano quasi rivolto contro di lei?... «Sia come volete,» le aveva detto, «ma costui vi lascerà ancora una volta.» Il suo pensiero non era andato oltre quelle parole? La concitazione dello sdegno non lo aveva quasi spinto ad afferrare la mano di lei per dirle duramente: «E per un suo pari vi negate a me? E dopo esservi perduta per lui, per lui rifiutate di riscattarvi?...» Alla fosca luce di questi pensieri egli rivolgeva dubitosamente a sè stesso un’altra, una più ansiosa domanda:

«Ella ha dunque ben fatto, uccidendosi?»

Se un germe velenoso insidiava la vita dell’amor loro, era dunque meglio che fosse morta? Se ella aveva compreso che, volendola sua, ei pensava di riscattarla, di fare un atto generoso, non per fedeltà a Zakunine gli aveva resistito e si era uccisa, ma per la disperata certezza d’un malinteso fatale all’amor loro? Morta per lui, egli presumeva ancora di giudicarla? Se credendola vittima dell’altrui ferocia le aveva dato tutta la pietà del suo cuore, una più trepida pietà, la pietà alimentata dal rimorso, non doveva darle ora che il volontario sacrifizio l’aveva riabilitata?

Tutta la severità dei suoi giudizii si ritorceva allora contro sè stesso. Chi era egli che presumeva condannarla? E perchè l’aveva condannata se non perchè gli si era sottratta? Che altro se non la passione dell’egoista, l’inappagata rapace passione lo faceva severo contro la memoria di lei? Null’altro se non il sofisma della presuntuosa passione gli diceva che l’impegno da lei preso non era valido e che dimenticandolo per mettersi con lui ella sarebbe stata nell’onesto e nel giusto! Egli che la voleva perfetta non aveva, come tutte le creature umane, più di tante altre, le sue debolezze e le sue colpe?

Da questi opposti pensieri usciva finalmente rassegnato alla realtà inesorabile, disposto a riconoscere che se la povera morta non era stata così bella come l’amorosa fantasia glie l’aveva dipinta, non era stata neppure così trista come l’aveva veduta nel rancore dell’abbandono. Nondimeno egli restava mortificato e dolente. La rinunzia alla perfezione imaginata gli era grave. Egli diceva a sè stesso che nessuno al mondo è perfetto; ma perfetta voleva poter credere ancora la sorella sua d’elezione. E tutti i suoi sforzi per glorificare, o almeno per legittimare il volontario sacrifizio restavano vani.

Non era vero che dandosi la morte ella si fosse redenta. La redenzione è nella vita, non nella morte. La morte non risolve il problema morale, lo evita. Non volendo o non potendo accettare di essere, come egli aveva sperato, la donna sua, ella aveva una via da seguire: fuggirlo, sparire, ma senza rinunziare alla vita.

Non era questa la via?

Egli restava esitante, dubitoso, ansioso. Per l’efficace virtù dell’esempio, il suo giudizio intorno ai massimi problemi umani era stato illuminato e sicuro. Questo prodigio ella aveva compito: di farlo uscire dai dubbii, dalle incertezze, dallo scetticismo dei quali prima viveva. Ella era stata la sua fede. Egli era rimasto abbagliato dalla luce dei suoi pensieri, si era sentito guidare con ferma mano per l’intrico delle contraddizioni, degli inganni, degli errori; aveva saputo che cosa credere, che cosa negare. Ed ecco a un tratto ripiombava nell’esitazione. Doveva ella vivere? Doveva morire? Come risolvere il formidabile dilemma di vivere errando o di morire per evitare l’errore? Hanno gli uomini il diritto di disporre della loro esistenza? Se questo diritto è loro conteso, Chi lo contende?...

Al cielo che un tempo egli aveva sentito vuoto, deserto, impenetrabile, fiduciosamente aveva rivolto lo sguardo vedendolo mirato da lei. Ora non sapeva, o peggio, aveva paura di saper troppo. Ella si era uccisa! Non aveva avuto paura del giudizio di Dio! Non aveva pensato alla salvezza dell’anima, non aveva creduto alla sua vita avvenire: si era uccisa perchè con la morte tutto finisce.

«Non c’è dunque nulla? nulla?...»

La sua domanda restava senza risposta, inascoltata.

Per la sola virtù della vista di lei, egli aveva già mirata, udita, compresa l’anima del mondo; voci misteriose dicevano cose memorabili; tutto viveva, palpitava e riluceva. Ora il silenzio e l’oscurità tornavano a premere d’ogni intorno. Ciò che prima aveva un senso evidente o recondito restava muto.

Tanto profonda e sincera era stata la sua conversione, che talvolta lampi dell’antica fede tornavano a rischiararlo; poi le tenebre si chiudevano, più fitte. E nelle alternative del dubbio egli ritrovava con un muto e disperato terrore il vecchio uomo che aveva creduto di seppellire dentro sè stesso. Come prima di conoscerla, il suo pensiero era oscuro, confuso, perduto. La miracolosa fioritura che aveva occupato ogni piega dell’anima sua s’avvizziva e sfrondava. Il chiuso cuore anticamente acquetavasi nella sua aridità; ora invece, dopo il benefizio, restava amareggiato da un rancore infinito.

Egli viaggiò. Vide altre terre, altri uomini, sperando disperdere il suo dolore lungo le vie del mondo; ma nulla valse a placarlo. Dinanzi alla tomba della sorella, a Nizza, pianse d’un pianto cocente che non fu lenimento, ma fuoco nuovo. Sul lago non era più tornato. Una mortale paura l’occupava al pensiero di rivedere i soli luoghi dove potesse dire di avere realmente vissuto. Credeva di morire soffocato rivedendo le rive di Ouchy, le pendici di Losanna, la villa dei Ciclamini, il bosco della Comte, le umili cappelle, il panorama del Lemano velato di nebbie o sorriso dal sole. Pure un giorno egli andò.

Ritrovò quelle prode quali le aveva lasciate. L’impassibilità della eterna natura lo ferì come un insulto: se almeno qualcosa fosse stata distrutta sulla terra, se almeno egli avesse ritrovato intorno a sè le tracce d’una devastazione simile a quella patita dentro di sè!

I monti secolari, le acque perenni, voraci sepolcri di viventi, restavano immutabili. Egli veniva riconoscendo ogni passo del cammino, ogni particolarità della vista. Con la disperata certezza che nessuna potenza avrebbe potuto compiere mai il miracolo di ridargli ciò che aveva perduto, egli pur figgeva intorno lo sguardo e porgeva intento l’orecchio, quasi un’apparizione, quasi una voce potesse suscitare lo svanito bene.

E una sera che dalla finestra della sua stanza contemplava le sommità della Dôle dietro le quali il sole scendeva radiosamente, egli trasalì al suono d’una voce che parlava dietro di lui.

Era zimbello d’un’allucinazione? Non sognava ad occhi aperti?

Il principe Alessio Zakunine gli stava dinanzi.

— Roberto Vérod, — diceva la voce, — non mi riconoscete?

Un brivido di raccapriccio gli passò per i nervi come alla vista di uno spettro. Che cosa voleva quell’uomo da lui? Perchè veniva a cercarlo?

— Voi sapete chi sono? Non m’aspettavate, però! Sono venuto da voi perchè ho una cosa da dirvi.

Parlava a capo chino, sommessamente. Vista di scorcio, dalla fronte troppo ampia alla punta del mento, la sua faccia appariva incisa da rughe profonde; i capelli ancora più rari erano imbiancati sulle tempie; tutta la figura portava impressi i segni d’un rapido decadimento.

Il Vérod restava a considerarlo, come affascinato, incapace di rispondere una sola parola, di veder chiaro nel tumulto di sentimenti che gli si scatenava nell’anima.

— Ho da dirvi una cosa. Volevo dirla al giudice Ferpierre, ma ho pensato che prima mi convenisse rivolgermi a voi....

Dopo una pausa, riprese:

— Uditemi, Vérod: Fiorenza d’Arda non si uccise. Io l’assassinai.

Il giovane si passò una mano sulla fronte, sugli occhi. Ancora una volta, ora anzi più che nel primo istante, egli non era ben sicuro di essere desto.

— Non mi credete? Eppure voi foste così presso alla verità! So che l’affermaste contro tutto e tutti, che per poco non riusciste a dimostrarla. È vero che molte circostanze, una principalmente, furono contro di voi. La lettera a suor Anna parve dire l’ultima parola sulla sorte di lei. Questo ingannò la giustizia: che ella era veramente sul punto di darsi la morte, quando io stesso l’uccisi. Io vi dirò come l’uccisi....

L’uditore tremava quasi invaso dal ribrezzo della febbre.

— Io vi dirò le mie infamie; sarà il principio del punimento. Io la disconobbi, sempre. Mai finchè ella visse io compresi tutta la bellezza dell’anima sua. Nessuna bellezza io compresi; il mondo e la vita mi parvero destituiti di questa qualità. Avevo un inferno dentro di me, nulla poteva spegnere le fiamme che mi investivano. Tutto ciò che io toccavo s’inceneriva. Ella mi amò di pietà: l’istinto, il bisogno, la voluttà del sacrifizio la diedero a me. Senza comprenderla, io fui un momento abbagliato dalla sua luce. Non potendo sostenerne la chiarezza, torsi lo sguardo. E la derisi e l’offesi.

Tacque un poco guardando dinanzi a sè, come cieco; poi ricominciò:

— Udite. Quando io vi avrò detto tutto, sentirete che le mie parole meritano fede. Nei primi tempi della mia fortuna io mi sentii un altro uomo. La natura e la vita mi fecero così da trascorrere dall’uno all’opposto sentimento con fulminea violenza. Chi sa ciò che ho fatto nel mondo potrà pensare che forse talvolta la voce del bene mi guidò. Ma io non ne avevo coscienza. Se col pensiero intervenivo a giudicare le azioni mie e le altrui, tutto riducevo a un meccanismo, a un giuoco d’impulsi ciechi e fatali. Io non potevo pertanto credere al mutamento operatosi in me per virtù sua. Non derisi lei soltanto, derisi me stesso... Io dovrei anche dirvi quale fu, giorno per giorno, ora per ora, l’opera mia spaventevole; come alla costante, infaticabile, divina sua predicazione di amore e di bontà opposi lo sprezzo, l’insulto, il tradimento. Ma voi sapete queste cose. E poi, e poi... Tutto quanto l’odio vostro contro di me vi suggeriva è troppo poco; ciò che io le feci fu incredibile. Talvolta, quando con parole avvelenate e corrosive io profanavo, vilipendevo, distruggevo la sua fede; quando le dimostravo che nulla esiste fuorchè il male, che i soli rimedii sono il ferro, il fuoco, la morte; quando la incitavo a lasciarmi, a tradirmi, a perdersi, sentivo una reazione violenta operarsi dentro di me e il pianto salirmi alle ciglia; ma le nascondevo il pianto mio. Quando voi la conosceste, quando compresi che ella cominciava ad amarvi, il mio petto si dilatò dalla gioia. Vedere che la sua vantata eternità dei sentimenti si dimostrava bugiarda, prevedere che ella sarebbe caduta come cadono tutti, poterle dire: «Hai visto? Dove sono le tue leggi morali? Anche tu fai, come gli altri, il tuo piacere!» mi colmava di giubilo... Io mi davo tutto, frattanto, all’opera che doveva abbattere la vecchia società, nel mio paese e negli altri. L’ultimo tentativo mi pareva destinato a riuscire; già pregustavo il trionfo. Avevo lungamente preparato ogni cosa, ed incitato all’azione i pigri, i titubanti, i paurosi, e dato quasi tutto ciò che restava della mia sostanza, senza pensare alle difficoltà che avrei incontrate più tardi. Dovevo partire e sarei partito anch’io, se non mi avessero costretto a restare per preparare una nuova azione in caso di rovescio. E un giorno io seppi che i miei fratelli erano uccisi, pendevano dalle forche, cadevano sulle vie dell’esilio sotto la sferza degli aguzzini; io seppi che le donne, che i fanciulli salivano il patibolo, che tanti innocenti pagavano per me, che il terrore imperversava su tutta la gente della mia razza: un giorno io mi ritrovai, dinanzi a tante rovine, con la paura d’avere sbagliato la via, solo e quasi povero. Allora, improvvisamente, sorse dentro al mio cuore come un bisogno, come un’ansia, come una sete ardente di soccorso; allora io quasi stesi la mano per trovare al mio fianco un appoggio; quasi mi protesi a udire una parola di consolazione... La consolatrice esisteva. Non dovevo far altro che andare da lei, che aprirle il mio cuore. Forse sarebbe stato ancora tempo. O forse no: era già troppo tardi. Troppo tardi! Sapete voi che cosa significano queste parole?... Un pensiero di superbia mi arrestò. Dovevo io supplicare? Pure sentivo che in questa crisi della mia vita nulla sarebbe valso a guarirmi come l’amore, nulla avrebbe pagato l’amore di una creatura come lei. Le tornai vicino. Non dissi nulla. Il mio contegno doveva dimostrare tuttavia ciò che avveniva dentro di me. Troppo tardi!... Troppo tardi!... Noi possiamo penare ed accettare la pena, possiamo disperare e vivere nella disperazione, ma all’idea che la felicità era possibile, che la fortuna ci passava d’accanto, che dovevamo soltanto stendere una mano, dire una sola parola per ottenerla; e aver distesa la mano e proferita la parola — troppo tardi! — a questa idea il nostro cuore non regge... Ella non era più mia; era vostra. Come ebbi questa certezza, ricominciai a ridere e deridere. La fuggii; ma dovetti tornare. Al suo fianco, quantunque mi dimostrassi pentito e convertito, ero insofferente della soggezione; lontano da lei sentivo di non poter vivere. Così trascorsi gli ultimi mesi, alternando le fughe con i brevi ritorni. A Zurigo io vivevo per parlare di lei ad un’altra infelice, ad Alessandra. Alessandra Natzichev è morta...

Il Vérod era stordito. No, egli non sognava; ma la realtà aveva tutti i caratteri del sogno. L’uomo che gli stava dinanzi somigliava all’orgoglioso ribelle come le pallide imagini dell’incubo somigliano alle persone vive. La Natzichev era morta? Come, perchè era morta? Anche l’ora e la luce erano innaturali, la sera gialla illuminava stranamente la stanza, le cose, la faccia scialba del principe.

— Io confidavo il mio tormento ad Alessandra. E Alessandra mi amava, senza che me ne accorgessi neppure! Ciò la vita ha voluto: che le nostre anime, che queste quattro creature umane si siano incontrate per patire uno spasimo ineffabile; e nessuno ha saputo quel che l’altro soffriva, o l’ha saputo ancora e sempre troppo tardi! Quando io provavo per Alessandra un affetto fraterno, quando dalla solitudine nella quale era piombata, dalla forza che la rendeva capace di sopportare e vincere le difficoltà della vita, io fui persuaso a proteggerla, a sostenerla, come una sorella, come una figlia, ella doveva accendersi per me d’un più cocente amore! Se pure io mi fossi accorto dell’amor suo, avrei potuto farla felice? A lei potevo soltanto confidare i miei ardori per un’altra!... Ella tentò guarirmi richiamandomi al dovere di servire la causa: volli ascoltarla, invano. Il pensiero di riacquistare l’amore già sdegnato occupava e dirigeva tutta la mia vita. Dopo averlo sdegnato, mi pareva che questo amore avesse un prezzo inestimabile. È giustizia!... A Fiorenza nulla dicevo: nel tempo che venivo a trovarla passavo i miei giorni tremando di scoprire che, come non era più mia con l’anima, così già si fosse data a voi. Pensavo, per non credere questa cosa orribile: «Ella sente tanto altamente che non la farà mai!» Dentro di me una voce rispondeva: «Ora tu credi a quelle morali altitudini delle quali prima ridevi?» Ne ridevo, prima. E non le credevo ancora! La fiducia che ella non mi tradisse non era tanto alimentata dalla stima che avevo di lei, quanto dall’impossibilità di credere che tutto fosse proprio finito senza riparo tra noi. Sentivo che il mio ritorno e il mio ravvedimento le davano ansie mortali, e ne godevo sperando di recuperarla... Starle al fianco e non poterle prendere la mano! Ricordare il passato e disperare di riviverne un’ora sola!... Di tutto ciò che sentivo non potevo dir nulla. Ancora la superbia mi tratteneva, e un altro motivo, meno tristo. Io ero povero ormai; ella ricca: parlare ancora dell’amor mio non poteva essere una menzogna suggerita dal calcolo?... Un giorno parlai. Le dissi: «Ti ho perduta, ti ho voluta perdere; sento che la mia colpa è irreparabile. Ma se tu sapessi che cosa accade dentro di me! Ti chiedo per grazia di non abbandonarmi in questo momento che tutto mi crolla intorno. Più tardi farai ciò che vorrai...» Quel giorno, il giorno della tempesta, parlaste anche voi. Ella fu presa tra le nostre due passioni. Deliberò di morire. M’aveva risposto: «Non vi abbandonerò mai perchè sono la sposa vostra; ma pensate che l’amore è morto.» La sua voce era fredda e il suo sguardo mi evitava. Quando compresi che anche voi avevate parlato, sentii che non era sincera, che mi nascondeva qualche cosa. Ma temevo che pensasse di fuggire; non sapevo, non credevo che avesse deliberato di morire: ella mi era ignota ancora!... Passai una notte tremenda. Vegliò anch’ella. Cento, mille volte fui sul punto di andarle dinanzi; ma la sua soglia mi era vietata. Il domani venne Alessandra a cercarmi, a chiamarmi, presaga d’una catastrofe. Le promisi di partire, ma prima volli ancora una volta passare da lei. Udendomi entrare ella nascose precipitosamente qualche cosa. Vidi che era l’arma. Così fu presa tra le nostre due passioni: da voler morire per liberarsi!... Sentivo di non avere il diritto di parlare, d’essermi intruso presso di lei, di doverla lasciare al suo destino, alla libertà, alla morte; ma non potevo. Quest’idea: che fra due esseri già stati l’uno dell’altro non ci fosse più nulla, più nulla, che io fossi peggio d’un estraneo per lei, non poteva entrare nella niente mia. E la voce secreta diceva: «Prima tu credevi che l’amore fosse l’incontro fugace di due capricci, prima tu ridevi dei legami indissolubili...» Io non potevo concedere che ella fosse d’un altro, sia pure col solo pensiero. Io che avevo tradito non potevo ammettere che sarei stato tradito a mia volta. La mia superbia era sconfinata, non tollerava che qualcuno valesse più di me. E come comprendevo che voi avreste saputo farla felice, la superbia, l’amore, la gelosia, tutti i sentimenti, tutti gl’istinti selvaggi della mia razza, della mia natura, insorgevano, formidabili. «Tu promettevi pur ieri di non lasciarmi,» le dissi con voce amara, «perchè sei la mia sposa, e vuoi ora ucciderti!...» Ella non negò, «Lasciatemi morire,» rispose: «sarà meglio per tutti.» C’era nella sua voce qualche cosa che non conoscevo: l’amore per voi, il rancore di lasciare la felicità che da voi si riprometteva. «Non puoi dunque più tollerare la mia vista? T’incresco a tal segno?» Dissi queste parole, e molte, molte altre ancora. Ella rispose soltanto: «Di chi fu la colpa?» Udite: fu questo il primo rimprovero che mi volse dopo lunghi anni di dolore. «Ebbene,» replicai, «io sparirò: parto oggi stesso, fra poco, nè ti verrò mai più dinanzi. Vuoi ancora morire?» Mi disse: «Sì.» Ebbi paura di comprendere, pure domandai: «Perchè?» Le sue parole non mi significarono nulla che io già non sapessi: «Perchè, se vivo, sarò sua.» Sua, vostra, d’un altro!... Una vampa m’accese gli occhi e la fronte. «Non è possibile, non sarà!...» Ella scosse il capo. «Non dir di no!» insistetti. «Non dir di no!... So bene che non mi ami più, che mi odii, che mi esecri; ma non dirmi che ami un altro, perchè... perchè...» Disse: «L’amo.» Allora scongiurai. Piansi anche. Ella ripetè: «L’amo. Non si deve mentire, non si può fingere. L’amo: perchè questo amore mi è vietato, io muoio.» Allora risi, la schernii: «Chi vuol morire non lo dice!... La parte è tuttavia bene rappresentata!...» Vedo ancora lo sguardo suo stupito. «Non mi credete? Non credete che ho già preso commiato dalla sola persona che mi piangerà sinceramente?...» Le dissi: «Da lui?...» Ella aveva invece scritto a suor Anna. Ed al mio sospetto, al tono d’ironia col quale lo espressi, non si sdegnò; mi corresse soltanto: «Da suor Anna.» Io soggiunsi, sempre irridendo: «E la salute dell’anima?» A queste parole si nascose il viso tra le mani. Di repente presi le sue mani, tentai d’attirarla al mio cuore. «No, non morrai; tu vivrai per me, con me...» Si levò di scatto, ritraendosi: «Non mi toccate!» Io sentii l’immenso amore cozzare contro un odio implacabile. «Bene! Vi faccio orrore,» le dissi. «E lo amate! E, se pur vorreste, non potete uccidervi perchè avete paura del giudizio del vostro Dio. Voglio io farvi uscire da questa pena!...» E, prima ancora che ella avesse tempo di considerare ciò che facevo, le tolsi l’arma nascosta dietro i suoi libri. «Così non vi ucciderete, non affronterete l’ira del Dio: e potrete anche correre alle nuove carezze.» Da questo momento io non la riconobbi più. Si guardò intorno come smarrita, come perduta, come incalzata da una torma vorace ed ululante; poi mi guardò. I suoi occhi erano illuminati da un riso di gioia, da un sorriso di scherno. «Ah, voi credete?... Voi proprio credete che io volessi morire?... Come lo avete creduto?... Portate via l’arma! Non la morte, ma la vita e la gioia mi aspettano... Andate, lasciatemi: egli ora verrà!...» Anch’io mi guardai intorno, sgomento; la mia mano armata tremava. E come nello sguardo mio era una domanda, ella la comprese: «Egli verrà: sono sua!...» La vampa mi salì più gagliarda agli occhi e alla fronte. «Taci!» le ingiunsi. — «No, non voglio tacere; non posso!... Io l’amo, sono sua!» — «Taci!» le ingiunsi anche una volta. — «No, non voglio tacere!... L’amo, e ti odio e ti disprezzo. Tu m’hai fatto tanto male che avevo il diritto di prendere finalmente la mia rivincita! Nessuno può condannarmi!...» — «Taci!» ingiunsi la terza volta. — «No, non posso tacere! Mi condannino pure: che importa? Tutto l’essere mio ha bisogno di espandere la gioia della quale è finalmente saturato. Io voglio gridarla a tutti, voglio a tutti mostrare la felicità che inonda l’anima mia!...» — «Sei folle!» le gridai. — «Sì, dacchè sono sua!...» No, ciò non era possibile; se fosse stato vero, se avessi dovuto crederlo, sarei impazzito io stesso. «Non è vero! Non ti credo!» le dissi. Ella rispose, attonita, ilare: «Non credi? Come farti credere?... Ascolta, se non fosse vero, avrei voluto morire? Tu mi hai trovata con l’arma dinanzi, ho pure mandato una lettera d’estremo saluto; ero sul punto di scrivere il mio testamento; poi avrei scritto a lui. Credi che volessi, che potessi lasciarlo così? Ma senza il rimorso della colpa avrei pensato alla morte? Se non fossi caduta avrei continuato a vivere come ho vissuto finora! Ho voluto morire credendo d’aver peccato; ora non più, non più, non più!...» — «Tu hai fatto questa cosa?» — «L’ho fatta e tornerò a rifarla. L’amo, è mio, per sempre; vuoi sapere da quando? Vuoi saper come?...» — «Taci! Non mi provocare!» — «No, non ti provoco; che cosa m’importa di te? Chi sei tu? Che fai qui? Chi ti ha dato il diritto d’entrare qui? Lévati, lasciami: m’aspetta, ti dico... Vuoi farmi paura?... Ah! Ah!» L’occhio mio doveva essere spaventoso; ed ella rideva! ed ella insisteva: «Non ti temo! Che puoi farmi?» Io proruppi: «Ti uccido!» Ella aperse le braccia, alzò la testa, protese il seno: «Uccidimi; sarò sua fino sotterra.» — «Taci, o ti uccido!...» — «Fino sotterra! Non c’è un solo pensiero della mia mente, non un palpito del mio cuore, non un moto dell’anima mia, non una fibra della mia carne che non sia sua...» Levai l’arma. Il suo sguardo sfolgorava, la sua voce cantava: «Nella vita, oltre la morte, sola di lui...» Il colpo partì....

Roberto Vérod, che alla narrazione del dramma aveva tremato di dolore, d’orrore, di pietà, di rimorso impotente, d’odio mal contenuto, fece un passo innanzi levando il pugno e gridò:

— Assassino!

Il principe sostenne il suo sguardo rispondendo:

— Colpisci.

Restarono così, affrontati, un tempo che nessuno dei due potè valutare. Poi il braccio del Vérod ricadde: con voce più sorda, fremente, egli ripetè:

— Assassino!

— Sono venuto perchè facciate giustizia. Ciò che voi farete sarà giusto. Però datemi ancora ascolto un istante. Quando la vidi cadere, quando vidi il sangue suo grondare dall’orribile piaga, un urlo mi uscì dal petto. Ella viveva ancora. Visse per dirmi le sue ultime parole. Uditele: «Ho mentito, per morire... Io non potevo... Grazie... Perdono...» Queste furono le ultime parole sue. Io volli morire con lei. Avevo l’arma in mano, la rivolsi contro me stesso; ma qualcuno afferrò a un tratto il mio braccio come con una tanaglia. Alessandra mi era dinanzi: «Tu vivrai! Devi vivere! Devi salvarti!... Lasciami fare!...» Non comprendevo. Ella metteva l’arma accanto alla morta, studiava come disporla, ne traeva una cartuccia. «Si sarà uccisa, secondo aveva annunziato: tutti lo crederanno...» Già voci e rumori di passi si avvicinavano. «Intendi? Se sospettano, lascia rispondere a me; conferma in qualunque caso le mie risposte. Pensa al Dovere! Pensa alla Causa! Pensa a me che ti amo, che ti voglio, che ti saprò fare felice!...» Non comprendevo. Correvo a chiamare soccorso, sperando che ancora vivesse. Perchè nascondere la verità? Dire la verità era il mio primo impulso. Se non la dissi tosto, ciò fu perchè non comprendevo ancora: non udivo le domande che mi rivolgevano, rispondevo meccanicamente, come in sogno. Ebbene: quando voi ci lanciaste in faccia l’accusa, allora io mi ribellai. Tale ero, ancora. Il mio pensiero, il mio sentimento, erano governati da queste improvvise reazioni. Accusato, da voi, mi difesi. Tutto ciò che potei dire contro di me lo dissi, riconobbi d’averla spinta alla morte, ma negai l’atto estremo. Più volte nel corso degli interrogatorii fui per confessare; ma al vostro nome, alle durezze del giudice io m’impennavo. Dal bisogno di straziarmi, di morire, di espiare che mi occupava nei primi momenti, passai all’ansia della liberazione; come una fiera imprigionata non ebbi altro impeto che quello di rompere le mie catene, di correre all’aperto, di tornar padrone di me. E secondai le dichiarazioni di Alessandra senza comprenderle; e quando ella s’accusò, quando la compresi finalmente, quando vidi che si perdeva per amor mio, allora accettai il sacrifizio, naturalmente... Fummo liberi entrambi. Nel punto che fui libero, che la menzogna trionfava, io mi proposi di dire la verità. Ma tacqui ancora, perchè dentro di me, nella lunga notte della mia mente, già l’alba d’un nuovo giorno spuntava. Alessandra credeva di vegliare su me perchè mi restava vicina, perchè mi parlava. Non la vedevo: non l’udivo: una muta e invisibile anima governava ormai la mia vita...»

S’interruppe un momento alzando gli occhi al cielo della sera. Il cielo si era placato, le vampe gialle erano scomparse; colorazioni rosee e verdi, purissime, schiarivano l’occidente.

Egli riprese:

— Il rancore, l’odio, l’invidia, la cupidigia, tutte le insanie delle quali ero vissuto m’apparvero finalmente nella loro fosca luce. Il sangue che avevo fatto spargere non mi aveva detto ancora nulla; bisognava che io stesso spargessi il sangue d’una vittima, d’una martire, per comprendere la legge d’amore. Tutti gl’insegnamenti di lei, un tempo sdegnati e derisi, mi tornarono alla memoria. La semente che pareva perduta fruttificò. Credete che ella sia morta?

La voce del penitente era così dolce, che Roberto Vérod sentì il suo cuore tremare.

— Ella vive in tutte le cose belle, in tutte le cose buone; parla ancora in noi, e ci consiglia. Ella m’ha detto di venire da voi. Voi che l’amaste, che ne otteneste l’amore, saprete che cosa fare di me.

Aspettò che il Vérod rispondesse, ma come questi era incapace di dire una sola parola, riprese:

— Voi non potete uccidermi, voi che sapete la sua legge del perdono. Ma debbo io ancora vivere libero? Basterà che mi sia ricreduto e che abbia occupato questo tempo a cercare di riparare il malfatto? Della conversione mia non debbo dare al mondo la prova e la misura? E per meritare veramente d’essere perdonato non debbo espiare?... Ho due partiti dinanzi a me. Io posso consegnarmi o alla giustizia di questo paese, per scontare qui dove uccisi la pena del mio delitto; o alla giustizia della mia patria, alla quale ho da rispondere di altre colpe. Volete voi dirmi quale vi pare il partito migliore?

Roberto Vérod non rispose. Che consigliare? E con quale diritto?... Egli era così pieno di dolore che il suo giudizio ne rimaneva ottenebrato.

— Ebbene, io credo di non errare seguendo l’esempio che fu come un ammonimento: partirò per la Russia. Qui forse al mio delitto, a un delitto voluto dalla passione, s’accorderebbe forse troppa indulgenza. La pena capitale mi aspetta laggiù. E poi io debbo confessare al mondo che mi sono ingannato. Se le leggi che governano le società non sono felici, la colpa non è degli uomini che le dettarono. Altri uomini non possono dettare se non leggi umane, cioè monche e inefficaci. Odiarsi e combattersi per disciplinare diversamente il dolore al quale l’umanità fu condannata è da stolti. Bisogna lottare contro l’ingiustizia ed il male; ma non c’è altra arma efficace fuor dell’amore. Bisogna amarsi, compatirsi ed aiutarsi. Io voglio dire ad alta voce il mio errore; voglio chiedere scusa del male che inflissi a tanti, a troppi....

Nascosta la faccia tra le mani e rimasto un poco a meditare così, rivolse poi lo sguardo al Vérod, riprendendo:

— Ed a voi cui ne feci tanto io voglio chiedere scusa, umilmente. Forse è ancora troppo presto perchè possiate sopportare la mia vista. Ma io so che il vostro cuore è pieno di bontà. Se meritaste d’essere amato da lei voi dovete essere il migliore degli uomini. Prima di lasciare questi luoghi che non rivedrò più mai, prima che l’espiazione si compia, vi chiedo in grazia di dirmi una parola. Pensate che sto per morire. L’ultima parola di lei fu di perdono; ella chiese che io la perdonassi — io che l’uccisi! Ditemi voi che non odierete la memoria mia.

Roberto Vérod taceva ancora. Ma ora una commozione violenta gl’impediva di parlare.

— Sarebbe troppo grave al mio cuore esser proseguito dall’odio vostro. Voi foste tanta parte di lei, che sentire una vostra buona parola mi sosterrebbe nel compimento del dovere al quale ora m’accingo....

Prese la mano del giovane e supplicò:

— Roberto, mi perdonate?

Questi fece col capo un gesto d’assenso.

E come vide che dagli occhi di Zakunine grondavano lacrime, come vide il pianto di quell’uomo dal cuore di ferro, anch’egli pianse alfine.

— L’anima di lei è qui presente, — disse il principe.

La sua voce non era rotta da singhiozzi, il suo pianto era queto e dolce.

Disse ancora:

— Sia sempre beata e benedetta.

Il pianto del giovane era tempestoso.

— Roberto, voi siete buono. Grazie!... Addio!...

Così dicendo si chinò a baciare la sua mano. Allora Roberto Vérod ritrasse la mano ed aperse le braccia. I due uomini restarono un poco stretti l’uno contro l’altro.

Chiese il principe, sommessamente:

— Fratello, tu mi perdoni?

— Ti perdono, fratello....

Scioltosi dall’abbraccio, Zakunine si passò una mano sugli occhi, poi s’allontanò. Sulla soglia, prima di sparire nell’ombra, si rivolse ancora una volta:

— Addio!


Un mese dopo i fogli pubblici furono pieni del caso straordinario: il principe Alessio Petrovich Zakunine, il nihilista feroce, il rivoluzionario implacabile del quale da tanto tempo nessuno aveva più avuto notizia, era tornato in Russia, a Odessa, per via di mare; a bordo del piroscafo si era svelato agli agenti della polizia perchè lo consegnassero alla giustizia. Oltre che confessare i suoi delitti politici, dei quali faceva ammenda solenne, rivelava il delitto passionale commesso in Isvizzera; la nuova versione del dramma di Ouchy eccitò enormemente la curiosità pubblica. E quantunque la pena di morte pesasse sul capo di lui, una volontà sovrana, impressionata dalla conversione del ribelle e del miscredente, commutava la sentenza nella perpetua relegazione in Siberia.

Roberto Vérod, rimasto a Losanna, nei luoghi dai quali ora non si poteva più distaccare, incontrò, dopo aver letto quest’ultima notizia, il giudice Ferpierre. Non lo aveva più riveduto dal tempo del processo: gli si accostò trepidante ed ansioso, come alla sola persona con la quale gli restava di poter parlare della morta, del colpevole, di sè stesso.

Il Ferpierre, che aveva tutto saputo dai giornali, gli disse:

— Ho piacere d’avervi incontrato. Il vostro cuore non v’ingannava: ciò che voi sosteneste fin all’ultimo era vero. Voi avevate solo la vostra passione; ma essa vi fece vedere lucidamente. Fiorenza d’Arda non poteva uccidersi, non poteva morire volontariamente lasciandovi il tristo esempio senza una parola di conforto. Qualunque fosse l’angustia dell’animo suo, quantunque ella avesse fermato ed annunziato di togliersi la vita, all’ultimo momento la cristiana doveva arretrarsi. Ma poichè vivere non poteva neppure, compreso il geloso furore di quello sciagurato, lo provocò perchè egli stesso la liberasse. Le apparenze m’ingannarono. Ma sono pur grandi le stranezze della vita!... Potevate esser tutti felici, se il caso non vi avesse fatto incontrare quando dovevate tutti soffrire ineffabilmente: la contessa posta tra il rispetto di sè stessa, della propria parola, della propria fede, e l’amor vostro; voi amante disperato di lei e geloso di Zakunine; Zakunine perduto dalla gelosia per voi, dal tardo amore per lei, dal rimorso sterile contro sè stesso; la Natzichev amante taciturna, disconosciuta, negletta.... Che ne sarà di lei?

Allora il Vérod si rammentò delle parole del principe.

— È morta.

Ma come, dove e quando? Zakunine non lo aveva spiegato, nè egli aveva pensato a chiederlo. Era ella morta di morte naturale o violenta? Si era uccisa, o come Alessio Petrovich, e prima di lui, era tornata in Russia a lasciarsi condannare? Quando il principe aveva detto di voler seguire un esempio che era stato come un ammonimento, aveva alluso a lei? Nessuno poteva dirlo; forse non l’avrebbero saputo mai.

— Come misteriosamente è passata nella vita! — disse il magistrato. — Aveva pure un gran cuore.

— Sì, — riconobbe il Vérod.

— Neppure quello sciagurato era tutto perverso, Bene ha fatto l’imperatore commutando la pena: la morte deve restare nelle mani di Dio; vivendo, l’assassino potrà sperare di redimersi.

— È redento.

E come il giudice lo interrogava con lo sguardo, Roberto Vérod gli narrò il loro colloquio.

— Io l’ho perdonato. Sentii che la Morta voleva così. Ella che lo convertì, che morendo di sua mano compì l’opera di salvezza alla quale si accinse quando si mise al suo fianco, non poteva volere che io gli serbassi rancore. L’anima superba e feroce ora ama e si piega. Io stesso, che dopo aver creduto ero ripiombato nel dubbio, torno ultimamente alla fede che Ella mi spirò. È vero: voi aveste ragione, un giorno, di meravigliarvi della mia avversione per lui. Le nostre nature erano diverse, ma noi ci accordammo nel disperare della vita. Entrambi vedemmo nel mondo un meccanismo incosciente, un vano giuoco di forze cieche e soverchianti. Ella ci ha uniti nel sentimento del bene, ci ha rivelato l’amore e la fratellanza umana. Noi ci siamo abbracciati, come fratelli. La condotta di lui, la sua accettazione del castigo sarà d’esempio al mondo. Anch’io sento di dover rinnegare le disperate persuasioni d’un tempo, di dover significare le cose che Ella mi rivelò....

Erano scesi a Ouchy; procedettero entrambi silenziosi un buon tratto lungo le rive del lago terso ed azzurro come un pezzo di cielo caduto sulla terra.

Il giudice poi disse:

— Vi sono di queste creature venute al mondo per convertirci alle cose delle quali purtroppo la vita ci fa dubitare. Il loro cuore è come una fontana di salute. Voi felice che la conosceste, che l’amaste, che ne custodite gelosamente l’imperituro ricordo.

Fine.

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