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V.
Duello.
La lettura delle memorie aveva dimostrato al giudice Ferpierre che la contessa d’Arda si trovava in una situazione tale da dover pensare alla morte come al solo termine della sua sventura. Tuttavia egli sentiva di dover considerare l’altro aspetto del problema ed approfondire l’argomento addotto dal Vérod contro l’ipotesi del suicidio. Nel nuovo amore che ella combatteva con la previsione della caducità e più con la coscienza del male, c’era una grande persuasione di gioia, il maggior incitamento a vivere; lo stesso impegno col quale ella lo contendeva a sè stessa ne dimostrava la forza. Ora mancando una esplicita confessione, restava sempre possibile che, non essendosi ella uccisa prima, in tutto il tempo non breve trascorso dacchè aveva conosciuto il Vérod, non si fosse neppure uccisa all’ultimo, ma fosse stata assassinata da uno dei due Russi: l’assassino traeva profitto dalla verisimiglianza del suicidio per evitare l’accusa.
A rischiarare il mistero conveniva conoscere con precisione quali rapporti erano interceduti negli ultimi tempi tra lei ed il giovane, quali domande e quali promesse erano state scambiate. Le lettere del Vérod alla contessa, due o tre in tutto, non dicevano cose notevoli, esprimevano soltanto la sua gratitudine per la visita da lei fatta al sepolcro della sorella, e il desiderio e la speranza di rivederla. Dalle altre carte della defunta nessuna luce veniva: le più importanti erano un fascio di lettere di quella suor Anna Brighton a cui ella aveva scritto la mattina stessa della catastrofe.
Suor Anna la trattava veramente nelle sue lettere come una figlia; si comprendeva dalle parole di conforto, dai richiami alla fede cristiana, che la suora rispondeva a lettere dove la morta le diceva i suoi dolori e le sue disperazioni. Già per mezzo della legazione inglese a Berna, il Ferpierre aveva disposto che la Brighton fosse ricercata alla Nuova Orléans, di dove le sue lettere erano datate, perchè si sapesse da lei che cosa le aveva scritto nell’ultimo giorno l’antica sua allieva. Egli aveva pure ordinato che fossero perquisiti i domicilii della defunta a Nizza e dei nihilisti a Zurigo, e richiesto informazioni intorno a costoro alla legazione di Russia. Frattanto fece chiamare il Vérod per sentire da lui più precisamente in quale situazione era stato dinanzi alla contessa. L’accusatore aveva detto, nel primo interrogatorio, che la vigilia della tragedia si era trovato con lei e che niente gli aveva fatto sospettare quel che doveva accadere il domani; premeva al magistrato di sapere che cosa era stato detto in quest’ultimo colloquio.
Nel vedere apparire il Vérod, egli fu impressionato dal pallore cadaverico, dal disfacimento della sua figura. La notte d’ambascia era passata sul giovane come tutta una età: era invecchiato di dieci anni.
— Siete voi ancora, — cominciò a domandargli il Ferpierre, — nella stessa opinione di ieri? Credete ancora che l’amica vostra sia stata uccisa?
— Lo credo! — rispose il Vérod subitamente vibrando come un ferito che sente il ferro ricercar la sua piaga.
— E avete trovato altre prove od argomenti che confermino la vostra accusa?
— Non ancora.
— Ebbene, ragioniamo un poco insieme. Se noi non troveremo alcuna dimostrazione materiale della verità, come pare purtroppo, siamo impegnati in un processo indiziario la soluzione del quale dipende da un problema psicologico. Ciò che innanzi tutto importa conoscere è lo stato d’animo della contessa negli ultimi giorni. Ma ditemi prima: vi rammentate bene di tutto ciò che accadde fra voi dacchè la conosceste?
— Di tutto. Ogni sua parola è impressa indelebilmente nella mia memoria.
Nulla potrà mai cancellarne una sola.
— Che giorno la conosceste?
— Il 31 luglio dell’anno passato.
— Rammentate una data saliente nella storia della vostra amicizia?
Accadde tra voi qualcosa il 12 agosto?
Roberto Vérod si passò una mano sugli occhi prima di rispondere; poi disse, sommessamente:
— Sì. Fummo insieme, l’accompagnai sulla montagna.
— Che le diceste?
— Nulla. Altri erano con noi. Io parlai poco. Non le avrei detto nulla anche se fossimo stati soli. Non già che non provassi il bisogno di esprimere i miei sentimenti; ma le parole erano inadatte più che di consueto. Nel bosco della Comte, sotto la luce verde, fra le alte colonne degli alberi, ella mi pareva un prodigioso fiore animato; la sua bellezza fioriva come il fiore della vita. Il profumo dei ciclamini addolciva l’aria. Io ne colsi molti, molti, per lei; i fiori che coglievo sui vertici del monte, che le offrivo con mano tremante, potevano solo dire il mio pensiero. La sua cintura fu in breve tutta fiorita. Anche il riso fioriva nel suo sguardo....
— Ebbene: guardate, leggete....
Il Ferpierre prese il diario, lo schiuse alla pagina dove aveva trovato i fiori e lo passò al giovane.
«Non la gioia ha tanta virtù di far dimenticare il dolore quanto un nuovo dolore. — La notte del 12 agosto.»
Roberto Vérod considerava i fiori morti, rileggeva il mortale pensiero con occhio arido. Non poteva più piangere.
— Comprendete il significato di queste parole? — riprese il Ferpierre. — Mi pare che sia fin troppo evidente. Insieme con voi, all’omaggio che le facevate, al pensiero d’amore che vi scopriva, ella sentivasi sollevare dalla lunga oppressione e pensava che per virtù della nuova gioia il dolore fosse dimenticato; più tardi, nella notte, considerando tra sè la condizione sua, riconoscendo di non poter secondare questa passione, di dover rinunziare alla sperata felicità, vedeva ancora finito il dolore antico, ma non più per opera del piacere, sibbene per un nuovo e maggior dolore. La tristezza di questo pensiero è veramente mortale, ella ha saputo esprimerlo con una forma incisiva che farebbe invidia a ogni scrittore di professione. Nel leggerlo io già sospettai che si riferisse alle vostre relazioni con lei; dopo ciò che mi avete narrato è manifesto. Vedete dunque come questo amore non fosse per la disgraziata signora un motivo di speranza, ma di estrema disperazione.
Il Vérod che era rimasto a udire tenendo stretto fra le mani il giornale della morta, non seppe rispondere altrimenti che balbettando, confuso e quasi spaurito:
— Voi credete?....
— Come dubitarne? Leggete piuttosto le pagine seguenti.
Il giovane lesse tra sè, e il giudice cercava invano di scoprire nel viso di lui l’effetto della lettura. Talmente esso era scomposto, lo sguardo era così inaridito, le occhiaie così incavate, i labbri avevano preso pieghe tanto dolorose, che la nuova tristezza non poteva esprimere una nuova lacrima dagli occhi, non poteva incidere una nuova ruga sul viso.
— Voi vedete che la mia induzione di ieri è confermata da queste confessioni. L’amor vostro accrebbe l’ambascia della povera donna, non la consolò. Non lo sospettaste mai?
Il Vérod, deposto il libro, appoggiata la fronte alla mano, rispose lentamente, come parlando a sè stesso:
— Io speravo. Credevo che anch’ella sperasse. Un giorno, ragionando delle speranze, io dissi che la loro forza non è tutta eguale. Ve ne sono alcune così salde come certezze immancabili: nel dolore, nella miseria, queste si pèrdono. Ma c’è anche una speranza lontana, tenue, fievole, che noi teniamo nascosta perchè un soffio la disperderebbe: questa è la speranza che non muore mai, che nulla c’impedisce di accogliere. Io dissi questa cosa. Ella assentì. Assentendo, non partecipò al mio pensiero secreto, che una simile speranza luceva ancora per noi?
— Voi stesso mi diceste ieri che, apparentemente libera, ella aveva preso con sè stessa un impegno irrevocabile nel quale trovava l’impedimento a un altro amore. Tale era infatti il suo sentimento: da molti passaggi di questo giornale è evidente. Soltanto la forza dello scrupolo era in lei molto maggiore di quel che forse voi non credete. Udite, piuttosto...
E il Ferpierre lesse ad alta voce le pagine più significative delle memorie. Il senso delle confessioni gli appariva ora più netto, il dibattito di quella coscienza più grave. Per dimostrare al Vérod la sincerità della narratrice egli lesse ancora altri passaggi, le ingenue impressioni della giovanetta e della sposa. A poco a poco ricostruì tutta la storia di quell’anima, come l’aveva ricostruita tra sè, durante la prima lettura.
— Bisogna credere ciò che ella qui scrisse. Se a voi non disse queste cose, se poteste comprendere che non disperava, ciò si spiega umanamente. Nè la mente nè il cuore restano sempre in un solo pensiero e in un solo sentimento, senza mutazione; la forza morale cresce e scema da ora a ora. Dinanzi a voi ella poteva trovarsi meno armata contro le lusinghe; sola, in cospetto della propria coscienza, ritrovava la capacità di resistere. Notate ancora questa circostanza: ella che consegnava alle pagine del suo diario tutte le sue impressioni, non parla direttamente dell’amore per voi; se non fossero le parole scritte la notte del 12 agosto e il giudizio trascritto dalla Verità e Poesia, non sapremmo, da queste carte, che cosa era sopravvenuto ad aggravare la sua condizione. Ciò dimostra chiaramente che ella aveva paura di questa passione...
— Ciò non ne dimostra anche la forza?
— Sì, è vero; ma per sapere a qual partito ella doveva finalmente apprendersi, bisogna ch’io vi esorti ad esser sincero: di che cosa la richiedeste e fino a che punto spingeste la vostra richiesta?
Prima di potere rispondere il Vérod dovette stringersi la fronte tra le mani. Udendo la lettura fatta dal giudice, penetrando nel secreto dell’anima amata, rivivendo quasi la sua vita, un amaro incantesimo lo aveva occupato. L’adorazione per la sua bellezza, la pietà dei suoi mali erano cresciute, lo avevano talmente invaso da cancellare ogni altro sentimento. Per poco egli quasi dimenticò che era morta; destavasi a un tratto udendo riaccusarsi d’averla uccisa egli stesso.
— Di che potevo richiederla? Sospettate che io insistessi presso di lei, io che la fuggii quando temetti che il solo sguardo mi tradisse? Credete che io tentassi di violentarla e che ella si sia uccisa per sottrarsi alla mia violenza?
Tale era infatti il sospetto del giudice. La condizione nella quale la contessa e il Vérod si trovavano poteva durare, quantunque ambigua, se per opera del giovane nulla fosse intervenuto a tentar di mutarla. Ora che il Vérod, sentendosi amato, s’appagasse sempre della pura amicizia, non pareva al giudice credibile. E se l’artista aveva adoperato i sottili espedienti della poesia per sedurre quella donna, se aveva nobilitato con la magia dell’espressione letteraria il suo scontento e le sue brame, la contessa d’Arda, destatasi dal sogno d’un affetto fraterno, trovandosi inevitabilmente al formidabile bivio di vivere peccando o di morire per evitare la colpa, aveva potuto apprendersi al più disperato, ma meno indegno proposito.
— Non dico che voi foste violento, nè per un’anima come quella della vostra amica, con la dolorosa sensibilità della quale soffriva, sarebbe occorsa la violenza a toglierla dalla fiducia. La sola naturale vivacità della passione, una di quelle ardenti parole che l’amore inventa, che a voi poeti non costano molto, doveva bastare a toglierla dall’illusione che la seduceva, a dimostrarle inevitabile la trasformazione della vostra amicizia, e a darle, con la previsione del male, l’idea di sottrarsi finalmente a una vita troppo assediata dal dolore. Nè voi forse sareste rimasto diminuito nel suo concetto: ella doveva pensare che in voi, in un uomo, l’impazienza del desiderio era naturale; che l’errore era stato suo per non averla prevista!
— Avete ragione, — rispose il Vérod scrollando lentamente il capo. — Questa cosa era naturale. Voi non potete credere che una cosa naturale non si producesse. Non crederete che la fuggii, che la rispettai, che l’obbedii. Voi non sapete la trasformazione che per virtù sua avvenne in me.
— Ditemene qualche cosa.
— È difficile. Poichè io ho l’abitudine di dare forma letteraria ai pensieri, voi troverete probabilmente nelle mie parole l’esagerazione del retore. Non avete già sospettato che ricorressi agli artifizii dei retori per esprimerle i sentimenti miei?
Era vero. Il Ferpierre, quantunque dal dolore del Vérod fosse inclinato a un compatimento sincero, pure ne diffidava. Quell’uomo pareva migliore delle sue opere, ma l’arte sua era troppo amara e disperata. Del più nobile ed efficace strumento, della Parola, si serviva per un’opera dissolvitrice. Come credere alla sua bontà?
— Non dico, — rispose tuttavia, piegato mal suo grado dal chiaroveggente timore del giovane, — non dico che deliberamente, studiatamente, vi siate messo a sedurla. Ma se già in ogni uomo...
— Non pensate che io sia un uomo diverso dagli altri, — interruppe il Vérod. — La natura di ognuno di noi è duplice e le forze morali sono latenti anche nelle anime brute. Perchè possano operare bisogna che siano educate ed espresse da altre anime naturalmente migliori e più forti. Questa creatura mi rivelò cose che io ignoravo. Se voi credete alla verità, la verità è questa...
E con voce tremante, a occhi chini, narrò la storia della loro amicizia. Il magistrato l’udiva ora con attenzione più indulgente; tuttavia il dubbio che per vendicare la morta e perdere il rivale l’accusatore tacesse qualche circostanza e si facesse migliore, s’insinuava nell’animo suo.
— Una speranza sia pure tenue e remota dunque sorrideva a voi. Ma come non pensaste che ciò che voi speravate doveva da lei esser temuto? Un nuovo legame non doveva avvilirla?
Roberto Vérod guardò in faccia l’interrogatore.
— Io volevo farne la donna mia dinanzi al mondo e a Dio.
Con un cenno del capo il Ferpierre parve riconoscere che in tal caso la sua argomentazione cadeva.
— Però, — riprese, — ella voleva essere degna del vostro rispetto e non poteva sperarlo senza l’approvazione della propria coscienza. Ora ciò che attenuava l’illegalità dei suoi rapporti col principe era appunto l’idea, la certezza d’essersi unita con lui irrevocabilmente. Lasciandolo, sia pure per contrarre una legittima unione, non doveva ella vedere infirmata quell’idea e distrutta quella certezza? L’ostacolo, se voi credete alla bellezza dell’anima sua, dovette apparirle formidabile. È vero?
Il Vérod non rispose. Francesco Ferpierre sentì d’aver portato un colpo giusto.
— Considerate che la via nella quale s’era messa non aveva uscita, — continuò quest’ultimo dopo una pausa. — Sola speranza lecita per lei era che il principe, riconoscendo i proprii torti e ripudiando l’opera cruenta alla quale s’era dato, ripagasse finalmente l’amore e la fede che ella aveva riposti in lui. Allora la loro passione si sarebbe riscattata; quantunque nata male, sarebbe degnamente durata e avrebbe prodotto un effetto buono. Forse era già tardi: ma quand’anche ella non potesse più amarlo, dobbiamo credere che sarebbe rimasta al suo fianco, vedendolo fatto migliore, se non felice certamente serena. Fuori di qui non poteva esserci bene per lei. Quanto più debole era agli occhi del mondo la parola che la univa a quell’uomo, tanto più forte doveva essere per la sua coscienza; mancando la sanzione sociale e la sacra alla loro unione, tanto più forte doveva essere la sanzione morale. Nonostante i disinganni, i dolori, gli oltraggi patiti, ella doveva restare fedele a colui che aveva accettato come compagno della sua vita. Gli estremi torti del coniuge consentono forse ad una moglie infelice di cercare altro bene con altri? Pensate che il sentimento di questo dovere era in lei afforzato dall’impegno di dimostrare al miscredente la potenza di quegli scrupoli che egli schernisce, e riconoscerete che la morte doveva apparirle nuovamente, fatalmente, come il termine della sua sventura. Per credere che ella potesse accettare d’unirsi con voi, dovete ammettere che i suoi scrupoli non fossero molto sinceri... che fossero certamente poco forti. So bene che la passione ragiona altrimenti; che, secondo il comune giudizio, alla forza dell’amore nulla deve resistere; ma ciò potrà esser vero, se mai, d’un primo, d’un solo amore; il continuo rinnovarsi di simili trionfi è a costo della dignità, del rispetto, dell’onore, di una quantità d’altre cose che importano anch’esse moltissimo. La vostra amica, già una prima volta lasciando parlare il solo amore, aveva seguito una via traversa. C’era in fondo all’animo suo il sentimento lodevole del riscatto da operare; ma ella pur sentiva d’aver errato. L’amor vostro doveva rivelarle l’abisso che ella rasentava. Voi stesso, con la fiducia e con la sola speranza di poterla un giorno piegare, ve la spingevate. Volevate farne la donna vostra; ma, sollecitati entrambi dalla passione, era verisimile che, date le condizioni nelle quali ella si trovava, aveste aspettato? Volevate mettervi sulla via diritta, ma un giorno non vi sareste trovati immancabilmente per una via obliqua? Ella non doveva prevedere di non potervi resistere?... Voi siete poeta, voi conoscete la vita, voi studiate il cuore degli uomini: a che serve l’arte vostra se non vi fece antivedere tutte queste cose?
Il giudice aveva parlato molto severamente. Roberto Vérod taceva, a capo basso.
— Ma torniamo a ciò che preme per il momento. Non m’avete detto che la vedeste la vigilia della morte?
— Sì, nel pomeriggio.
— Da lei?
— Sì.
— Che cosa le diceste?... Parlaste del vostro amore?...
Vedendo che il Vérod esitava a rispondere, il magistrato insistè:
— Bisogna, ripeto, che siate sincero. Il fatto che pare meno importante, una parola, un niente possono metterci sulla strada della verità. Se la passione vi spinge a far punire un assassinio, la coscienza deve rammentarvi che la giustizia non conosce passioni. Le parlaste del vostro amore?
— Sì.
E Roberto Vérod tremava.
L’ultimo suo colloquio con l’amica, il più appassionato, il più intimo, quel colloquio dopo il quale egli aveva sperato con nuovo fervore, era per lui la massima prova contro gli assassini: poteva forse pensare alla morte la donna che lo aveva lasciato parlare d’un migliore avvenire? Ma egli comprendeva che, secondo le induzioni del magistrato, il valore di quella prova veniva ad essere invertito; che dalla prossima contemplazione d’una felicità alla quale credeva e sentiva di non potersi accostare, ella era stata appunto determinata all’ultimo passo. E se il magistrato aveva ragione, la severità delle sue parole restava giustificata; ma, più della severità di quell’uomo, l’intima coscienza del male fatto alla creatura che egli doveva e voleva vegliare con trepida cura lo straziava, ineffabilmente. Non più, come il giorno innanzi, egli gridava dal dolore; ma si sentiva premere, stringere, torcere il cuore da una mano di ferro; soffocava, le parole gli morivano sulle labbra, sentendo di dover dire la verità e comprendendo che la verità sarebbe stata contro di lui.
— Sì, le parlai dell’amor mio... Parlammo della nuova stagione, del freddo che presto ci avrebbe scacciati di qui... Io volevo sapere dove sarebbe andata, dove e quando avrei potuto rivederla. Ella mi disse: «Non so ancora dove andrò; forse a Nizza, forse a Biarritz. Non è meglio ignorarlo, per voi e per me?...»
— Vedete?... E poi?
— Io dissi: «Sia come volete. Da lontano, da vicino, pensate che vivo di voi...» Ella chiuse gli occhi. Io soggiunsi: «È la verità. Dovrei nasconderla? Non m’avete insegnato a dir sempre la verità? Non la sapete, d’altronde?...» Tacemmo. Il cielo si era oscurato; ella guardava i grigi vapori che salivano su per le coste dei monti e ne sbiadivano il verde; guardava il lago grigio e increspato come piombo che si liquefa; gli alberi piegarsi sotto il vento, perdere le prime foglie. Io ripensavo il suo pensiero elegiaco dinanzi alla visione autunnale. Le dissi: «Il colore che pare del cielo nei nostri occhi. L’azzurro è nero nella tristezza; nella letizia il grigio è celeste.» Una nube azzurrina fra i vapori cenerognoli pareva uno squarcio di cielo. Ella soggiunse: «Sì, ma è un inganno; il cielo è chiuso.» Replicai: «Fra breve si schiuderà.» A poco a poco tutto il paesaggio si era velato, tutti i colori erano scomparsi; non si vedevano altri toni che di bianco e di nero: i monti neri, le acque plumbee, le spume argentine, le nebbie cineree, nuvole candide, nuvole pallide, nuvole ferrigne. Ella disse: «Non pare un acquerello?» Assentii. Soggiunsi: «È altrettanto bello così come quando il sole risplende.» Parlai ancora. Dissi che una luce interiore illuminava tutta la mia vita, che io non vedevo se non forme della bellezza, ovunque. La sua bellezza pallida era meravigliosa, pareva tutta dipendere dal pallore delle cose circostanti. Presi la sua mano. Un calore di vita fluiva dalla sua mano per tutto il mio corpo. Ella la ritrasse impallidendo ancora. Non dissi nulla, ma il pianto mi gonfiò gli occhi. Disse ella: «Comprendete che bisogna lasciarci.» Risposi: «La vostra volontà sarà fatta, sempre. Se volete, io partirò domani. Aspetterò da lontano. Se volete che non aspetti, che non speri, cercherò d’obbedirvi. Sarà difficile svellere la speranza per la quale la vita si regge; ma pensate che il mio piacere, il mio orgoglio, il mio vanto consiste nell’essere come voi volete...» Tutto era scomparso alla vista: i candori delle nubi, le nerezze dei monti sfumavano e si confondevano in un grigio uniforme. La pioggia cominciava a cadere. Ella rabbrividì. Io ripresi la sua mano. Volevo significarle che era il gesto del saluto, che ella poteva lasciare la sua mano nella mia, un’ultima volta. Non seppi dire. Ella non ritrasse la mano, nè io potevo ancora parlare; troppi pensieri mi premevano...
— Non sentivate la lotta formidabile che si combatteva in lei?
All’interruzione il Vérod scrollò il capo ripetutamente.
— Non so, non so... Troppi pensieri volevano essere espressi; ma un’idea mi occupava: «Se parlerò, io perderò la sua mano.» Il velo della nebbia ora si veniva diradando; quando il lago appariva le ondate spumose che sorgevano e svanivano davano imagine di rapide accensioni abbaglianti. Un lembo di cielo sorrise. Allora dissi: «Vedete l’azzurro?...» Ella si levò...
— E poi? — domandò il giudice, alla reticenza del narratore.
Le cose da dire dovevano essere più gravi, il giovane doveva sentirle contrarie all’accusa per arrestarsi così.
— E poi?... Dite tutto: bisogna dir tutto!...
— Ella parlò di quell’altro. Io sapevo che non più l’amore, ma solo l’idea d’un dovere la legava. Mi disse queste parole, levandosi: «Io non merito l’amor vostro. La sincerità che lodo e pretendo negli altri mi è mancata. Voi sapete e già vi dissi che non sono libera... Ma l’uomo al quale ero unita mi aveva lasciata, voi non lo vedevate al mio fianco, entrambi potevamo credere che non sarebbe più tornato. Ora egli è qui. Se volete che io continui a stimarmi, non mi dite più nulla...»
— Vedete? Vedete?... E voi?
— Io risposi: «Sia come volete, ma costui vi lascerà ancora una volta!...»
— Vedete? Vedete? — ripetè il magistrato. — Se voi le diceste queste parole con la voce dura con la quale ora le riferite, non pensate che ella dovesse aver paura dell’odio vostro contro quell’uomo?... Non dovette ella comprendere che, nonostante il vostro rispetto per lei, l’idea che ella era di quell’indegno avrebbe menomato il vostro sentimento?... E come vi rispose?...
Il Vérod, che aveva abbassato la fronte, riprese pianissimo:
— Nascose il volto fra le mani.
— E non sentiste in quel momento che ella aveva ragione, che fra voi due l’amore era condannato a una trista vita? Non comprendeste che bisognava lasciare quella donna al suo destino per evitargliene uno peggiore?
— Non dite così! — proruppe il Vérod giungendo le mani, alzando lo sguardo tra umile e ardente in faccia al magistrato. — Non dite così!... Io non so, non posso dirvi che cosa sentissi... Sì, forse questi sentimenti, altri ancora, meno definibili, occupavano l’animo mio; ma io l’amavo, sentivo che m’amava, la vedevo occupata di me, soffrire per me; e fuggire, lasciarla sola, non dirle l’impeto della mia gratitudine, della tenerezza, della pietà; non dirle che tremavo per lei, che volevo morire per lei, non mescolare le mie lacrime alle sue, questa cosa era impossibile!
— Voi parlaste così?
— Dovevo parlare. Ella m’udì. Il temporale era finito, il sole splendeva sul vivido verde. Io dissi che la tempesta della sua vita si sarebbe un giorno sedata, che quel giorno io sarei stato ancora suo. Ella mi disse: «Se vi avessi conosciuto prima!...» Io parlai ancora. Non chiedevo nulla, ma volevo e dovevo dire che nulla vi è d’irreparabile al mondo, che questa vita sarebbe veramente troppo malvagia se la speranza non la confortasse. Le dissi un’altra cosa più vera, triste forse: che la gioia è più nell’aspettazione che nell’ottenimento; che perciò la speranza è il massimo bene. Le domandai: «Non è forse vero?» Ella rispose: «Sì.» Questa parola, la parola dell’assenso, fu l’ultima sua...
Il Ferpierre lasciò che l’eco della voce appassionata si disperdesse. Incrociate le braccia sul petto, proferì poi lentamente, dopo un breve silenzio:
— Orbene: noi non abbiamo ancora testimonianze lampanti della verità, e voglio credere che da un momento all’altro si possa trovare la prova irrecusabile della vostra accusa. Voglio concedere che quando avremo la lettera diretta a suor Anna Brighton, troveremo che in questo foglio scritto due ore prima della sua morte la contessa non solamente non parlava di morire, ma esprimeva al contrario l’imminente felicità. Ma ora come ora, se la logica ha da valere qualcosa, bisogna credere al suicidio.
Poichè il Vérod non rispose, guardandolo timidamente, egli riprese:
— Quest’ultimo vostro colloquio, del quale non volete riconoscere l’importanza, basta a spiegare la catastrofe. Io presentivo che qualche cosa dovesse essere avvenuta fra voi per la quale ella aveva visto spalancarsi un baratro dinanzi ai suoi passi. Se la disgraziata illudevasi sulla possibilità d’una pura amicizia, le ultime vostre parole doverono disingannarla. Tutti gli argomenti che le adduceste sono i consueti sofismi della passione. Voi non chiedevate nulla: anche l’uomo per il quale s’era perduta aveva detto così. La logica della vita è quella che costui le aveva crudamente rivelata: «Chi ha fame deve cibarsi.» Se la speranza è il massimo bene, intanto essa ci giova in quanto pensiamo di conseguirne l’oggetto; nessuno al mondo si consola imaginando un bene al quale non potrà mai arrivare. Logicamente, necessariamente ella doveva cadere in un nuovo errore. Dico errore, ma potrei anche dire colpa. Non dubito dell’onestà delle vostre intenzioni, ma la debolezza vostra e sua ve la avrebbe fatta dimenticare. L’ardenza del desiderio vi spingeva a contrarre un impegno del quale forse vi sareste pentito. Anche senza la previsione del vostro pentimento ella si sentiva preclusa la via ad una nuova gioia. Tutti questi pensieri che la disgraziata aveva lungamente considerati si dovevano ridestare più urgenti, più molesti, più funesti dopo le vostre parole. Quale momento sceglieste per parlare? Il più grave. L’uomo cui si era legata tornava presso di lei. Egli era diventato migliore; abbiamo la testimonianza di Giulia Pico, dalla quale risulta che il principe cominciava a diportarsi meglio verso l’amica. Se, dunque, ella aveva pure cercato di persuadersi talvolta che il suo legame era sciolto dopo l’abbandono patito, non poteva più sentirsi ora libera. Il dovere di restare con quest’uomo al quale s’era data per sempre, che dimostrava d’apprezzare l’amore di lei, questo dovere risorgeva, più imperioso. Lasciando un traditore ella poteva trovare una qualche giustificazione, nè costui avrebbe pensato di rinfacciarle l’instabilità di quella fede alla quale ella voleva convertirlo: se pure l’avesse rimproverata di ciò, ella aveva come rispondergli. Abbandonandolo ora che tornava a lei, ella doveva sentirsi doppiamente colpevole. E restare con lui non poteva. Non lo amava più d’amore; amava voi. E nei vostri occhi, nella vostra voce, dove prima, quando, era sola, aveva letto soltanto l’amore e la pietà per lei, ella sentì improvvisamente fremere l’odio contro l’uomo che sorgeva a impedire la vostra felicità. Non solamente ella pensò di dovere fatalmente scapitare nella vostra stima, ma temè di essere causa di altri mali spingendo due uomini a odiarsi, forse ad uccidersi. Poche ore dopo questa tempesta morale, costei, che è anche inferma inguaribilmente, il cui petto è roso da un male senza riparo, che non ha nessuno al mondo, nè padre nè fratello, manda via con un pretesto la donna che ha sempre vegliato presso di lei; noi la troviamo morta, con un’arma accanto, con l’arma che le apparteneva, che ella custodiva, con l’arma alla quale aveva già pensato di chiedere l’ultimo riposo: io debbo dire, voi dovete riconoscere che questa donna si è uccisa!
Il Ferpierre aveva parlato più duramente, quasi gli stesse dinanzi non il vendicatore ma un accusato. E l’attitudine di Roberto Vérod era quella d’un colpevole: a capo chino, con una mano sul petto, egli pareva piegarsi sotto il peso del rimprovero altrui, del suo proprio rimorso.
— Non dite nulla? Non riconoscete l’esattezza dei miei ragionamenti?
— No! — proruppe il giovane, risollevandosi a un tratto, e in atteggiamento quasi di sfida. — Non è così! Non può essere così! Non lo posso credere, non lo crederò mai!... Questi pensieri furono i suoi, è vero; ma sopra i pensieri di morte, più alto, più potente doveva essere e fu il pensiero della vita e dell’amore. Anche a me non sarebbe nulla costato darmi la morte, prima di conoscerla. Io avevo ragione di odiare l’esistenza....
— La stessa ragione che ve la fece odiare a vent’anni?
Il Ferpierre disse queste parole quasi per un impeto incosciente. Quantunque alla severità del suo ufficio non convenisse richiamare i rapporti anticamente passati tra lui e l’accusatore, pure l’istintiva curiosità di sapere se il giovane si ricordava ancora di lui lo pungeva fino dal giorno innanzi.
— La stessa, — rispose il Vérod guardandolo negli occhi; — ma più urgente, più sconsolata di quella che voi rammentate. Voi mi conoscete, è vero? Anch’io subito vi riconobbi. Voi sapete che troppo presto io vidi la miseria, il vuoto, l’orrore della vita.
— Come mai? Siete povero? Avete sofferto qualche ingiustizia per opera degli uomini o del destino? Sì, io mi ricordo di voi; ma non so, come non seppi, che cosa vi hanno fatto!
Il magistrato provava una specie di piacere nell’incalzare il pessimista, nel costringerlo da presso a riconoscere l’errore del suo sentimento.
— Nulla mi han fatto. Ma io piangevo di tutto. Forse ero infermo, sì; ma inferma era l’anima, non già la fibra. Ella fu la mia salute. Dopo averla veduta rinacqui. Questa è la potenza dell’amore: la sola esistenza di una creatura amata è una ragione, la più potente ragione di vivere.
— È ciò vero di qualunque amore?
— Non mi parlate degli ostacoli! Sì, io odio, io esecro, io vorrei come già volli uccidere l’uomo che me la tolse, e l’odio trasparì dalle mie parole. Sì, ella mi disse ciò che avete pensato, tutto ciò che il ragionamento vi ha fatto scoprire; e nel comprendere che l’esistenza di quest’uomo era d’ostacolo alla nostra felicità, io le dissi l’odio mio. L’amore, l’amore ricambiato, cresce dinanzi all’ostacolo, tenta spezzarlo; non cede. L’amore aspetta e spera. È vero, ella tremò quando mi udì parlare così; ma ciò non le tolse di riconoscere che potevo, che dovevo sperare. Non vi ho detto tutto ciò che accadde fra noi. Due giorni prima dell’ultimo incontro io l’accompagnai sullo Chesand; bevemmo a una fonte; io dopo di lei, nella stessa sua coppa, bevvi l’acqua che ella aveva lasciata: fu come se avessi appressato la bocca alla sua bocca. Ieri, quando ella mi consentì di sperare, io presi ancora una volta la sua mano, la baciai avidamente. Ella tremò, ma non la ritrasse. Io sentii che ella era mia, che avrei potuto cogliere un altro bacio sul fiore delle sue labbra. E il domani, poche ore dopo, si sarebbe uccisa?
— Ma sì! Ma sì! — replicò subitamente il giudice, vedendo che, nella foga della difesa, il Vérod si scopriva. — Ma sì, poche ore dopo! Perchè questo vostro contegno che vi pare suggerito dall’amore rispettoso e obbediente, sapete voi da qual amore è suggerito? Dall’amore prepotente ed egoista! Perchè questi piaceri dei quali voi godevate, che ve ne facevano antivedere altri maggiori, dovevano invece atterrir lei!... Ella era pure una creatura di carne: dinanzi a voi non trovò la forza di resistere all’esigente passione; sola con la propria coscienza ne udì le voci imperiose! Tutta l’ultima parte del suo diario è piena di un pensiero di morte; vi stupite che, al bivio, lo ponesse ad effetto?
— Lo disse, lo scrisse; ma nel momento di compiere l’atto il pensiero di Dio dovè fermarle la mano.
— Il pensiero di Dio le fermò tante volte la mano, ma nel momento della massima pena s’è uccisa!
— Senza lasciarmi una sola parola? Ella che sapeva d’avermi ridato alla vita, avrebbe distrutto d’un colpo l’effetto dei suoi insegnamenti? Voi dite che volle sottrarsi al male, uccidendosi; ma così facendo credete forse che abbia ben fatto?
Il giudice restò a sua volta senza risposta. E il Vérod, comprendendo d’avere ottenuto finalmente in quella lotta un reale vantaggio, incalzò:
— Ella pensava e scrisse che si può in qualche caso fuggire la vita senza biasimo; ma potrà morire chi è solo, non già quegli dalla cui vita un’altra dipende. Non avete voi letto pur ora le sue parole? «Questo è grave, nell’amore: che ciascun amante non è solo responsabile delle proprie azioni, ma anche di quelle alle quali spinge l’amato.» Ed ella m’avrebbe dato l’esempio della morte?... Io credo alla bellezza dell’anima sua, non credo ad altro. Ma la certezza che ella non s’è uccisa non lede la fede mia.
— Il dovere di non lasciare l’uomo al quale si era sposata in cuor suo era dunque una fisima?
— Non s’era sposata realmente.
— Che cosa significava allora quel legame, se la legge non lo aveva sanzionato?
— Credete voi alla bontà, alla perfezione delle leggi umane? Credete che nell’osservarle letteralmente sia la salute?
— Ne dubitate? E sono questi i principii che propagate con i vostri libri? E con questi principii avete tanta avversione per il nihilista? Non sapete che siete voi negatori, voi pessimisti, i suoi maestri, gli eccitatori di tutte queste anime audaci cui non basta l’astratta speculazione, ma che traducono in atto, logicamente, i vostri ragionamenti?
— Io non nego le leggi, dico che esse non risolvono le difficoltà dentro alle quali noi siamo condannati ad aggirarci, le esprimono soltanto. Se anche ella si fosse unita legalmente a quell’uomo....
— Voi avreste avuto il diritto di sedurla, di toglierla a lui? Ella avrebbe potuto venir meno alla parola data?
— Non si può giurare d’amar sempre....
— Voi però lo giuravate a lei?
— Non si può amare chi non ama.
— Direste altrettanto se foste voi l’abbandonato?
E come alle stringenti argomentazioni il giovane restava muto e confuso, il giudice riprese con altro tono di voce:
— Ah! Noi non siamo lontani, come vi potrà forse parere, dall’oggetto della nostra indagine! Queste idee, il contrasto dell’illusione con la realtà, il dissidio del dovere col piacere dilaniarono la disgraziata. Ella vide e sentì quanto la vita è difficile. Che abbia voluto lasciarla è troppo evidente. Resta da dimostrare che realmente mise in atto il proposito. Le testimonianze dirette ci mancano; ma tutte le presunzioni sono contro di voi. Considerate freddamente, se ne siete capace, la somma delle circostanze dinanzi alle quali ci troviamo, e vedrete che ho ragione di pensare così. Avete denunziato le due persone che erano in casa di lei nel momento della morte; ma contro quale delle due bisogna precisamente rivolgere i sospetti e le indagini? Sarebbe tempo di decidersi! È colpevole il principe? E perchè mai egli avrebbe uccisa la disgraziata? Per gelosia? Ma, innanzi tutto, voi mi dovete concedere che quest’uomo, al quale non attribuite altra capacità se non quella dell’odio e del male, avesse ripreso ad amare la contessa e soffrisse sapendo di averne perduto l’affetto. Ma era ella vostra? Assecondava la vostra passione? Voleva lasciarlo e venirsene con voi? No, al contrario! Fino all’ultimo momento ella si sente vincolata a lui, rifiuta di udirvi, vi scongiura di lasciarla! A stento, dopo lunghe insistenze, voi le strappate il permesso di sperare: una speranza ambigua, incerta, lontana; un permesso del quale potreste anche fare a meno, che ella non vi potrebbe negare e che non l’impegna a nulla. Dato il carattere dell’amica vostra, la serietà dei suoi scrupoli, la sincerità dei suoi rimorsi, noi dobbiamo credere che, appena voi andaste via, ella ricominciò ad incolparsi, a interdirsi la speranza prima consentita. In questa situazione che motivo aveva il principe di ucciderla? L’amava ancora o, se vi piace, era geloso d’una gelosia tutta brutale, di quella gelosia che è offesa al sentimento di proprietà e nient’altro. Ma di che poteva accusarla? Non di essersi data a voi! Egli doveva anzi esser certo che il più lieve sforzo di bontà, una prova d’amore, una parola buona avrebbero impedito che la contessa fosse vostra. Io voglio credere che non la gelosia, non l’odio vi facciano disistimare tanto quest’uomo; ammetto che i buoni sentimenti gli siano sconosciuti e che egli sia veramente capace d’un volgare delitto. Ma la malvagità più brutale ha pure bisogno d’un pretesto, se non d’una ragione, per armarsi e colpire. Io non vedo qui nè ragioni nè pretesti. Supponete forse che, dopo avervi con tanta pena accordato un assenso tanto ambiguo, ella andasse da lui per provocarlo, dichiarandogli ad un tratto d’amar voi? Forse l’amor proprio vi suggerisce, a vostra insaputa, questo ragionamento. Esso è illogico. Se la contessa avesse voluto secondare l’inclinazione che sentiva per voi, nessuno glie lo avrebbe vietato quando Zakunine era lontano. Anche ora aveva ella veramente bisogno di chiederne licenza a quest’uomo? Se l’impedimento fosse venuto da costui ella avrebbe potuto ribellarsi e sfidare; ma non veniva da lui, sibbene da lei stessa, dalla sua intima coscienza. Dunque l’ipotesi è assurda. Volete rifarvi con la nihilista? Amando il principe questa era gelosa della contessa e perciò l’avrebbe uccisa? Ma qui le difficoltà non sono minori, al contrario! Prima di tutto si dovrebbe dimostrare che sono amanti, cosa che negano; poi, quando pure ciò si provasse, perchè la Natzichev uccidesse la contessa bisognava che quest’ultima fosse d’ostacolo all’amor suo. Come mai? La disgraziata sapeva e poteva forse vietare al principe di andarsene con altre donne? Che ombra poteva ella dare alla nihilista? I due Russi non erano liberi di continuare a starsene insieme a Zurigo? Se l’omicidio non si può ragionevolmente imputare nè all’uno nè all’altra, potremo supporre che lo abbiano commesso insieme? L’assurdità sarebbe doppia! Ora, se la vostra amica non avesse avuto ragione di fuggire la vita, noi dovremmo, quantunque poco fondato, accogliere il sospetto dell’assassinio. Ma i motivi che l’avrebbero spinta ad uccidersi non solamente non mancano, ma abbondano. Voi avete nondimeno dalla vostra parte un argomento, uno solo....
Il Ferpierre sostò un momento per riprendere fiato. Roberto Vérod restava nell’attitudine con la quale lo aveva udito: a capo chino, le mani strettamente congiunte, come quegli che aspetta un colpo mortale.
— Nella situazione della contessa d’Arda, tra gli scrupoli morali e gli allettamenti della passione, nè cento nè mille donne s’uccidono. Aspettano. Col tempo s’accomodano a condizioni di vita che per un momento credettero insoffribili; vengono a patti con i loro scrupoli, trovano nell’altrui esempio una scusa, sperano nella redenzione futura. Tale è la condotta di tutte, di quasi tutte. Voi avete definito bene, fin dal primo momento, l’importanza di questa ragione. Ma per credere così, per sostenere che dopo l’ultima spiegazione con voi, dinanzi alla visione del male inevitabile, ella non si sia uccisa, dovete concedere che la vostra amica, che questa donna della quale decantate la grandezza dell’anima, che veramente m’è parsa, in queste sue confessioni e per le testimonianze di chi la conobbe, superiore a molte altre, dovete concedere, dico, che fosse invece come tutte le altre, anch’ella capace delle comode transazioni delle quali siamo spettatori quotidiani. È bensì vero: chi si uccide non dà prova d’animo strenuo nè di fede incrollabile; ma se, per opera vostra, questa infelice si trovò nell’impossibilità di scegliere un terzo partito, io debbo credere che la sua scelta cadesse su quello dei due che è meno brutto. E non è proprio strano che debba io sostenere, contro di voi, la forza della sua coscienza, la delicatezza dell’onor suo?....
Allora il Vérod, levandosi e premendosi la fronte con la destra, esclamò, vinto, perduto:
— Non dite così!... Sì, è vero... Avete ragione... Potete avere ragione... Ma non lo dite, non lo ripetete!... Perchè allora io, io stesso l’avrei uccisa!... Ella sarebbe morta per me! per me!... E vedete: a questo pensiero, a questo dubbio, il cuore mi si schianta, io mi sento impazzire...