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III
Ma mentre che queste cose in vari luoghi si trattano, l’esercito fiorentino, potente piú di cavalli che di fanti, uscí alla campagna sotto il nuovo capitano; e perciò i pisani, i quali dopo la vittoria di Santo Regolo avevano a piacimento loro scorso con gli stradiotti tutto il paese, si levorno da Ponte di Sacco, dove ultimatamente si erano accampati; e Paolo Vitelli, presa Calcinaia, soprastando ad aspettare provisione di piú fanti, messe un dí uno aguato presso a Cascina, dove si erano ridotte le genti viniziane, che, governate da Marco da Martinengo, non avevano né ubbidienza né ordine, per il quale ammazzò molti stradiotti e Giovanni Gradanico condottiere di genti d’arme, e fu fatto prigione Franco capo di stradiotti con cento cavalli. Per questo accidente le genti de’ viniziani, non si assicurando piú di stare a Cascina, si ritirorono nel borgo di San Marco, aspettando che da Vinegia venissino nuove genti. Ma Paolo Vitelli, poiché fu proveduto di fanti, avendo fatto con le spianate segno di volere assaltare Cascina, e cosí credendo i pisani, passato all’improviso il fiume d’Arno, pose il campo al castello di Buti; avendo prima mandato tremila fanti a occupare i poggi vicini, e condottevi con copia grande di guastatori l’artiglierie per la via del monte, con maravigliosa difficoltá per l’asprezza del cammino. Prese Buti per forza, il secondo dí poi che ebbe piantate l’artiglierie. Fu eletta da Paolo questa impresa perché, giudicando che Pisa, nella quale era ostinazione inestimabile cosí nel popolo come ne’ contadini che vi si erano ridotti dentro, e che giá tutti per il lungo uso erano diventati sufficienti nella guerra, fusse impossibile a pigliare per forza, essendovi potenti gli aiuti de’ viniziani e la cittá per se stessa molto forte di muraglia, ebbe per migliore consiglio attendere a consumarla che a sforzarla e, trasferendo la guerra in quella parte del paese che è dalla mano destra del fiume d’Arno, cercare di pigliare quegli luoghi e farsi padrone di quegli siti da’ quali potesse essere impedito il soccorso che vi andasse per terra di paese forestiero; e però fatto, dopo l’espugnazione di Buti, uno bastione in sui monti che sono sopra a San Giovanni della Vena, andò a campo al bastione che presso a Vico Pisano avevano fatto i pisani, conducendovi con la medesima difficoltá l’artiglierie; e preso nel medesimo tempo tutto il Valdicalci e fatto sopra Vico, in luogo detto Pietradolorosa, un altro bastione per impedire che non vi entrasse soccorso alcuno, teneva oltre a questo assediata la fortezza della Verrucola. E perché i pisani, dubitando non fusse assaltata Librafatta e Valdiserchio, fussino manco arditi a discostarsi da Pisa, era il conte Renuccio fermatosi con altre genti in Valdinievole. E nondimeno, quattrocento fanti usciti di Pisa roppeno i fanti che negligentemente alloggiavano nella chiesa di San Michele per l’assedio della Verrucola. Ma Paolo, acquistato che ebbe il bastione, il quale si arrendé con facoltá di ridurre l’artiglierie a Vico Pisano, pose il campo a Vico Pisano, non da quella parte dove, quando egli vi era alla difesa, l’avevano posto i fiorentini ma di verso San Giovanni della Vena, donde si impediva il venirvi soccorso da Pisa; e avendo gittato in terra con l’artiglierie non piccola parte delle mura, quegli di dentro, disperandosi d’essere soccorsi, si arrenderono, salvo l’avere e le persone: spaventati da perseverare ostinatamente insino all’ultimo perché Paolo, quando espugnò Buti, aveva, per mettere terrore negli altri, fatto tagliare le mani a tre bombardieri tedeschi che vi erano dentro e usata la vittoria crudelmente. Preso Vico, ebbe subito occasione di un’altra prosperitá. Perché le genti che erano in Pisa, sperando essere facile l’espugnare allo improviso il bastione di Pietradolorosa, vi si presentorono innanzi giorno con dugento cavalli leggieri e molti fanti, ma trovandovi resistenza maggiore di quello che si erano persuasi, vi perderono piú tempo che non avevano disegnato; in modo che essendosi, mentre davano l’assalto, scoperto Paolo in su quegli monti, il quale con una parte dell’esercito andava a soccorrerlo, ritirandosi verso Pisa scontrorno nella pianura verso Calci Vitellozzo, venuto in quello luogo con un’altra parte delle genti per impedire loro il ritorno: col quale mentre combatteno, sopravenendo Paolo, si messono in fuga, perduti molti cavalli e la maggiore parte de’ fanti.
Ma in questo mezzo i fiorentini, avendo qualche indizio dal duca di Ferrara e da altri che i viniziani avevano inclinazione alla concordia, ma che vi si indurrebbono piú facilmente se, come pareva convenirsi alla degnitá di tanta republica, si procedesse con loro con le dimostrazioni non come con eguali ma come con maggiori, mandorono, per tentare la loro disposizione, imbasciadori a Vinegia Guidantonio Vespucci e Bernardo Rucellai, due de’ piú onorati cittadini della loro republica: la qual cosa si erano astenuti di fare insino a questo tempo, parte per non offendere l’animo del re Carlo parte perché, mentre si conobbono impotenti a opprimere i pisani, avevano giudicato dovere essere inutili i prieghi non accompagnati né con la riputazione né con le forze; ma ora che l’armi loro erano potenti in campagna, e il duca di Milano scoperto totalmente contro a’ viniziani, non erano senza speranza d’avere a trovare qualche modo di onesta composizione. Però gl’imbasciadori, ricevuti onoratamente, introdotti al doge e al collegio, poi che ebbono scusato il non vi essere andati prima imbasciadori, per diversi rispetti nati dalla qualitá de’ tempi e da’ vari accidenti della loro cittá, dimandorono liberamente che si astenessino dalla difesa di Pisa; dimostrando confidarsi di ottenere questa dimanda, perché la republica fiorentina non aveva dato loro causa di offenderla, e perché avendo il senato viniziano avuto sempre fama di giustissimo non vedevano dovesse partirsi dalla giustizia, la quale, essendo la base e il fondamento di tutte le virtú, era conveniente che a ogni altro rispetto fusse anteposta. Alla quale proposta rispose il doge essere la veritá che da’ fiorentini non avevano ricevuta in questi tempi ingiuria alcuna, né essere il senato entrato alla difesa di Pisa per desiderio di offendergli ma perché, avendo i fiorentini soli in Italia seguitata la parte franzese, il rispetto dell’utilitá comune aveva indotto tutti i potenti della lega a dare la fede a’ pisani di aiutargli a difendere la libertá; e che se gli altri si dimenticavano della fede data non volevano essi, contro al costume della loro republica, imitargli in cosa tanto indegna: ma che se si proponesse qualche modo mediante il quale si conservasse a’ pisani la libertá, dimostrerebbeno a tutto il mondo che né cupiditá particolare né rispetto alcuno dello interesse proprio era cagione di fargli perseverare nella difesa di Pisa. Disputossi poi per qualche dí quale potesse essere il modo da sodisfare all’una parte e all’altra; né volendo o i viniziani o gli oratori fiorentini proporne alcuno, furno contenti che lo imbasciadore de’ re di Spagna, che gli confortava alla concordia, si interponesse tra loro: il quale avendo proposto che i pisani ritornassino alla divozione de’ fiorentini non come sudditi ma per raccomandati, e con quelle medesime capitolazioni che erano state concedute alla cittá di Pistoia, come cosa media tra la servitú e la libertá, risposeno i viniziani non conoscere parte alcuna di libertá in una cittá nella quale le fortezze e l’amministrazione della giustizia fussino in potestá d’altri. Donde gli oratori fiorentini, non sperando di ottenere cosa alcuna, si partirono da Vinegia assai certi che i viniziani non abbandonerebbono se non per necessitá la difesa di Pisa, dove continuamente mandavano gente.
Perché né da principio erano stati con molto timore dell’impresa de’ fiorentini, considerando che per non si essere cominciata al principio della primavera non potevano stare molto tempo in campagna, essendo il paese di Pisa per la bassezza sua molto sottoposto all’acque; e perché, avendo soldato di nuovo sotto il duca d’Urbino, al quale detteno il titolo di governatore, e sotto alcuni altri condottieri cinquecento uomini d’arme, e avendo diverse intelligenze, avevano determinato, per divertire i fiorentini dall’offese de’ pisani, di rompere la guerra in altro luogo; disegnando dipoi di fare muovere Piero de’ Medici: per conforto del quale soldorono con dugento uomini d’arme Carlo Orsino e Bartolomeo d’Alviano. Né furono senza speranza di indurre Giovanni Bentivogli a consentire che la guerra si rompesse a’ fiorentini dalla parte di Bologna. Perché il duca di Milano, sdegnato che nella condotta di Annibale suo figliuolo gli avesse anteposti i viniziani, e ricordandosi, per questa offesa nuova, delle ingiurie vecchie ricevute, secondo diceva, da lui quando Ferdinando duca di Calavria passò in Romagna, aveva tolto certe castella possedute per causa dotale da Alessandro suo figliuolo nel ducato di Milano; né si asteneva da aspreggiarlo con ogni dimostrazione: ma avendo pure finalmente, per intercessione de’ fiorentini, restituite quelle castella, fu interrotto il disegno fatto di rompere la guerra da quella parte. Però si sforzorono i viniziani di disporre i sanesi a concedere che e’ movessino l’armi per il territorio loro; e dava speranza di ottenerlo, oltre all’ordinaria disposizione contro a’ fiorentini, la divisione che era in Siena tra’ cittadini. Perché avendosi Pandolfo Petrucci con lo ingegno e astuzia sua arrogata autoritá grande, Niccolò Borghesi suo suocero e la famiglia de’ Belanti, a’ quali era molesta la sua potenza, desideravano si concedesse il passo al duca d’Urbino e agli Orsini, i quali con quattrocento uomini d’arme dumila fanti e quattrocento stradiotti si erano fermati, per commissione de’ viniziani alla Fratta nel contado di Perugia; e allegavano che il fare tregua co’ fiorentini, come faceva instanza il duca di Milano e come confortava Pandolfo, non era altro che dare loro comoditá di espedire le cose di Pisa, le quali spedite, sarebbono tanto piú potenti a offendergli: però doversi, traendo frutto delle occasioni, come appartiene agli uomini prudenti, stare costanti in non fare con loro altro accordo che pace, ricevendo la cessione delle ragioni di Montepulciano; la quale cessione sapevano i fiorentini essere ostinati a non volere fare, donde di necessitá si inferiva il consentire a’ viniziani, appresso a’ quali avendo essi occupato il primo luogo della grazia, speravano facilmente abbassare l’autoritá di Pandolfo. Il quale, essendosi per i conforti del duca di Milano fatto autore della opinione contraria, non ebbe piccola difficoltá a sostenere il suo parere; perché nel popolo poteva naturalmente l’odio de’ fiorentini, ed era molto apparente la persuasione di potere con questo terrore ottenere la cessione di Montepulciano: la quale cupiditá accompagnata dall’odio aveva piú forza che la considerazione, allegata da Pandolfo, de’ travagli che seguiterebbono la guerra accostandola alla casa propria, e de’ pericoli ne’ quali col tempo gli condurrebbe la grandezza de’ viniziani in Toscana. Di che diceva non essere necessario cercare gli esempli di altri: perché era fresca la memoria che l’essersi, l’anno mille quattrocento settantotto, aderiti a Ferdinando re di Napoli contro a’ fiorentini, gli conduceva totalmente in servitú se Ferdinando, per la occupazione che Maumeth ottomanno fece nel regno di Napoli della cittá di Otranto, non fusse stato costretto a rivocare la persona di Alfonso suo figliuolo e le sue genti da Siena; senza che, per l’istorie loro potevano avere notizia che la medesima cupiditá di offendere i fiorentini per mezzo del conte di Virtú, e lo sdegno conceputo per conto del medesimo Montepulciano, era stato cagione che da se stessi gli avessino sottomessa la propria patria. Le quali ragioni, benché vere, non essendo bastanti a reprimere l’ardore e gli affetti loro, non stava senza pericolo che dagli avversari suoi non si suscitasse qualche tumulto. Se non che egli, prevenendo, tirò allo improviso in Siena molti amici suoi del contado, e operò che nel tempo medesimo i fiorentini mandorono al Poggio Imperiale trecento uomini d’arme e mille fanti; con la riputazione delle quali forze raffrenato l’ardire degli avversari, ottenne che si facesse tregua per cinque anni co’ fiorentini: i quali, preponendo il timore de’ pericoli presenti al rispetto della dignitá, si obligorono a disfare una parte del ponte a Valiano e a fare gittare in terra il bastione tanto molesto a’ sanesi; concedendo oltre a questo che i sanesi, fra certo tempo, potessino edificare qualunque fortezza volessino tra il letto delle Chiane e la terra di Montepulciano. Per il quale accordo diventato maggiore Pandolfo, poté poco poi fare ammazzare il suocero, che troppo arditamente attraversava i suoi disegni; e tolto via questo emulo e spaventati gli altri, confermarsi ogni dí piú nella tirannide.
Privati per questa concordia i viniziani della speranza di divertire, per la via di Siena, i fiorentini dalla impresa contro a’ pisani, né avendo potuto ottenere da’ perugini di muovere l’armi per il territorio loro, deliberorono di turbargli dalla parte di Romagna; sperando di occupare facilmente, col favore e aderenze vecchie che vi aveva Piero de’ Medici, i luoghi tenuti da loro nello Apennino. Però, ottenuto dal piccolo signore di Faenza il passo per la valle di Lamone, con una parte delle genti che avevano in Romagna, con le quali si congiunseno Piero e Giuliano de’ Medici, occuporono il borgo di Marradi posto in su lo Apennino, da quella parte che guarda verso Romagna; dove non ebbono resistenza perché Dionigi di Naldo, uomo della medesima valle, soldato con trecento fanti da’ fiorentini perché insieme co’ paesani lo difendesse, menò seco sí pochi fanti che non ebbe ardire di fermarvisi: e si accamporono alla rocca di Castiglione, che è in luogo eminente sopra al borgo predetto, sperando di ottenerla, se non per altro modo, per il mancamento che sapevano esservi di molte cose e specialmente d’acqua; e ottenendola rimaneva libera la facoltá di passare nel Mugello, paese vicino a Firenze. Ma alle piccole provisioni che vi erano dentro supplí la costanza del castellano, e al mancamento dell’acqua l’aiuto del cielo: perché una notte piovve tanto che, ripieni tutti i vasi e citerne, restorono liberi da questa difficoltá; e in questo mezzo il conte Renuccio, col signore di Piombino e alcuni piccoli condottieri, accostatosi per la via di Mugello in luogo propinquo agli inimici, gli costrinse a ritirarsi quasi fuggendo, perché facendo fondamento nella prestezza non erano andati a quella impresa molto potenti; e giá il conte di Gaiazzo, mandato dal duca di Milano a Cotignuola con trecento uomini d’arme e mille fanti, e il Fracassa soldato del medesimo duca, che con cento uomini d’arme era a Furlí, si ordinavano per andare loro alle spalle. Però, volendo evitare questo pericolo, andorono a unirsi col duca d’Urbino, che si era partito del perugino, e con l’altre genti de’ viniziani, le quali tutte insieme erano alloggiate tra Ravenna e Furlí, con poca speranza di alcuno progresso; essendo, oltre alle forze de’ fiorentini, in Romagna cinquecento uomini d’arme cinquecento balestrieri e mille fanti del duca di Milano, e importando molto l’ostacolo d’Imola e di Furlí.