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XIX
Questa fu quanta resistenza e fatica avesse il re di Francia nel conquisto d’un regno sí nobile e sí magnifico, nella difesa del quale non si dimostrò né virtú né animo né consiglio, non cupiditá d’onore non potenza non fede. Perché il duca di Calavria, il quale dopo la partita da Roma si era ritirato in su i confini del reame, poiché richiamato a Napoli per la fuga del padre ebbe assunto, con le solennitá ma non giá con la pompa né con la letizia consuete, l’autoritá e il titolo reale, raccolto l’esercito, nel quale erano cinquanta squadre di cavalli e seimila fanti di gente eletta e sotto capitani de’ piú stimati d’Italia, si fermò a San Germano per proibire che gli inimici non passassino piú innanzi, invitandolo l’opportunitá del luogo, cinto da una parte di montagne alte e aspre, dall’altra di paese paludoso e pieno di acque, e a fronte il fiume del Garigliano (dicevanlo gli antichi Liri), benché in quel luogo non sí grosso che qualche volta non si guadi; donde per la strettezza del passo è detto meritamente San Germano essere una delle chiavi delle porte del regno di Napoli: e mandò similmente gente in sulla montagna vicina, alla guardia del passo di Cancelle. Ma giá l’esercito suo, incominciato a impaurire del nome solo de’ franzesi, non dimostrava piú vigore alcuno, e i capitani, parte pensando a salvare se medesimi e gli stati propri, come quegli i quali della difesa del regno si diffidavano, parte desiderosi di cose nuove, cominciavano a vacillare non meno di fede che di animo; né si stava senza timore, essendo il reame tutto in grandissima sollevazione, che alle spalle qualche pericoloso disordine non nascesse. Però soprafatto il consiglio dalla viltá, come espugnato il Monte di San Giovanni intesono avvicinarsi il marisciallo di Gies col quale erano trecento lancie e una parte de’ fanti, si levorno vituperosamente da San Germano, e con tanto timore che lasciorno abbandonati per il cammino otto pezzi di grossa artiglieria, e si ridussono in Capua: la quale cittá il nuovo re, confidandosi nell’amore de’ capuani verso la casa d’Aragona e nella fortezza del sito, per avere a fronte il fiume Volturno che è quivi molto profondo, sperava difendere; e nel tempo medesimo, non distraendo le sue forze in altri luoghi, tenere Napoli e Gaeta. Seguitavano dietro a lui di mano in mano i franzesi ma sparsi e disordinati, facendosi innanzi piú tosto a uso di cammino che di guerra, andando ciascuno dove gli paresse dietro all’occasione di predare, senza ordine senza bandiere senza comandamento de’ capitani, e alloggiando il piú delle volte una parte di loro, alla notte, ne’ luoghi donde la mattina erano diloggiati gli aragonesi.
Ma né a Capua si dimostrò maggiore virtú o fortuna. Perché, poi che Ferdinando v’ebbe alloggiato l’esercito, il quale dopo la ritirata da San Germano era molto diminuito di numero, inteso per lettere della reina essere in Napoli nata, per la perdita di San Germano, sollevazione tale che non vi andando lui si susciterebbe qualche tumulto, vi cavalcò con piccola compagnia, per rimediare con la presenza sua a questo pericolo; avendo promesso di ritornare a Capua il dí seguente. Ma Gianiacopo da Triulzi, al quale commesse la cura di quella cittá, aveva giá occultamente chiesto al re di Francia uno araldo per avere facoltá di andare sicuro a lui; il quale come fu arrivato, il Triulzio con alcuni gentiluomini capuani andò a Calvi, dove il dí medesimo era entrato il re, non ostante che per molti altri della terra, disposti a osservare la fede a Ferdinando, con altiere parole contradetto gli fusse. A Calvi subito introdotto innanzi al re, cosí armato come era andato, parlò in nome de’ capuani e de’ soldati: che vedendo mancate le forze di difendersi a Ferdinando, al quale mentre vi era stata speranza alcuna avevano servito fedelmente, deliberavano di seguitare la fortuna sua quando fussino accettati con oneste condizioni; aggiugnendo che non si diffidava di condurre a lui la persona di Ferdinando, purché volesse riconoscerlo come sarebbe conveniente. Alle quali cose il re rispose con gratissime parole accettando l’offerte de’ capuani e de’ soldati, e la venuta eziandio di Ferdinando, pure che e’ sapesse non avere a ritenere parte alcuna benché minima del reame di Napoli ma a ricevere stati e onori nel regno di Francia. È dubbio quel che inducesse a tanta trasgressione Gianiacopo da Triulzi, capitano valoroso e solito a fare professione d’onore. Affermava egli di essere andato con volontá di Ferdinando per tentare di comporre le cose sue col re di Francia, dalla quale speranza essendo del tutto escluso, e manifesto non si potere piú difendere con l’armi il regno di Napoli, gli era paruto non solo lecito ma laudabile provedere in uno tempo medesimo alla salute de’ capuani e de’ soldati. Ma altrimenti sentirono gli uomini comunemente, perché si credette averlo mosso il desiderare la vittoria del re di Francia, sperando che occupato il regno di Napoli avesse a volgere l’animo al ducato di Milano; nella quale cittá essendo egli nato di nobilissima famiglia, né gli parendo avere appresso a Lodovico Sforza, o per il favore immoderato de’ Sanseverini o per altro rispetto, luogo pari alle virtú e meriti suoi, si era totalmente alienato da lui: per la quale cagione molti avevano sospettato che prima, in Romagna, avesse confortato Ferdinando a procedere piú cautamente che forse qualche volta non consigliavano l’occasioni.
Ma in Capua, giá innanzi al ritorno del Triulzio, ogni cosa aveva fatto mutazione: andato a sacco l’alloggiamento e i cavalli di Ferdinando, le genti d’armi cominciate a disperdersi in vari luoghi, e Verginio e il conte di Pitigliano con le compagnie loro ritiratisi a Nola, cittá posseduta dal conte per donazione degli Aragonesi, avendo prima mandato a chiedere per sé e per le genti salvocondotto da Carlo. Ritornava al termine promesso Ferdinando, avendo, col dare speranza della difesa di Capua, quietati secondo il tempo gli animi de’ napoletani, né sapendo quel che dopo la partita sua fusse accaduto. Era giá vicino a due miglia quando, intendendosi il ritorno suo, tutto il popolo per non lo ricevere si levò in arme, mandatigli di consiglio comune incontro alcuni della nobiltá a significargli che non venisse piú innanzi, perché la cittá, vedendosi abbandonata da lui, andato il Triulzio governatore delle sue genti al re di Francia, saccheggiato da’ soldati propri l’alloggiamento suo e i cavalli, partitisi Verginio e il conte di Pitigliano, dissoluto quasi tutto l’esercito, era stata necessitata per la salute propria di cedere al vincitore. Donde Ferdinando, poiché insino con le lacrime ebbe fatta invano instanza di essere ammesso, se ne ritornò a Napoli, certo che tutto ’l regno seguiterebbe l’esempio de’ capuani: dal quale mossa la cittá d’Aversa, posta tra Capua e Napoli, mandò subito imbasciadori a darsi a Carlo. E trattando questo medesimo giá manifestamente i napoletani, deliberato l’infelice re di non repugnare all’impeto tanto repentino della fortuna, convocati in sulla piazza del Castelnuovo, abitazione reale, molti gentiluomini e popolari, usò con loro queste parole: — Io posso chiamare in testimonio Dio e tutti quegli a’ quali sono stati noti per il passato i concetti miei, che io mai per cagione alcuna tanto desiderai di pervenire alla corona quanto per dimostrare a tutto il mondo gli acerbi governi del padre e dell’avolo mio essermi sommamente dispiaciuti, e per riguadagnare con le buone opere quello amore del quale essi per le loro acerbitá si erano privati. Non ha permesso l’infelicitá della casa nostra che io possa ricôrre questo frutto molto piú onorato che l’essere re, perché il regnare depende spesso dalla fortuna ma l’essere re che si proponga per unico fine la salute e la felicitá de’ popoli suoi depende solamente da se medesimo e dalla propria virtú. Sono le cose nostre ridotte in angustissimo luogo, e potremo piú presto lamentarci noi d’avere perduto il reame per la infedeltá e poco valore de’ capitani e eserciti nostri che non potranno gloriarsi gl’inimici d’averlo acquistato per propria virtú; e nondimeno non saremmo privi del tutto di speranza se ancora qualche poco di tempo ci sostenessimo, perché e da’ re di Spagna e da tutti i príncipi d’Italia si prepara potente soccorso, essendosi aperti gli occhi di coloro i quali non avevano prima considerato lo incendio, il quale abbrucia il reame nostro, dovere, se non vi proveggono, aggiugnere similmente agli stati loro; e almeno a me non mancherebbe l’animo di terminare insieme il regno e la vita con quella gloria che si conviene a uno re giovane, disceso per sí lunga successione di tanti re, e all’espettazione che insino a ora avete tutti avuta di me. Ma perché queste cose non si possono tentare senza mettere la patria comune in gravissimi pericoli, sono piú tosto contento di cedere alla fortuna, di tenere occulta la mia virtú, che per sforzarmi di non perdere il mio regno essere cagione di effetti contrari a quel fine per il quale avevo desiderato di essere re. Consiglio e conforto voi che mandiate a prendere accordo col re di Francia, e perché possiate farlo senza macula dell’onore vostro, v’assolvo liberamente dall’omaggio e dal giuramento che pochi dí sono mi faceste; e vi ricordo che con l’ubbidienza e con la prontezza del riceverlo vi sforziate di mitigare la superbia naturale de’ franzesi. Se i costumi barbari vi faranno venire in odio l’imperio loro e desiderare il ritorno mio io sarò in luogo da potere aiutare la vostra volontá, pronto a esporre sempre la propria vita per voi a ogni pericolo; ma se lo imperio loro vi riuscirá benigno, da me non riceverá giammai questa cittá né questo reame travaglio alcuno. Consolerannosi per il vostro bene le miserie mie, e molto piú mi consolerá se io saprò che in voi resti qualche memoria che io, né primogenito regio né re, non ingiuriai mai persona; che in me non si vidde mai segno alcuno di avarizia, segno alcuno di crudeltá; che a me non hanno nociuto i miei peccati ma quegli de’ padri miei; che io sono deliberato di non essere mai cagione che, o per conservare il regno o per recuperarlo, abbia a patire alcuno di questo reame; che piú mi dispiace il perdere la facoltá di emendare i falli del padre e dello avolo che il perdere l’autoritá e lo stato reale. Benché esule e spogliato della patria e del regno mio, mi riputerò non al tutto infelice se in voi resterá memoria di queste cose, e una ferma credenza che io sarei stato re piú presto simile ad Alfonso vecchio mio proavo che a Ferdinando e a questo ultimo Alfonso. —
Non potette essere che queste parole non fussino udite con molta compassione, anzi certo è che a molti commossono le lagrime; ma era tanto esoso in tutto il popolo e quasi in tutta la nobiltá il nome de’ due ultimi re, tanto il desiderio de’ franzesi, che per questo non si fermò in parte alcuna il tumulto, ma subito che esso fu ritirato nel castello, il popolo cominciò a saccheggiare le stalle sue, che erano in sulla piazza: la quale indegnitá non potendo egli sopportare, accompagnato da pochi corse fuori con generositá grande a proibirlo; e potette tanto nella cittá giá ribellata la maestá del nome reale che ciascuno, fermato l’impeto, si discostò dalle stalle. Ma ritornato nel castello, e facendo abbruciare e sommergere le navi le quali erano nel porto, poi che altrimenti non poteva privarne gl’inimici, incominciò per qualche segno a sospettare che i fanti tedeschi, che in numero cinquecento stavano alla guardia del castello, pensassino di farlo prigione: però con subito consiglio donò loro le robe che in quello si conservavano. Le quali mentre che attendono a dividere, egli, avendo prima liberati di carcere, eccetto il principe di Rossano e il conte di Popoli, tutti i baroni avanzati alla crudeltá del padre e dell’avolo, uscito del castello per la porta del soccorso, montò in sulle galee sottili che l’aspettavano nel porto, e con lui don Federigo e la reina vecchia, moglie giá dell’avolo, con Giovanna sua figliuola; e seguitato da pochissimi de’ suoi navigò all’isola d’Ischia, detta dagli antichi Enaria, vicina a Napoli a trenta miglia: replicando spesso con alta voce, mentre che aveva innanzi agli occhi il prospetto di Napoli, il versetto del salmo del profeta che contiene essere vane le vigilie di coloro che custodiscono la cittá la quale da Dio non è custodita. Ma non se gli rappresentando oramai altro che difficoltá, ebbe a fare in Ischia esperienza della sua virtú, e della ingratitudine e infedeltá che si scuopre contro a coloro i quali sono percossi dalla fortuna; perché non volendo il castellano della rocca riceverlo se non con uno compagno solo, egli come fu dentro se gli gittò addosso con tanto impeto che con la ferocia e con la memoria dell’autoritá regia, spaventò in modo gli altri che in potestá sua ridusse subito il castellano e la rocca.
Per la partita di Ferdinando da Napoli ciascuno cedeva per tutto, come a uno impetuosissimo torrente, alla fama sola de’ vincitori, e con tanta viltá che dugento cavalli della compagnia di Ligní andati a Nola, dove con quattrocento uomini d’arme si erano ridotti Verginio e il conte di Pitigliano, gli feceno senza ostacolo alcuno prigioni; perché essi, parte confidandosi nel salvocondotto il quale avevano avviso da i suoi essere stato conceduto dal re, parte menati dal medesimo terrore dal quale erano menati tutti gli altri, senza contrasto s’arrenderono; donde furno condotti prigioni alla rocca di Mondracone, e messe in preda tutte le genti loro.
Avevano in questo mezzo trovato Carlo in Aversa gl’imbasciadori napoletani mandati a dargli quella cittá. A’ quali avendo conceduto con somma liberalitá molti privilegi e esenzioni, entrò il dí seguente, che fu il vigesimo primo di febbraio in Napoli, ricevuto con tanto plauso e allegrezza d’ognuno che vanamente si tenterebbe di esprimerlo, concorrendo con esultazione incredibile ogni sesso ogni etá ogni condizione ogni qualitá ogni fazione d’uomini, come se fusse stato padre e primo fondatore di quella cittá; né manco degli altri, quegli che, o essi o i maggiori loro, erano stati esaltati o beneficati dalla casa d’Aragona. Con la quale celebritá andato a visitare la chiesa maggiore, fu dipoi, perché Castelnuovo si teneva per gl’inimici, condotto a alloggiare in Castelcapuano, giá abitazione antica de’ re franzesi: avendo con maraviglioso corso di inaudita felicitá, sopra l’esempio ancora di Giulio Cesare, prima vinto che veduto; e con tanta facilitá che e’ non fusse necessario in questa espedizione né spiegare mai uno padiglione né rompere mai pure una lancia, e fussino tanto superflue molte delle sue provisioni che l’armata marittima, preparata con gravissima spesa, conquassata dalla violenza del mare e traportata nell’isola di Corsica, tardò tanto ad accostarsi a’ liti del reame che prima il re era giá entrato in Napoli. Cosí per le discordie domestiche, per le quali era abbagliata la sapienza tanto famosa de’ nostri príncipi, si alienò, con sommo vituperio e derisione della milizia italiana e con gravissimo pericolo e ignominia di tutti, una preclara e potente parte d’Italia dallo imperio degli italiani allo imperio di gente oltramontana. Perché Ferdinando vecchio, se bene nato in Ispagna, nondimeno, perché insino dalla prima gioventú era stato, o re o figliuolo di re, continuamente in Italia, e perché non aveva principato in altra provincia, e i figliuoli e i nipoti, tutti nati e nutriti a Napoli, erano meritamente riputati italiani.