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XI
Risolveronsi in questo mezzo nel reame di Napoli quasi tutte le reliquie della guerra de’ franzesi: perché la cittá di Taranto con le fortezze, oppressata dalla fame, si arrendé a viniziani che l’avevano assediata con la loro armata, i quali dopo averla ritenuta molti dí, ed essendo giá nato sospetto che se la volessino appropriare, la restituirono finalmente a Federigo, instandone assai il pontefice e i re di Spagna; ed essendosi inteso a Gaeta che la nave normanda, avendo combattuto sopra Porto Ercole con alcune navi de’ genovesi che aveva incontrate, seguitando dipoi il suo cammino, vinta dalla tempesta del mare era andata a traverso, i franzesi che erano in quella cittá, alla quale il nuovo re era tornato a campo, ancora che, secondo che era la fama, avessino provisione da sostenersi qualche mese, giudicando che alla fine il re loro non sarebbe piú sollecito a soccorrergli che e’ fusse stato a soccorrere tanta nobiltá e tante terre che si tenevano per lui, accordorono con Federigo per mezzo di Obigní, il quale per alcune difficoltá nate nella consegnazione delle fortezze di Calavria non era ancora partito da Napoli, di lasciare la terra e la fortezza, avendo facoltá di andarne salvi per mare in Francia con tutte le robe loro.
Per il quale accordo essendo il re di Francia alleggierito de’ pensieri di soccorrere il reame, e da altra parte acceso dagli stimoli del danno e dell’infamia, deliberò di assaltare Genova, sperando nella parte che v’aveva Batistino Fregoso, stato giá doge di quella cittá, e nel seguito che aveva il cardinale di San Piero in Vincola in Savona sua patria e in quelle riviere; e pareva gli aggiugnesse opportunitá l’essere in questo tempo discordi Gianluigi dal Fiesco e gli Adorni, e universalmente i genovesi malcontenti del duca di Milano per essere stato autore che nella vendita di Pietrasanta i lucchesi fussino stati preferiti a loro e perché, avendo poi promesso di farla ritornare nelle loro mani e usata a questo, per mitigare lo sdegno conceputo, l’autoritá de’ viniziani, gli aveva pasciuti molti mesi di vane speranze. Il timore di questa deliberazione del re costrinse Lodovico, il quale per le cose di Pisa era quasi alienato da’ viniziani, a unirsi di nuovo con loro, e a mandare a Genova quegli cavalli e fanti tedeschi che Cesare aveva lasciati in Italia: a’ quali se non fusse sopravenuta questa necessitá non sarebbe stata fatta alcuna provisione.
Le quali cose mentre che si trattano, il pontefice, parendogli di avere opportunitá grande d’occupare gli stati degli Orsini poiché i capi di quella famiglia erano ritenuti a Napoli, pronunziò nel concistorio, Verginio e gli altri, rebelli, e confiscò gli stati loro, per essere andati, contro a’ suoi comandamenti, agli stipendi de’ franzesi; il che fatto, assaltò, nel principio dell’anno mille quattrocento novantasette, le terre loro, avendo ordinato che i Colonnesi, da piú luoghi dove confinano con gli Orsini, facessino il medesimo. Fu questa impresa confortata assai dal cardinale Ascanio per l’antica amicizia sua co’ Colonnesi e dissensione con gli Orsini, e consentita dal duca di Milano; ma molesta a’ viniziani i quali desideravano di farsi benevola quella famiglia; e nondimeno, non potendo con giustificazione alcuna impedire che il pontefice proseguisse le sue ragioni, né essendo utile l’alienarselo in tempo tale, consentirono che il duca d’Urbino soldato comune andasse a unirsi con le genti della Chiesa, delle quali era capitano generale il duca di Candia e legato il cardinale di Luna pavese, cardinale dependente in tutto da Ascanio. E il re Federigo vi mandò in aiuto suo Fabrizio Colonna. Questo esercito, poi che se gli furono arrendute Campagnano e l’Anguillara e molte altre castella, andò a campo a Trivignano; la quale terra, difesasi per qualche dí francamente, si dette a discrezione: ma mentre si difendeva, Bartolomeo d’Alviano uscito di Bracciano roppe, otto miglia appresso a Roma, quattrocento cavalli che conducevano artiglierie nel campo ecclesiastico; e un altro dí, essendo corso presso alla Croce a Montemari, mancò poco che non pigliasse il cardinale di Valenza, il quale, uscito di Roma a cacciare, fuggendo si salvò. Preso Trivignano, andò il campo all’Isola, e battuta con l’artiglierie una parte della rocca la conseguí per accordo. E si ridusse finalmente tutta la guerra intorno a Bracciano; dove era collocata tutta la speranza della difesa degli Orsini, perché il luogo, prima forte, era stato bene munito e riparato, e fortificato il borgo, alla fronte del quale avevano fatto un bastione; e dentro, difensori a sufficienza sotto il governo dello Alviano: che, giovane ancora ma di ingegno feroce e di celeritá incredibile, ed esercitato nelle armi, dava di sé quella speranza alla quale non furono nel tempo seguente inferiori le sue azioni. Né il pontefice cessava di accrescere ogni dí il suo esercito, al quale aveva di nuovo aggiunto ottocento fanti tedeschi, di quegli che avevano militato nel reame di Napoli. Combattessi per molti dí da ogni parte con grande contenzione, avendo quegli di fuora piantate da piú luoghi l’artiglierie né mancando quegli di dentro di provedere e riparare per tutto con somma diligenza e franchezza: furono nondimeno, dopo non molti dí, costretti ad abbandonare il borgo; il quale preso, gli ecclesiastici dettono un assalto feroce alla terra, ma benché avessino giá poste le bandiere in sulle mura furono sforzati a ritirarsi con molto danno: nella quale battaglia fu ferito Antonello Savello. Dimostrorono quegli di dentro la medesima virtú in uno altro assalto, ributtando con maggiore danno gli inimici, de’ quali furono tra morti e feriti piú di dugento; con laude grandissima dell’Alviano a cui s’attribuiva principalmente la gloria di questa difesa, perché e dentro era prontissimo a tutte le fazioni necessarie e fuori con spessi assalti teneva in quasi continua molestia, e di dí e di notte, l’esercito degli inimici. Accrebbe le laudi sue perché, avendo ordinato che certi cavalli leggieri corressino da Cervetri, che si teneva per gli Orsini, un dí insino in sul campo, uscito fuora per l’occasione di questo tumulto, messe in fuga i fanti che guardavano l’artiglieria, della quale condusse alcuni pezzi minori in Bracciano. E nondimeno, battuti e travagliati il dí e la notte, cominciavano a sostentarsi principalmente con la speranza del soccorso; perché Carlo Orsino e Vitellozzo, congiunto per il vincolo della fazione guelfa a gli Orsini, i quali, ricevuti danari dal re di Francia per riordinare le compagnie loro dissipate nel regno di Napoli, erano passati in Italia in su’ legni venuti di Provenza a Livorno, si preparavano per soccorrere a tanto pericolo. Però Carlo, andato a Soriano, attendeva a raccorre i soldati antichi e gli amici e partigiani degli Orsini; e Vitellozzo faceva a Cittá di Castello il medesimo de’ suoi soldati e de’ fanti del paese, i quali come ebbe uniti, con dugento uomini d’arme e mille ottocento fanti de’ suoi, e con artiglieria in sulle carrette, all’uso franzese, si congiunse a Soriano con Carlo. Per il che i capitani ecclesiastici, giudicando pericoloso, se e’ procedessino piú innanzi, il trovarsi in mezzo tra loro e quegli che erano in Bracciano, e per non lasciare in preda tutto il paese circostante nel quale avevano giá saccheggiate alcune castella, levato il campo da Bracciano e ridotte l’artiglierie grosse nell’Anguillara, si indirizzorono contro degli inimici; co’ quali incontratisi tra Soriano e Bassano il combatterono insieme per piú ore ferocemente, ma finalmente gli ecclesiastici, benché nel principio del combattere fusse preso da’ Colonnesi Franciotto Orsino, furono messi in fuga, tolti loro i carriaggi tolta l’artiglieria, e tra morti e presi piú di cinquecento uomini; tra’ quali restorono prigioni il duca d’Urbino Giampiero da Gonzaga conte di Nugolara, e molti altri uomini di condizione; e il duca di Candia, ferito leggiermente nel volto, e con lui il legato apostolico e Fabrizio Colonna, fuggendo, si salvorno in Ronciglione. Riportò la laude principale di questa vittoria Vitellozzo, perché la fanteria da Cittá di Castello, stata disciplinata innanzi da’ fratelli e da lui al modo delle ordinanze oltramontane, fu questo dí aiutata grandemente dall’industria sua; perché avendogli armati di lancie piú lunghe circa un braccio di quello che era l’usanza comune, ebbono tanto vantaggio quando da lui furono condotte a urtarsi co’ fanti degl’inimici che, offendendo loro senza essere offesi, per la lunghezza delle lancie, gli messono in fuga facilmente; e con tanto maggiore onore quanto nella battaglia contraria erano ottocento fanti tedeschi, della quale nazione avevano i fanti italiani sempre, dopo la passata del re Carlo, avuto grandissimo terrore. Dopo questa vittoria cominciorono i vincitori a correre senza ostacolo per tutto il paese di qua dal Tevere, e dipoi passata una parte delle genti di lá dal fiume sotto Monte Ritondo, correvano per quella strada che sola era restata sicura. Per i quali pericoli il pontefice, soldando di nuovo molta gente, chiamò del regno di Napoli in soccorso suo Consalvo e Prospero Colonna. E nondimeno, pochi dí poi, interponendosi con grande studio gli oratori de’ viniziani per beneficio degli Orsini, e lo spagnuolo per timore che da questo principio non nascesse nelle cose della lega maggiore disordine, fu fatta pace; con inclinazione molto pronta cosí del pontefice, alienissimo per natura dallo spendere, come degli Orsini, i quali, non avendo danari ed essendo abbandonati da ciascuno, conoscevano essere necessario che alla fine cedessino alla potenza del pontefice. La somma de’ patti fu: che agli Orsini fusse lecito continuare insino alla fine nella condotta del re di Francia, nella quale era espresso che e’ non fussino tenuti a pigliare l’armi contro alla Chiesa: riavessino tutte le terre perdute in questa guerra ma pagando al pontefice cinquantamila ducati, trentamila subito, che da Federigo fussino liberati Giangiordano e Pagolo Orsini, perché Verginio era pochi dí innanzi morto in Castel dell’Uovo, o di febbre o come alcuni credettono di veleno, e gli altri ventimila si pagassino infra otto mesi, ma depositando in mano de’ cardinali [Ascanio] e di Sanseverino l’Anguillara e Cervetri, per l’osservanza del pagamento: liberassinsi i prigioni fatti nella giornata di Soriano, eccetto il duca d’Urbino; della liberazione del quale, benché s’affaticassino gli oratori de’ collegati, il pontefice non fece instanza, perché sapeva gli Orsini non avere facoltá di provedere a’ danari, i quali si trattava pagassino, se non mediante la taglia di quel duca; la quale fu poco poi concordata in quarantamila ducati, e aggiuntovi che non prima fusse liberato che Pagolo Vitelli, il quale quando si arrendé Atella era restato prigione del marchese di Mantova, conseguisse senza pagare alcuna cosa la sua liberazione.
Espedito il pontefice poco onorevolmente della guerra degli Orsini, dati danari alle genti che conduceva Consalvo, e unite seco le sue, lo mandò all’impresa d’Ostia che si teneva ancora in nome del cardinale di San Piero in Vincola, dove appena furono piantate l’artiglierie che il castellano si arrendé a Consalvo a discrezione. Avuta Ostia, Consalvo quasi trionfante entrò in Roma, con cento uomini d’arme dugento cavalli leggieri e mille cinquecento fanti, tutti soldati spagnuoli, menandosi innanzi il castellano come prigione, il quale poco poi liberò; e incontrato da molti prelati, dalla famiglia del pontefice e di tutti i cardinali, concorrendo tutto il popolo e tutta la corte, cupidissimi di vedere un capitano il nome del quale risonava giá chiarissimamente per tutta Italia, fu condotto al papa residente in concistorio; il quale, ricevutolo con grandissimo onore, gli donò la rosa, solita a donarsi ogni anno da’ pontefici, in testimonianza del suo valore. Ritornò poi a unirsi col re Federigo: il quale, assaltato lo stato del prefetto di Roma, aveva preso tutte le terre che, tolte nell’acquisto del regno al marchese di Pescara, gli erano state donate dal re di Francia; e presa Sora e Arci, ma non le rocche, era a campo a Rocca Guglielma, avendo per accordo conseguito lo stato del conte d’Uliveto, giá, innanzi vendesse quello ducato al prefetto, duca di Sora. E nondimeno in queste prosperitá non mancavano a Federigo molte molestie; non solo dagli amici, perché Consalvo teneva in nome de’ suoi re una parte della Calavria, ma eziandio dagli inimici riconciliati. Perché essendo stato una sera, uscendo di Castenuovo di Napoli, ferito gravemente da uno certo greco il principe di Bisignano, entrò tanto terrore nel principe di Salerno che questo non fusse stato fatto per ordine del re, in vendetta dell’offese passate, che subito, non dissimulando la causa del sospetto, se n’andò da Napoli a Salerno; e benché il re mandasse in potestá sua il greco, che era in carcere, per giustificarlo, che egli (come era la veritá) l’aveva ferito per ingiuria ricevuta molti anni innanzi da lui nella persona della sua moglie, nondimeno, come nell’antiche e gravi inimicizie è difficile stabilire fedele reconciliazione, perché è impedita o dal sospetto o dalla cupiditá della vendetta, non si potette mai piú il principe disporre a fidarsi di lui. Il che dando speranza che nel regno si avessino a fare nuove sollevazioni, a’ franzesi, i quali ancora tenevano il monte di Sant’Angelo e alcuni altri luoghi forti, era cagione di fargli perseverare piú costantemente al difendersi.