< Storia d'Italia < Libro IV
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Libro IV - Capitolo XIII Libro V

XIV

Solleciti preparativi del re di Francia per riprendere il ducato di Milano. Gli svizzeri al soldo di Lodovico Sforza s’accordano con quelli del re di Francia e consegnano Novara. Lodovico Sforza prigione dei francesi. Anche il card. Ascanio tradito da un parente ed amico cade prigione. Gli svizzeri occupano la terra di Bellinzona. Fine di Lodovico Sforza e giudizio dell’autore su di lui. Il card. Ascanio nella torre di Borges.

Ma mentre che Lodovico attendeva sollecitamente a queste cose non era stata minore la diligenza e la sollecitudine del re. Il quale, come ebbe sentita la ribellione di Milano, ardente di sdegno e di vergogna, mandò subito in Italia la Tramoglia con secento lancie, mandò a soldare quantitá grande di svizzeri; e perché con maggiore prestezza si provedesse alle cose necessarie, deputato il cardinale di Roano luogotenente suo di qua da’ monti, lo fece incontinente passare in Asti; di modo che, espedite queste cose con maravigliosa celeritá, si trovorono al principio di aprile insieme in Italia mille cinquecento lancie diecimila fanti svizzeri e semila de’ sudditi del re sotto la Tramoglia il Triulzio e Ligní. Le quali genti, unite insieme a Mortara, si appressorono a Novara, confidandosi non meno nella fraude che nelle forze; perché i capitani svizzeri che erano con Lodovico, benché nella espugnazione di Novara avessino dimostrata fede e virtú, si erano, per mezzo de’ capitani svizzeri che erano nell’esercito de’ franzesi, convenuti occultamente con loro: della qual cosa cominciando per alcune congetture Lodovico a sospettare, sollecitava che quattrocento cavalli e ottomila fanti che si ordinavano a Milano si unissino seco. Cominciorono a tumultuare in Novara i svizzeri, istigati da’ capitani, pigliando per occasione che ’l dí destinato al pagamento non si numeravano i danari per l’impotenza del duca: il quale, correndo subito al tumulto, con benignissime parole e con tali prieghi che generavano non mediocre compassione, donati ancora loro tutti i suoi argenti, gli fece stare pazienti ad aspettare che da Milano venissino i danari. Ma i capitani loro temerno che, se col duca si univano le genti che si preparavano a Milano, si impedisse il mettere a esecuzione il tradimento disegnato; e perciò l’esercito franzese, secondo l’ordine dato, messosi in arme, si accostò innanzi dí alle mura di Novara, attorniandone una gran parte, e mandati alcuni cavalli tra la cittá e il fiume del Tesino, per tôrre al duca e agli altri la facoltá di fuggirsi verso Milano. Il quale, sospettando ogn’ora piú del suo male, volle uscire coll’esercito di Novara per combattere con gli inimici, avendo giá mandati fuora i cavalli leggieri e i borgognoni a cominciare la battaglia; alla quale cosa gli fu apertamente contradetto da’ capitani de’ svizzeri, allegando che senza licenza de’ suoi signori non volevano venire alle mani co’ parenti e co’ fratelli propri e con gli altri della sua nazione: co’ quali poco dipoi mescolatisi, come se fussino di uno esercito medesimo, dissono volersi partire subito per andarsene alle loro case. Né potendo il duca, né co’ prieghi né con le lacrime né con infinite promesse, piegare la barbara perfidia, si raccomandò loro efficacemente che almeno conducessino lui in luogo sicuro; ma perché erano convenuti co’ capitani franzesi di partirsi e non menarlo seco, negato di concedergli la sua dimanda, consentirno si mescolasse tra essi in abito di uno de’ loro fanti, per stare alla fortuna, se non fusse riconosciuto, di salvarsi. La quale condizione accettata da lui per ultima necessitá non fu sufficiente alla sua salute, perché, camminando essi in ordinanza per mezzo dell’esercito franzese, fu, per la diligente investigazione di coloro che erano preposti a questa cura, o insegnato dai medesimi svizzeri, riconosciuto, mentre che mescolato nello squadrone camminava a piede, vestito e armato come svizzero, e subitamente ritenuto per prigione: spettacolo sí miserabile che commosse le lagrime insino a molti degli inimici. Furono oltre a lui fatti prigioni Galeazzo da San Severino, e il Fracassa e Antonio Maria suoi fratelli, mescolati nell’abito medesimo tra’ svizzeri; e i soldati italiani svaligiati e presi, parte in Novara parte fuggendo verso il Tesino; perché i franzesi, per non irritare quelle nazioni, lasciorno partire a salvamento i cavalli borgognoni e i fanti tedeschi.

Preso il duca e dissipato l’esercito, non vi essendo piú alcuno ostacolo, e piena ogni cosa di fuga e di terrore, il cardinale Ascanio, il quale avea giá inviate le genti raccolte a Milano verso il campo, sentita tanta rovina, si partí subito da Milano per ridursi in luogo sicuro, seguitandolo molti della nobiltá ghibellina che, essendosi scoperti immoderatamente per Lodovico, disperavano d’ottenere venia da’ franzesi. Ma essendo destinato che nelle calamitá de’ due fratelli si mescolasse con la mala fortuna la fraude, si fermò la notte prossima, per ricrearsi alquanto della fatica ricevuta per la celeritá del camminare, a Rivolta nel piacentino, castello di Currado Lando gentiluomo di quella cittá, congiuntogli di parentado e di lunga amicizia; il quale, mutato l’animo con la fortuna, mandati subito a Piacenza a chiamare Carlo Orsino e Sonzino Benzone soldati de’ viniziani, lo dette loro nelle mani, e insieme Ermes Sforza fratello del duca Giovan Galeazzo morto, e una parte de’ gentiluomini venuti con lui; perché gli altri, con piú utile consiglio, non vi si essendo voluti fermare la notte, erano passati piú avanti. Fu condotto subitamente Ascanio prigione a Vinegia; ma il re, stimando per la sicurtá del ducato di Milano quanto era conveniente l’averlo in sua potestá, ricercò senza indugio il senato viniziano, usando eziandio, come lo vedde stare sospeso, protesti e minaccie, che gliene desse, allegando appartenersegli per essere stato preso nel paese sottoposto a sé: la quale richiesta benché paresse molto acerba e indegnissima del nome viniziano, nondimeno per fuggire il furore dell’armi sue lo consentí, e insieme di tutti i milanesi che erano stati presi con lui. Anzi, essendosi fermati nelle terre di Ghiaradadda Batista Visconte e altri nobili milanesi fuggiti da Milano per la medesima cagione, e avendo ottenuto salvocondotto di potervi stare sicuri, con espressione nominatamente de’ franzesi, furono per il medesimo timore necessitati a dargli in potestá del re: tanto in questo tempo potette piú nel senato viniziano il terrore dell’armi de’ franzesi che il rispetto della degnitá della republica.

Ma la cittá di Milano, abbandonata d’ogni speranza, mandò subito imbasciadori al cardinale di Roano a supplicare venia, il quale la ricevé in grazia e perdonò in nome del re la ribellione, ma componendogli a pagare trecentomila ducati; benché il re ne rimesse poi loro la maggiore parte: e col medesimo esempio perdonò Roano all’altre cittá che si erano ribellate, e le compose in danari secondo la possibilitá e qualitá loro. Cosí finita felicemente la impresa e licenziate le genti, i fanti di quattro cantoni de’ svizzeri che sono piú vicini che gli altri alla terra di Bellinzone, posta nelle montagne, nel ritornare a casa l’occuporono furtivamente. Il qual luogo il re arebbe potuto da principio riavere da loro con non molta quantitá di danari; ma come spesso per sua natura perdeva, per risparmiare piccola quantitá di danari, occasioni di cose grandi, ricusando di farlo, succederono poi tempi e accidenti che, molte volte, l’arebbe volentieri, pagandone grandissima quantitá, ricomperato da loro: perché è passo molto importante a proibire a’ svizzeri lo scendere nello stato di Milano.

Fu Lodovico Sforza condotto a Lione, dove allora era il re, e introdotto in quella cittá in sul mezzodí, concorrendo infinita moltitudine a vedere uno principe, poco fa di tanta grandezza e maestá e per la sua felicitá invidiato da molti, ora caduto in tanta miseria; donde, non ottenuta grazia di essere, come sommamente desiderava, intromesso al cospetto del re, fu dopo due dí menato nella torre di Locces, nella quale stette circa dieci anni, e insino alla fine della vita, prigione: rinchiudendosi in una angusta carcere i pensieri e l’ambizione di colui che prima appena capivano i termini di tutta Italia. Principe certamente eccellentissimo per eloquenza per ingegno e per molti ornamenti dell’animo e della natura, e degno di ottenere nome di mansueto e di clemente, se non avesse imbrattata questa laude la infamia per la morte del nipote; ma da altra parte di ingegno vano e pieno di pensieri inquieti e ambiziosi, e disprezzatore delle sue promesse e della sua fede; e tanto presumendo del sapere di se medesimo che, ricevendo somma molestia che e’ fusse celebrata la prudenza e il consiglio degli altri, si persuadesse di potere con la industria e arti sue volgere dovunque gli paresse i concetti di ciascuno.

Seguitollo non molto poi il cardinale Ascanio; il quale, ricevuto con maggiore umanitá e onore, e visitato benignamente dal cardinale di Roano, fu mandato in carcere piú onorata, perché fu messo nella torre di Borges, stata prigione pochi anni innanzi del medesimo re che ora lo incarcerava: tanto è varia e miserabile la sorte umana, e tanto incerte a ognuno ne’ tempi futuri le proprie condizioni.



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