Questo testo è completo. |
◄ | Libro IX - Capitolo IV | Libro IX - Capitolo VI | ► |
V
Aveva il pontefice propostosi nell’animo, e in questo fermati ostinatamente tutti i pensieri suoi, non solo di reintegrare la Chiesa di molti stati, i quali pretendeva appartenersegli, ma oltre a questo di cacciare il re di Francia di tutto quello possedeva in Italia; movendolo o occulta e antica inimicizia che avesse contro a lui o perché il sospetto avuto tanti anni si fusse convertito in odio potentissimo, o la cupiditá della gloria di essere stato, come diceva poi, liberatore di Italia da’ barbari. A questi fini aveva assoluto dalle censure i viniziani, a questi fini fatta la intelligenza e stretta congiunzione co’ svizzeri; simulando di procedere a queste cose piú per sicurtá sua che per desiderio di offendere altri: a questi fini, non avendo potuto rimuovere il duca di Ferrara dalla divozione del re di Francia, aveva determinato di fare ogni opera per occupare quello ducato, pretendendo di muoversi solamente per le differenze delle gabelle e de’ sali. E nondimeno, per non manifestare totalmente, insino che avesse le cose meglio preparate, i suoi pensieri, trattava continuamente con Alberto Pio di concordarsi col re di Francia; il quale, persuadendosi non avere seco altra differenza che per causa della protezione del duca di Ferrara e desideroso sopramodo di fuggire la sua inimicizia, consentiva, di fare con lui nuove convenzioni, riferendosi a capitoli di Cambrai, ne’ quali si esprimeva che nessuno de’ confederati potesse ingerirsi nelle cose appartenenti alla Chiesa, e inserendovi tali parole e tali clausule che al pontefice fusse lecito procedere contro al duca quanto apparteneva alle particolaritá de’ sali e delle gabelle, a’ quali fini solamente pensava il re distendersi i pensieri suoi: interpretando talmente l’obligo che avea della protezione del duca, che e’ paresse quasi potesse convenire in questo modo lecitamente. Ma quanto piú il re si accostava alle dimande del pontefice tanto piú egli si discostava: non lo piegando in parte alcuna la morte succeduta del cardinale di Roano, perché a quegli che, arguendo essere finito il sospetto, lo confortavano alla pace rispondeva vivere il medesimo re e però durare il medesimo sospetto; allegando in confermazione di queste parole, sapersi che l’accordo fatto dal cardinale di Pavia era stato violato del re per propria sua deliberazione, contro alla volontá e consiglio del cardinale di Roano: anzi, a chi piú perspicacemente considerò i progressi suoi, parve se ne accrescessino il suo animo e le speranze. Né senza cagione: perché, essendo tali le qualitá del re che aveva piú bisogno di essere retto che e’ fusse atto a reggere, non è dubbio che la morte di Roano indebolí molto le cose sue; conciossiaché in lui oltre alla lunga esperienza fusse nervo grande e valore, e tanta autoritá appresso al re che quasi non mai si discostasse dal consiglio suo, donde egli confidando nella grandezza sua ardiva spesse volte risolvere e dare forma alle cose per se stesso; condizione che non militando in alcuno di quegli che succedettono nel governo, non ardivano non che deliberare ma né pure di parlare al re di cose che gli fussino moleste, né egli prestava la medesima fede a’ consigli loro; ed essendo piú persone e avendo rispetto l’uno a l’altro, né confidandosi all’autoritá ancora nuova, procedevano piú lentamente e piú freddamente che non ricercava la importanza delle cose presenti e che non sarebbe stato necessario contro alla caldezza e impeto del pontefice. Il quale, non accettando niuno dei partiti proposti dal re, lo ricercò alla fine apertamente che rinunziasse, non con condizione o limitazione ma semplicemente e assolutamente, alla protezione presa del duca di Ferrara; e cercando il re di persuadergli essergli di troppa infamia una tale rinunziazione, rispose in ultimo che, poi che il re recusava di renunziare semplicemente, non voleva convenire seco né anche essergli opposito, ma conservandosi libero da ogni obligazione con ciascuno, attenderebbe a guardare quietamente lo stato della Chiesa: lamentandosi piú che mai del duca di Ferrara che, confortato da amici suoi a soprasedere di fare il sale, aveva risposto non potere seguitare questo consiglio per non pregiudicare alle ragioni dello imperio, al quale apparteneva il dominio diretto di Comacchio. Ma fu oltre a questo dubitazione e opinione di molti, la quale in progresso di tempo si augumentò, che Alberto Pio imbasciadore del re di Francia, non procedendo sinceramente nella sua legazione, attendesse a concitare il pontefice contro al duca di Ferrara; movendolo il desiderio ardentissimo, nel quale continuò insino alla morte, che Alfonso fusse spogliato del ducato di Ferrara: perché avendo Ercole padre di Alfonso ricevuto, non molti anni avanti, da Giberto Pio la metá del dominio di Carpi, datogli in ricompenso il castello di Sassuolo con alcune altre terre, dubitava Alberto di non avere (come bisogna spesso che ’l vicino manco potente ceda alla cupiditá del piú potente) a cedergli alla fine l’altra metá che apparteneva a sé. Ma quel che di questo sia la veritá, il pontefice, dimostrando segni piú implacabili contro ad Alfonso e avendo giá in animo di muovere l’armi, si preparava di procedergli contro con le censure, attendendo di giustificare i fondamenti, e specialmente avendo trovato, secondo diceva, nelle scritture della camera apostolica la investitura fatta da’ pontefici alla casa da Esti della terra di Comacchio.
Questi erano palesemente gli andamenti del pontefice; ma occultamente trattava di cominciare movimenti molto maggiori, parendogli avere fondato le cose sue con l’amicizia de’ svizzeri, con l’essere in piede i viniziani e ubbidienti a’ cenni suoi, vedere inclinato a’ medesimi fini o almeno non congiunto col re di Francia sinceramente il re di Aragona, deboli in modo le forze e l’autoritá di Cesare che non gli dava causa di temerne, né essendo senza speranza di potere concitare il re di Inghilterra. Ma sopratutto gli accresceva l’animo quello che arebbe dovuto mitigarlo, cioè il conoscere che il re di Francia, aborrente di fare la guerra con la Chiesa, desiderava sommamente la pace; in modo che gli pareva che sempre dovesse essere in potestá sua il fare concordia seco, eziandio poiché gli avesse mosso contro l’armi. Per le quali cose diventando ogni dí piú insolente, e moltiplicando scopertamente nelle querele e nelle minaccie contro al re di Francia e contro al duca di Ferrara, recusò il dí della festivitá di san Piero, nel quale dí secondo l’antica usanza si offeriscono i censi dovuti alla sedia apostolica, accettare il censo dal duca di Ferrara; allegando che la concessione di Alessandro sesto, che nel matrimonio della figliuola l’aveva da quattromila ducati ridotto a cento, non era valida in pregiudicio di quella sedia: e nel dí medesimo, avendo prima negato licenza di ritornarsene in Francia al cardinale di Aus e agli altri cardinali franzesi, inteso che quello di Aus era uscito con reti e con cani in campagna, avendo sospetto vano che occultamente non si partisse, mandato precipitosamente a pigliarlo, lo ritenne prigione in Castel Santo Agnolo. Cosí, giá scoprendosi in manifesta contenzione col re di Francia, e però costretto tanto piú a fare fondamenti maggiori, concedette al re cattolico la investitura del regno di Napoli, col censo medesimo col quale l’avevano ottenuta i re di Aragona; avendo prima negato di concederla se non col censo di quarantottomila ducati, col quale l’avevano ottenuta i re franzesi: seguitando il pontefice in questa concessione non tanto l’obligazione la quale, secondo il consueto dell’antiche investiture, gli fece quel re di tenere ciascuno anno per difesa dello stato della Chiesa, qualunque volta ne fusse ricercato, trecento uomini d’arme, quanto il farselo benevolo: e la speranza che questi aiuti potessino, in qualche occasione, essere cagione di condurlo a inimicizia aperta col re di Francia. Della quale erano giá sparsi i semi, perché il re cattolico, insospettito della grandezza del re di Francia, e ingelosito della sua ambizione, poiché non contento a’ termini della lega di Cambrai cercava di tirare sotto il dominio suo la cittá di Verona, mosso ancora dalla antica emulazione, desiderava non mediocremente che qualche impedimento s’opponesse alle cose sue; e perciò non cessava di confortare la concordia tra Cesare e i viniziani, molto desiderata dal pontefice: nelle quali cose benché occultissimamente procedesse non era possibile che del tutto si coprissino i pensieri suoi; onde essendo sorta in Sicilia la sua armata, destinata ad assaltare l’isola delle Gerbe (è questa appresso a’ latini la Sirte maggiore), faceva sospetto al re e metteva negli animi degli uomini, consci della astuzia sua, diverse dubitazioni.