< Storia d'Italia < Libro I
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XV

Piú vivo sdegno de’ fiorentini contro Piero de’ Medici per i patti conclusi col re di Francia. Lodovico Sforza ottiene l’investitura di Genova. Si impedisce a Piero de’ Medici di entrare nel palazzo della signoria. Tumulto del popolo e fuga di Piero da Firenze. La precedente potenza della casa de’ Medici in Firenze. I pisani si rivendicano in libertá col consenso di Carlo VIII. Contrari consigli del cardinale di San Piero in Vincoli ai pisani.

Ma pervenuta a Firenze la notizia delle convenzioni fatte da Piero de’ Medici, con tanta diminuzione del dominio loro e con sí grave e ignominiosa ferita della republica, si concitò in tutta la cittá ardentissima indegnazione; commovendogli oltre a tanta perdita l’avere Piero, con esempio nuovo né mai usato da’ suoi maggiori, alienato, senza consiglio de’ cittadini, senza decreto de’ magistrati, una parte tanto notabile del dominio fiorentino: perciò e le querele erano acerbissime contro a lui e per tutto si udivano voci di cittadini che stimolavano l’un l’altro a recuperare la libertá; non avendo ardire quegli che con la volontá aderivano a Piero di opporsi, né con le parole né con le forze, a tanta inclinazione. Ma non avendo facoltá di difendere Pisa e Livorno, se bene non si confidassino di rimuovere il re dalla volontá d’avere quelle fortezze, nondimeno, per separare i consigli della republica da’ consigli di Piero, e perché almeno non fusse riconosciuto dal privato quel che al publico apparteneva, gli mandorno subito molti imbasciadori, di quegli che erano malcontenti della grandezza de’ Medici; e perciò Piero, conoscendo questo essere principio di mutazione dello stato, per provedere alle cose sue innanzi nascesse maggiore disordine, si partí dal re, sotto colore di andare a dare perfezione a quello gli aveva promesso. Nel quale tempo e Carlo partí da Serezana per andare a Pisa, e Lodovico Sforza, ottenuto, con pagare certa quantitá di danari, che la investitura di Genova, conceduta dal re pochi anni innanzi a Giovan Galeazzo per lui e per i discendenti, si trasferisse in sé e ne’ discendenti suoi, se ne ritornò a Milano; ma con l’animo turbato contro a Carlo, per avere negato di lasciare a guardia sua, secondo diceva essergli stato promesso, Pietrasanta e Serezana: le quali terre, per farsi scala alla ardentissima cupiditá che aveva di Pisa, domandava, come tolte ingiustamente, pochissimi anni innanzi, da’ fiorentini a’ genovesi.

Ritornato Piero de’ Medici a Firenze trovò la maggiore parte de’ magistrati alienata da lui e sospesi gli animi degli amici di piú momento, perché contro al consiglio loro aveva tutte le cose imprudentemente governate; e il popolo in tanta sollevazione che volendo egli il dí seguente, che fu il dí nono di novembre, entrare nel palagio nel quale risedeva la signoria, magistrato sommo della republica, gli fu proibito da alcuni magistrati che armati guardavano la porta, de’ quali fu il principale Jacopo de’ Nerli, giovane nobile e ricco. Il che divulgato per la cittá, il popolo subito tumultuosamente pigliò l’armi concitato con maggiore impeto perché Paolo Orsini co’ suoi uomini d’arme, chiamato da Piero, s’approssimava: donde egli, che giá alle sue case ritornato era, perduto d’animo e di consiglio, e inteso che la signoria l’aveva dichiarato rebelle, si fuggí con grandissima celeritá di Firenze, seguitandolo Giovanni cardinale della Chiesa romana e Giuliano suoi fratelli, a’ quali similmente furono imposte le pene ordinate contro a i rebelli; e se ne andò a Bologna. Ove Giovanni Bentivogli, desiderando in altrui quel vigore di animo il quale non rappresentò poi nelle sue avversitá, mordacemente nel primo congresso lo riprese che, in pregiudicio non solo proprio ma non meno per rispetto dell’esempio di tutti quegli che opprimevano la libertá delle loro patrie, avesse cosí vilmente e senza la morte di uno uomo solo abbandonata tanta grandezza. In questo modo, per la temeritá di uno giovane, cadde per allora la famiglia de’ Medici di quella potenza la quale, sotto nome e con dimostrazioni quasi civili, aveva, sessanta anni continui, ottenuta in Firenze: cominciata in Cosimo suo bisavolo, cittadino di singolare prudenza e di ricchezze inestimabili e però celebratissimo per tutte le parti della Europa, e molto piú perché con ammirabile magnificenza e con animo veramente regio, avendo piú rispetto alla eternitá del nome suo che alla comoditá de’ discendenti, spese piú di quattrocentomila ducati in fabriche di chiese di monasteri e d’altri superbissimi edifici, non solo nella patria ma in molte parti del mondo; del quale Lorenzo nipote, grande di ingegno e di eccellente consiglio, né di generositá dell’animo minore dell’avolo, e nel governo della republica di piú assoluta autoritá, benché inferiore assai di ricchezze e di vita molto piú breve, fu in grande estimazione per tutta Italia e appresso a molti príncipi forestieri, la quale dopo la morte si convertí in memoria molto chiara, parendo che insieme con la sua vita la concordia e la felicitá d’Italia fussino mancate.

Ma il dí medesimo nel quale si mutò lo stato di Firenze, essendo Carlo nella cittá di Pisa, i pisani ricorsono a lui popolarmente a domandare la libertá, querelandosi gravemente delle ingiurie le quali dicevano ricevere da’ fiorentini; e affermandogli alcuni de’ suoi, che erano presenti, essere domanda giusta perché i fiorentini gli dominavano acerbamente, il re, non considerando quello che importasse questa richiesta e che era contraria alle cose trattate in Serezana, rispose subito essere contento: alla quale risposta il popolo pisano, pigliate l’armi e gittate per terra de’ luoghi publici le insegne de’ fiorentini, si vendicò cupidissimamente in libertá. E nondimeno il re, contrario a se medesimo né sapendo che cose si concedesse, volle che vi restassino gli ufficiali de’ fiorentini a esercitare la solita giurisdizione; e da altra parte lasciò la cittadella vecchia in mano de’ pisani, ritenendo per sé la nuova che era di importanza molto maggiore. Potette apparire in questi accidenti di Pisa e di Firenze quel che è confermato per proverbio comune, che gli uomini, quando si approssimano i loro infortuni, pérdono principalmente la prudenza, con la quale arebbono potuto impedire le cose destinate: perché e i fiorentini sospettosissimi in ogni tempo della fede de’ pisani, aspettando una guerra di tanto pericolo, non chiamorono a Firenze i cittadini principali di Pisa, come per assicurarsene solevano fare, di numero grande, in ogni leggiero accidente; né Piero de’ Medici, appropinquandosi tante difficoltá, armò di fanti forestieri la piazza e il palagio publico, come in sospetti molto minori si era fatto molte altre volte: le quali provisioni arebbono fatto impedimento grande a queste mutazioni. Ma in quanto alle cose di Pisa, è manifesto che a’ pisani, inimicissimi per natura del nome fiorentino, dette animo principalmente a questo moto l’autoritá di Lodovico Sforza, il quale aveva tenuto prima pratiche occulte a questo effetto con alcuni cittadini pisani sbanditi per delitti privati; e il dí medesimo Galeazzo da San Severino, il quale da lui era stato lasciato appresso al re, concitò il popolo a questa tumultuazione, mediante la quale Lodovico si persuadeva il dominio di Pisa avergli presto a pervenire, non sapendo tale cosa dovere, dopo non molto tempo, essere cagione di tutte le sue miserie. Ma è medesimamente manifesto che, comunicando la notte dinanzi alcuni pisani quel che avevano nell’animo di fare al cardinale di San Piero in Vincola, egli, il quale insino a quel dí non era forse mai stato autore di quieti consigli, gli confortò con gravi parole che considerassino non solamente la superficie e i princi*pi delle cose ma piú intrinsecamente quel che potessino in processo di tempo partorire. Essere desiderabile e preziosa cosa la libertá, e tale che meriti di sottomettersi a ogni pericolo quando, almeno in qualche parte, s’ha speranza verisimile di sostentarla. Ma Pisa, cittá spogliata di popolo e di ricchezze, non avere facoltá di difendersi dalla potenza de’ fiorentini; e essere fallace consiglio il promettersi che l’autoritá del re di Francia avesse a conservargli; perché quando bene non potessino piú in lui i danari de’ fiorentini, come verisimilmente potrebbono, atteso massime le cose trattate a Serezana, non avere sempre i franzesi a stare in Italia, perché per gli esempli de’ tempi passati si poteva facilmente giudicare il futuro; e essere grande imprudenza l’obligarsi a un pericolo perpetuo sotto fondamenti non perpetui, e per speranze incertissime pigliare con inimici tanto piú potenti la guerra certa, nella quale non si potevano promettere gli aiuti d’altri perché dependevano dall’altrui volontá e, quel che era piú, da accidenti molto vari; e quando bene gli ottenessino, non per questo fuggirebbono ma sarebbono piú gravi le calamitá della guerra, vessandogli nel tempo medesimo i soldati degli inimici e aggravandogli i soldati degli amici, tanto piú acerbe a tollerare quanto conoscerebbono non combattere per la libertá propria ma per l’imperio alieno, permutando servitú a servitú; perché niuno principe vorrebbe implicarsi, se non per dominargli, ne’ travagli e nelle spese d’una guerra, la quale, per le ricchezze e per la vicinitá de’ fiorentini, che mentre che avessino spirito non cesserebbono mai di molestargli, sostenere se non con grandissime difficoltá non si potrebbe.

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