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VII
Ma molto piú che le orazioni degli imbasciadori e le risposte fatte loro importavano le preparazioni marittime e terrestri le quali giá per tutto si facevano. Perché Carlo aveva mandato Pietro di Orfé, suo grande scudiere, a Genova, la quale cittá il duca di Milano, con le spalle della fazione Adorna e di Giovan Luigi dal Fiesco, signoreggiava, a mettere in ordine una potente armata di navi grosse e di galee sottili; e faceva oltre a questo armare altri legni ne’ porti di Villafranca e di Marsilia: onde era divulgato nella sua corte disegnarsi da lui di entrare nel reame di Napoli per mare, come giá contro a Ferdinando aveva fatto Giovanni figliuolo di Renato. E in Francia benché molti credessino che, per l’incapacitá del re e per le piccole condizioni di quegli che ne lo confortavano e per la carestia de’ danari, avessino finalmente questi apparati a diventare vani; nondimeno per l’ardore del re, il quale nuovamente, con consiglio de’ suoi piú intimi, aveva assunto il titolo di re di Jerusalem e delle due Sicilie (era questo allora il titolo de’ re napoletani), si attendeva ferventemente alle provisioni della guerra, raccogliendo danari, riordinando le genti d’arme e ristrignendo i consigli con Galeazzo da San Severino, nel petto del quale tutti i segreti e tutte le deliberazioni di Lodovico Sforza si rinchiudevano. E da altra parte Alfonso, il quale non aveva mai pretermesso di prepararsi per terra e per mare, giudicando non essere piú tempo a lasciarsi ingannare dalle speranze date da Lodovico e dovere piú giovare lo spaventarlo e il molestarlo che l’affaticarsi per assicurarlo e mitigarlo, comandò all’oratore milanese che si partisse da Napoli, richiamò quello che per lui risedeva a Milano, e fece prendere la possessione e sequestrare l’entrate del ducato di Bari, stato posseduto da Lodovico molti anni per donazione fattagli da Ferdinando. Né contento a queste piú presto dimostrazioni di aperta inimicizia che offese, voltò tutto l’animo ad alienare dal duca di Milano la cittá di Genova; cosa nelle agitazioni presenti di grandissima importanza, perché per la mutazione di quella cittá si acquistava grandissima facilitá di perturbare contro a Lodovico il governo di Milano, e il re di Francia si privava della opportunitá di molestare per mare il regno di Napoli. Però, convenutosi secretamente con Pagolo Fregoso cardinale, che era giá stato doge di Genova, e il quale era seguitato da molti della medesima famiglia, e con Obietto dal Fiesco, capi tutt’a due di seguito grande in quella cittá e nelle sue riviere, e con alcuni degli Adorni, tutti per diverse cagioni fuorusciti di Genova, deliberò di tentare con armata potente di rimettergli dentro, solito a dire che con le prevenzioni e con le diversioni si vincevano le guerre. Deliberò medesimamente di andare con valido esercito personalmente in Romagna, per passare subito nel territorio di Parma; dove, chiamando il nome di Giovan Galeazzo e alzando le sue bandiere, sperava che i popoli del ducato di Milano contro a Lodovico tumultuassino. E quando bene in queste cose trovasse difficoltá, giudicava essere utilissimo che la guerra si incominciasse in luogo lontano dal suo reame; stimando alla somma del tutto importare assai che i franzesi fussino sopragiunti in Lombardia dalla vernata, come quello che, esperimentato solamente nelle guerre d’Italia, nelle quali gli eserciti, aspettando la maturitá dell’erbe per nutrimento de’ cavalli, non solevano uscire alla campagna prima che alla fine del mese di aprile, presupponeva che, per fuggire l’asprezza di quella stagione, sarebbono necessitati fermarsi nel paese amico insino alla primavera; e sperava che in questa dilazione potesse facilmente nascere qualche occasione alla sua salute. Mandò ancora imbasciadori in Costantinopoli, a dimandare aiuto, come in pericolo comune, a Baiseto ottomano principe de’ turchi, per quello che della intenzione di Carlo di passare in Grecia, vinto che avesse lui, si divulgava; il quale pericolo sapeva non essere da Baiseto disprezzato, perché, per la memoria delle espedizioni fatte ne’ tempi passati in Asia contro agli infedeli dalla nazione franzese, non era piccolo il timore che i turchi avevano delle armi loro.
Le quali cose mentre che da ogni parte si sollecitano, il papa mandò le genti sue a Ostia, sotto il governo di Niccola Orsino conte di Pitigliano, porgendogli aiuto Alfonso per terra e per mare; e avendo presa senza difficoltá la terra e cominciato a percuotere con l’artiglierie la rocca, il castellano, per interposizione di Fabrizio Colonna e consentendo Giovanni della Rovere prefetto di Roma fratello del cardinale di San Piero in Vincola, dopo non molti dí la dette, con patto che il pontefice non perseguitasse, né con le censure né con l’armi, il cardinale né il prefetto, se non gli fussino date da loro nuove cagioni; e a Fabrizio, in cui mano il cardinale aveva lasciato Grottaferrata, fu permesso che, pagando al papa diecimila ducati, continuasse di possederla con le medesime ragioni.
Ma Lodovico Sforza, al quale il cardinale aveva, quando passò da Savona, manifestato quel che occultamente, per consiglio e mezzo suo, trattava Alfonso co’ fuorusciti di Genova, dimostrato a Carlo quanto grande impedimento ne risulterebbe a’ disegni suoi, lo indusse a ordinare di mandare a Genova dumila svizzeri e a fare passare subito in Italia trecento lancie, acciocché sotto il governo di Obigní, il quale, ritornato da Roma, si era per comandamento del re fermato a Milano, fussino pronte e ad assicurare la Lombardia e a passare piú avanti se la necessitá o l’occasione lo ricercassino; congiugnendosi con loro cinquecento uomini d’arme italiani, condotti nel tempo medesimo agli stipendi del re sotto Giovanfrancesco da San Severino conte di Gaiazzo, Galeotto Pico conte della Mirandola e Ridolfo da Gonzaga, e cinquecento altri i quali era obligato a dargli il duca di Milano. E nondimeno Lodovico, non pretermettendo le solite arti, non cessava di confermare al pontefice e a Piero de’ Medici la disposizione sua alla quiete e sicurtá d’Italia, dando ora una speranza ora un’altra che presto dimostrazione evidente n’apparirebbe. Non può quasi essere che quello che molto efficacemente si afferma non faccia qualche ambiguitá, eziandio negli animi determinati a credere il contrario: però, se bene alle promesse sue non fusse piú prestata fede, non era perciò che per quelle in qualche parte non s’allentassino le imprese deliberate. Perché al pontefice e a Piero de’ Medici sarebbe sommamente piaciuto il tentare le cose di Genova, ma perché per questo lo stato di Milano direttamente si offendeva, il papa, richiesto da Alfonso delle galee e di unire seco in Romagna le sue genti, concedeva che le genti si unissino per la difesa comune in Romagna ma non giá che passassino piú avanti, e delle galee faceva difficoltá, allegando non essere ancora tempo a mettere Lodovico in tanta disperazione; e i fiorentini, richiesti di dare ricetto e rinfrescamento all’armata regia nel porto di Livorno, stavano sospesi per il medesimo rispetto e perché, essendosi scusati dalle dimande fatte dal re di Francia sotto pretesto della confederazione fatta con Ferdinando, malvolentieri si disponevano, insino che la necessitá gli costrignesse, a fare piú oltre che per virtú di quella fussino tenuti.
Ma non comportando piú le cose maggiore dilazione, finalmente l’armata, sotto don Federigo ammiraglio del mare, partí da Napoli; e Alfonso in persona raccolse l’esercito suo nell’Abruzzi per passare in Romagna. Ma gli parve necessario, innanzi procedesse piú oltre, di essere a parlamento col pontefice, desideroso del medesimo, per stabilire tutto quello che fusse da fare per la salute comune: però, il terzodecimo dí di luglio, si convennono insieme a Vicovaro terra di Verginio Orsino, dove dimorati tre dí si partirono molto concordi. Deliberossi in questo parlamento, per consiglio del pontefice, che la persona del re non passasse piú avanti, ma che dello esercito suo, quale il re affermava essere poco manco di cento squadre d’uomini d’arme, contando venti uomini d’arme per squadra, e piú di tremila tra balestrieri e cavalli leggieri, si fermasse seco una parte ne confini dell’Abruzzi, verso le Celle e Tagliacozzo, per sicurtá dello stato ecclesiastico e del suo; e che Verginio rimanesse in terra di Roma per fare contrapeso a’ Colonnesi, per il sospetto de’ quali stessino fermi in Roma dugento uomini d’arme del papa e una parte de’ cavalli leggieri del re; e che in Romagna andasse, con settanta squadre, col resto della cavalleria leggiera e con la maggiore parte delle genti ecclesiastiche, date solo per difesa, Ferdinando duca di Calavria (era questo il titolo de’ primogeniti de’ re di Napoli), giovane di alta speranza, menando seco, come moderatori della sua gioventú, Giovaniacopo da Triulzi governatore delle genti regie e il conte di Pitigliano, il quale dal soldo del papa era passato al soldo del re, capitani di esperienza e di riputazione: e pareva molto a proposito, avendosi a passare in Lombardia, la persona di Ferdinando, perché era congiunto di stretto e doppio parentado a Giovan Galeazzo, marito d’Isabella sua sorella e figliuolo di Galeazzo fratello di Ippolita, la quale era stata madre di Ferdinando. Ma una delle piú importanti cose che tra il pontefice e Alfonso si trattassino fu sopra i Colonnesi, perché per segni manifesti si comprendeva che aspiravano a nuovi consigli: imperocché, essendo stati Prospero e Fabrizio agli stipendi del re morto e da lui ottenuto stati e onorate condizioni, non solamente, morto lui, Prospero, dopo molte promesse fatte ad Alfonso di ricondursi seco, si era condotto, per opera del cardinale Ascanio, a comune col pontefice e col duca di Milano, né voluto poi consentire che tutta la sua condotta nel pontefice, che ne lo ricercava, si riducesse; ma Fabrizio, il quale aveva continuato negli stipendi di Alfonso, vedendo lo sdegno del papa e del re contro a Prospero, faceva difficoltá di andare col duca di Calavria in Romagna se prima con qualche modo conveniente non si stabilivano e assicuravano le cose di Prospero e di tutta la famiglia de’ Colonnesi. Questo era il colore delle loro difficoltá, ma in segreto, amendue tirati dall’amicizia che avevano grande con Ascanio, il quale, partitosi pochi dí innanzi di Roma per sospetto del papa, si era ridotto nelle loro terre, e da speranza di maggiori premi, e molto piú per dispiacere che ’l primo luogo con Alfonso e piú ampia partecipazione delle sue prosperitá fusse di Verginio Orsino, capo della fazione avversa, si erano condotti agli stipendi del re di Francia: il che per tenere occulto, insino a tanto giudicassino di potere sicuramente dichiararsi soldati suoi, simulando desiderio di convenire col pontefice e con Alfonso, i quali faceano instanza che Prospero, pigliando la medesima condotta da loro, perché altrimenti non potevano essere sicuri di lui, lasciasse i soldi del duca di Milano, trattavano continuamente con loro, ma per non conchiudere movevano ora una ora un’altra difficoltá nelle condizioni che erano proposte. Nella quale pratica era tra Alessandro e Alfonso diversitá di volontá: perché Alessandro, desideroso di spogliargli delle castella le quali in terra di Roma possedevano, aveva cara l’occasione di assaltargli; e Alfonso, non avendo altro fine che di assicurarsi, non inclinava alla guerra se non per ultimo rimedio, ma non ardiva di opporsi alla sua cupiditá. Però deliberorno di costrignergli con l’armi, e si stabilí con che forze e con che ordine; ma fatta prima esperienza se fra pochi dí si potessino comporre le cose loro.