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II
Ma era fatale che lo incendio di Pisa, stato suscitato e nutrito dal duca di Milano per appetito immoderato di dominare, avesse finalmente ad abbruciare l’autore. Perché egli, e per l’emulazione e per il pericolo che dalla troppa grandezza de’ viniziani vedeva soprastare a sé e agli altri d’Italia, non poteva pazientemente comportare che ’l frutto delle sue arti e fatiche fusse ricolto da loro; e avendo l’occasione della disposizione de’ fiorentini, ostinati a non cessare per qualunque accidente dalle offese de’ pisani, e parendogli per la caduta del Savonarola, e per la morte di Francesco Valori, che aveva tenuto le parti contrarie a lui, potere piú confidare di quella cittá che non aveva fatto per il passato, deliberò d’aiutare i fiorentini alla recuperazione di Pisa con l’armi, poiché le pratiche e l’autoritá sua e degli altri non era stata bastante: persuadendosi vanamente o che, innanzi che dal re di Francia potesse essere fatto movimento alcuno, Pisa sarebbe, o per forza o per concordia, ridotta in potestá de’ fiorentini o veramente che il senato viniziano, ritenuto da quella prudenza che non aveva potuto in se medesimo, non avesse mai, per sdegni e per cagioni anco importanti, a desiderare che con pericolo comune ritornassino l’armi franzesi in Italia, le quali si era tanto affaticato per cacciarne.
La quale imprudentissima deliberazione uno disordine che contro a’ fiorentini succedette nel contado di Pisa gli fece accelerare. Perché avendo avuto notizia le genti loro, che erano al Pontadera, che circa settecento cavalli e fanti usciti di Pisa ritornavano con una grossa preda, fatta nella Maremma di Volterra, andorono quasi tutti, guidati dal conte Renuccio e da Guglielmo de’ Pazzi commissario fiorentino, a tagliare loro la strada per ricuperarla; e avendogli riscontrati nella valle di Santo Regolo gli avevano messi in disordine e riavuta la maggiore parte della preda, quando sopragiunsono centocinquanta uomini d’arme, che per soccorrere i suoi erano partiti di Pisa poi che avevano inteso la mossa delle genti de’ fiorentini: i quali, trovatigli stracchi e parte disordinati nel rubare, non potendo l’autoritá del conte Renuccio ridurre i suoi uomini d’arme a fare testa, dopo essere stata fatta da’ fanti qualche difesa, gli messono in fuga, morti molti fanti, presi molti de’ capi e la maggiore parte de’ cavalli; in modo che non senza difficoltá il commissario e il conte si salvorono in Santo Regolo, dando, come si fa nelle cose avverse, imputazione l’uno all’altro del disordine seguito. Afflisse questa rotta i fiorentini, i quali, per provedere subito al pericolo, né potendo armarsi sí presto d’altri soldati, ed essendo in mala riputazione e con la compagnia svaligiata il conte Renuccio, che era governatore generale delle genti loro, deliberorno di voltare a Pisa i Vitelli che erano nel contado d’Arezzo: ma furno necessitati concedere a Paolo il titolo di capitano generale del loro esercito. Costrinsegli ancora questo caso a ricercare con grande instanza aiuto dal duca di Milano: e tanto piú che, subito dopo la rotta, avevano supplicato al re di Francia che, per rimuovere con le forze e con l’autoritá i loro pericoli, mandasse trecento lancie in Toscana, ratificasse la condotta, fatta vivente Carlo, de’ Vitelli, provedendo per la porzione sua al pagamento, e confortasse i viniziani ad astenersi da offendergli; delle quali cose, perché il re non voleva farsi odioso o sospetto a’ viniziani né muovere in Italia cosa alcuna se non quando volesse cominciare la guerra contro allo stato di Milano, avevano riportato parole grate senza effetti. Ma il duca non fu lento in questo bisogno, dubitando che i viniziani non pigliassino, con l’occasione della vittoria, tanto campo che fusse poi troppo difficile a reprimergli: e però, data a’ fiorentini ferma intenzione di soccorrergli, volle prima risolvere con loro che provisioni fussino necessarie non solo a difendersi ma a condurre a fine l’impresa di Pisa.
Alla quale, perché per quell’anno non si temeva di moto alcuno del re di Francia, erano volti gli occhi di tutta Italia, quieta allora da ogni altra perturbazione: conciossiacosaché, se bene in terra di Roma si fussino prese l’armi tra i Colonnesi e gli Orsini, era la prudenza di loro medesimi stata presto superiore agli odii e alle inimicizie. L’origine fu che i Colonnesi e i Savelli, mossi dalla occupazione, fatta da Iacopo Conte di Torremattia, avevano assaltate le terre della famiglia de’ Conti; e da altra parte gli Orsini, per la congiunzione delle fazioni, aveano prese l’armi in favore loro: di maniera che, essendosi occupate per l’una parte e per l’altra piú castella, combatterono finalmente insieme con tutte le forze a piè di Monticelli nel contado di Tivoli; dove dopo lunga e valorosa battaglia, stimolandogli non meno la passione ardente delle parti che la gloria e l’interesse degli stati, gli Orsini, che aveano dumila fanti e ottocento cavalli, furono messi in fuga, perderono le bandiere e restò prigione Carlo Orsino; e dalla parte de’ Colonnesi fu ferito Antonello Savello assai chiaro condottiere, che ne morí pochi dí poi. Dopo il quale successo, il pontefice, mostrando essergli molesta la turbazione del paese propinquo a Roma, si interpose alla concordia: la quale mentre che con non troppo buona fede si tratta da lui, secondo la sua duplicitá, gli Orsini, raccolte nuove forze, andorono a campo a Palombara terra principale de’ Savelli; e si preparavano per andare a soccorrerla i Colonnesi, che dopo la vittoria avevano occupate molte castella de’ Conti. Ma accortasi l’una parte e l’altra che ’l pontefice, dando animo ora a’ Colonnesi ora agli Orsini, nutriva la guerra, per potere alla fine quando fussino consumati opprimergli tutti, si ridussono senza interposizione d’altri a parlamento insieme a Tivoli, dove il dí medesimo conchiusono l’accordo: per il quale fu liberato Carlo Orsino, restituite a ciascuno le terre tolte in questa contenzione, e la differenza de’ contadi d’Albi e di Tagliacozzo rimessa nel re Federigo, del quale erano soldati i Colonnesi.
Posato presto questo movimento, né mescolandosi altre armi in Italia che nel contado di Pisa, il duca di Milano, benché da principio avesse deliberato di non dare aiuto scopertamente a’ fiorentini ma sovvenirgli occultamente con danari, traportato ogni dí piú dallo sdegno e dal dispiacere, né astenendosi da parole insolenti e minatorie contro a’ viniziani, determinò di dimostrarsi senza rispetto. Però negò il passo alle genti loro, le quali per la via di Parma e di Pontriemoli andavano a Pisa, necessitandole a passare per il paese del duca di Ferrara, cammino piú lungo e piú difficile; operò che Cesare comandò a tutti gli oratori che erano appresso a lui, eccetto quello de’ re di Spagna, che si partissino, e che dopo pochi dí gli richiamò tutti eccetto il viniziano; mandò a’ fiorentini trecento balestrieri, e concorse con loro alla condotta di trecento uomini d’arme, parte sotto il signore di Piombino parte sotto Gian Paolo Baglione; e in piú volte prestò loro piú di trentamila ducati, offerendo continuamente, quando fusse di bisogno, maggiori aiuti. Fece oltre a queste cose instanza col pontefice che, ricercato da’ fiorentini, porgesse qualche sussidio. Il quale, dimostrando di conoscere che lo stabilirsi in Pisa i viniziani era pernicioso allo stato della Chiesa, promesse mandare loro cento uomini d’arme e tre galee sottili, le quali sotto il capitano Villamarina erano a’ soldi suoi, per impedire che per mare non entrassino in Pisa vettovaglie; nondimeno, poiché con varie scuse ebbe differito il mandargli, lo negò alla fine apertamente, perché ogni dí piú, rimovendosi dagli altri pensieri, si risolveva a ristrignersi col re di Francia, sperando di conseguire per mezzo suo non premi mediocri e usitati ma il reame di Napoli: essendo spesso proprio degli uomini farsi facile con la voglia e con la speranza quello che con la ragione conoscono essere difficile. Ed era quasi fatale che in lui fussino origine a cose nuove le repulse de’ parentadi avute da’ re d’Aragona. Perché, innanzi che totalmente deliberasse di unirsi col re di Francia, aveva dimandato che al cardinale di Valenza, parato a rinunziare alla prima occasione al cardinalato, il re Federigo concedesse per moglie la figliuola, e in dote il principato di Taranto; persuadendosi che se il figliuolo, grande d’ingegno e d’animo, si insignorisse di uno membro tanto importante di quel reame, potesse facilmente, avendo in matrimonio una figliuola regia, avere occasione, con le forze e con le ragioni della Chiesa, di spogliare del regno il suocero, debole di forze ed esausto di danari, e dal quale erano alieni gli animi di molti de’ baroni. La qual cosa benché fusse caldamente favorita dal duca di Milano, dimostrando a Federigo, con ragioni efficaci e poi con parole aspre, per mezzo di Marchesino Stanga, il quale mandò per questo a Roma e a Napoli imbasciadore, con quanto suo pericolo il pontefice, escluso di tale desiderio, precipiterebbe a congiugnersi col re di Francia, e ricordandogli quanta imprudenza e pusillanimitá fusse, dove si trattava della salute del tutto, avere in considerazione la indegnitá e non sapere sforzare se medesimo ad anteporre la conservazione dello stato alla propria volontá, nondimeno Federigo ricusò sempre ostinatamente: confessando che la alienazione del papa era per mettere in pericolo il suo reame, ma che conosceva anche che ’l dare la figliuola, col principato di Taranto, al cardinale di Valenza lo metteva in pericolo; e però de’ due pericoli volere piú presto sottoporsi a quello nel quale si incorrerebbe piú onorevolmente, e che non nascerebbe da alcuna sua azione. Donde il papa, avendo voltato in tutto l’animo a unirsi col re di Francia, e desiderando che il medesimo facessino i viniziani, s’astenne per non gli offendere da favorire con l’armi i fiorentini.
I quali, inanimiti per gli aiuti sí pronti del duca di Milano e per la fama della virtú di Paolo Vitelli, non erano per pretermettere cosa alcuna, se bene l’impresa fusse riputata difficile: perché, oltre al numero l’esperienza e l’animo de’ cittadini e contadini pisani, aveano in Pisa i viniziani quattrocento uomini d’arme e ottocento stradiotti e piú di dumila fanti, ed erano disposti a mandarvi forze maggiori; non essendo manco pronti degli altri, per l’onore publico, a sostenere i pisani coloro che da principio avevano contradetto che si accettassino in protezione. La deliberazione fatta con consiglio comune di Lodovico Sforza e de’ fiorentini fu di augumentare talmente l’esercito che e’ fusse potente a espugnare le terre del contado di Pisa, e di fare ogni opera perché tutti i vicini desistessino da dare favore a’ pisani o da molestare, per ordine de’ viniziani, da altre parti i fiorentini. Però, avendo Lodovico, prima che deliberasse di scoprirsi, condotto con dugento uomini d’arme a comune co’ viniziani Giovanni Bentivogli, operò tanto che l’obligò, con lo stato di Bologna, a sé solo; e per confermarlo tanto piú, i fiorentini condussono Alessandro suo figliuolo. E perché, se i viniziani, che avevano in protezione il signore di Faenza, facessino dalla parte di Romagna qualche insulto, vi trovassino resistenza, condussono i fiorentini con cento cinquanta uomini d’arme Ottaviano da Riario signore d’Imola e di Furlí, che si reggeva ad arbitrio di Caterina Sforza sua madre; la quale seguitava senza rispetto alcuno le parti di Lodovico e de’ fiorentini, mossa da piú cagioni ma specialmente per essersi maritata occultamente a Giovanni de’ Medici, il quale il duca di Milano, non contento del governo popolare, desiderava di fare, insieme col fratello, grande in Firenze. Procurò medesimamente Lodovico co’ lucchesi, co’ quali aveva grandissima autoritá, che non favorissino piú i pisani come sempre avevano fatto; il che se bene non osservorono in tutto, se ne astenneno assai per suo rispetto. Restavano i genovesi e i sanesi, inimici antichi de’ fiorentini e tra’ quali militavano le cagioni delle controversie, con questi per Montepulciano, con quegli per le cose di Lunigiana; e de’ sanesi era da temere che acciecati dall’odio non dessino, come in altri tempi molte volte con danno proprio avevano fatto, comoditá a ciascuno di turbare, per il loro stato, i fiorentini; e con tutto che a’ genovesi, per l’antiche inimicizie, fusse molesto che i viniziani si confermassino in Pisa, nondimeno (come in quella cittá suole essere piccola cura del beneficio publico) comportavano a’ pisani e a’ legni de’ viniziani il commercio delle loro riviere, per l’utilitá che ne perveniva in molti privati, onde i pisani ricevevano grandissime comoditá: però, per consiglio di Lodovico, furono da’ fiorentini mandati a Genova e a Siena imbasciadori, per trattare per mezzo suo di comporre le controversie. Ma le pratiche co’ genovesi non partorirono frutto alcuno, perché domandavano la cessione libera delle ragioni di Serezana, senza dare altro ricompenso che una semplice promessa di vietare a’ pisani le comoditá del paese loro; e a’ fiorentini pareva la perdita sí certa e, a rispetto di questa, il guadagno sí piccolo e sí dubbio che ricusorono di comperare con questo prezzo la loro amicizia.