< Storia d'Italia < Libro IX
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XI

Gli ecclesiastici perdono Carpi. Confusione e tumulto in Bologna per l’avvicinarsi de’ francesi coi Bentivoglio. Timori de’ cardinali; energia del pontefice, che conforta i bolognesi alla fedeltá alla Chiesa. L’esercito francese trattenuto per le speranze della concordia col pontefice. Vane trattative di concordia. Commenti e critiche all’azione dei comandanti francesi.

Ciamonte infratanto, per recuperare Carpi, che prima era stato occupato dalle genti della Chiesa, vi mandò Alberto Pio e la Palissa con quattrocento lancie e quattromila fanti; innanzi a quali essendosi mosso Alberto con uno trombetto e con pochi cavalli, la terra che molto l’amava, intesa la venuta sua, cominciò a tumultuare: per il quale timore gli ecclesiastici, che in numero di quaranta cavalli leggieri e cinquecento fanti vi erano a guardia, si partirono, dirizzandosi a Modona, ma seguitati dalle genti franzesi che erano sopravenute poco poi, e a furore al prato del Cortile che è quasi in mezzo tra Carpi e Modona, messi in fuga; salvandosi i cavalli ma perdendosi la piú parte de’ fanti. Pareva utile a Ciamonte combattere con gl’inimici innanzi che arrivassino le lancie spagnuole (le quali il papa per sollecitare aveva depositato in mano del cardinale Regino la bolla della investitura), e innanzi che le genti viniziane si unissino con loro; le quali, avendo fatto certi ripari contro alle artiglierie di Alfonso, speravano di avere gittato presto il ponte: perciò si accostò a Modona, dove essendosi scaramucciato assai tra’ cavalli leggieri dell’una parte e dell’altra, non vollono mai gli ecclesiastici, conoscendosi inferiori, uscire con tutte le forze fuora.

Perduta questa speranza, deliberò di mettere a esecuzione quel che molti, e principalmente i Bentivogli, con varie offerte lo stimolavano; che e’ non fusse da consumare inutilmente il tempo intorno a cose delle quali era molto maggiore la difficoltá che l’utilitá, ma da assaltare all’improviso la sedia della guerra, il capo principale dal quale procedevano tante molestie e pericoli: essere di questo molto opportuna occasione, perché in Bologna erano pochi soldati forestieri, nel popolo molti fautori de’ Bentivogli, la maggiore parte degli altri inclinata piú presto ad aspettare l’esito delle cose che a pigliare l’armi per sottoporsi a pericoli o contrarre inimicizie nuove; se ora non si tentasse, passare la presente occasione, perché sopravenendo le genti che aspettavano, o de’ viniziani o degli spagnuoli, non si potere sperare, quando bene vi si andasse con potentissimo esercito, quel che ora con forze molto minori era facilissimo a ottenere. Raccolto adunque insieme tutto l’esercito, e seguitandol’i Bentivogli con alcuni cavalli e con mille fanti pagati da loro, preso il cammino tra ’l monte e la strada maestra, assaltò Spilimberto castello de’ conti Rangoni, nel quale erano quattrocento fanti mandati dal pontefice, ma poi che ebbe battuto alquanto l’ottenne il dí medesimo a patti; e arrendutosegli il dí seguente Castelfranco, alloggiò a Crespolano castello distante dieci miglia da Bologna, con intenzione di appresentarsi il prossimo dí alle porte di quella cittá: nella quale, divulgata la sua venuta e che erano con esso i Bentivogli, ogni cosa si era piena di confusione e di tumulto, grandissima sollevazione nella nobiltá e nel popolo, temendo una parte desiderando l’altra la ritornata de’ Bentivogli; altri stando sospesi, o incerti dell’animo o veramente mossi cosí leggiermente o dal desiderio [o] dal timore che oziosamente fussino per risguardare il processo di questa cosa.

Ma maggiore confusione e molto maggiore terrore occupava gli animi de’ prelati e de’ cortigiani, avvezzi non a’ pericoli delle guerre ma all’ozio e alle dilicatezze di Roma. Correvano i cardinali mestissimi al pontefice, lamentandosi che avesse condotto sé, la sedia apostolica e loro in tanto pericolo, e aggravandolo con somma instanza o che facesse provedimenti bastanti a difendersi (il che in tanta brevitá di tempo stimavano impossibile) o che tentasse di comporre con condizioni meno gravi che fusse possibile le cose cogli inimici, i quali si giudicava non doverne essere alieni, o che insieme con loro si partisse da Bologna; considerando almeno, se pure il pericolo proprio non lo moveva, quanto importasse all’onore della sedia apostolica e di tutta la cristiana religione se nella persona sua accadesse sinistro alcuno: del medesimo lo supplicavano tutti i piú intrinsechi e piú grati ministri e servitori suoi. Egli solo, in tanta confusione e in tanto disordine di ogni cosa, incerto dell’animo del popolo e mal sodisfatto della tarditá de’ viniziani, resisteva pertinacemente a queste molestie; non potendo neanche la infermitá che conquassava il corpo piegare la fortezza dell’animo. Aveva nel principio fatto venire Marcantonio Colonna con una parte de’ soldati che erano a Modona, e chiamato a sé Ieronimo Donato imbasciadore de’ viniziani, si era con esclamazioni ardentissime lamentato che per la tarditá degli aiuti promessigli tante volte si era lo stato e la persona sua condotta in tanto pericolo; non solamente con ingratitudine abominevole in quanto a lui, che principalmente per salvargli aveva presa la guerra e che, con gravissime spese e pericoli e con l’aversi provocati inimici lo imperadore e il re di Francia, era stato cagione che la libertá loro si fusse conservata insino a quel dí, ma oltre a questo con imprudenza inestimabile in quanto a se stessi, perché, dappoi che egli o fusse vinto o necessitato di cedere a qualche composizione, in che speranza di salute in che grado rimarrebbe quella republica? protestando in ultimo con ardentissime parole che farebbe concordia co’ franzesi se per tutto il dí seguente non entrava in Bologna il soccorso delle loro genti che erano alla Stellata; avendo, per la difficoltá di gittare il ponte, passato in su varie barche e legni il Po. Convocò ancora il reggimento e i collegi di Bologna, e con gravi parole gli confortò che, ricordandosi de’ mali della tirannide passata e quanto piú perniciosi ritornerebbono i tiranni stati scacciati, volessino conservare il dominio della Chiesa, nel quale aveano trovato tanta benignitá; concedendo per fargli piú pronti, oltre alle concedute prima, esenzioni della metá delle gabelle delle cose che si mettevano dentro per il vitto umano, e promettendo di concederne in futuro delle maggiori; notificando le cose medesime per publico bando, nel quale invitò il popolo a pigliare l’armi per la difesa dello stato ecclesiastico: ma senza frutto, perché niuno si moveva, niuno faceva in favore suo segno alcuno. Perciò conoscendo finalmente in quanto pericolo fusse ridotto, ed espugnato dalla importunitá e lamentazioni di tanti, e instando oltre a ciò molto appresso a lui gli oratori di Cesare del re cattolico e del re di Inghilterra, pregati da’ cardinali, consentí si mandasse a domandare a Ciamonte che concedesse facoltá di andare a lui sicuramente, in nome del pontefice, a Giovanfrancesco Pico conte della Mirandola; e poche ore dipoi mandò egli medesimo uno de’ suoi camerieri a ricercarlo che mandasse a lui Alberto da Carpi, non sapendo che non fusse nello esercito: e nel tempo medesimo, acciò che in ogni caso si salvassino le cose piú preziose del pontificato, mandò Lorenzo Pucci, suo datario, col regno (chiamano cosí la mitria principale) che era pieno di gioie nobilissime, perché si custodissino nel famoso monasterio delle Murate di Firenze. Sperò Ciamonte per le richieste fattegli che il pontefice inclinasse alla concordia, la quale esso, perché sapeva essere cosí la mente del re, molto desiderava; e per non perturbare questa disposizione ritenne il dí seguente l’esercito nel medesimo alloggiamento: benché permettesse che i Bentivogli con molti cavalli di amici e seguaci loro, seguitandogli alquanto da lontano cento cinquanta lancie franzesi, corressino insino appresso alle mura di Bologna. Per la venuta de’ quali, con tutto che Ermes, minore ma il piú feroce de’ fratelli, si appresentasse allato alla porta, non si fece dentro movimento alcuno.

Udí Ciamonte benignamente Giovanfrancesco dalla Mirandola, e lo rimandò il dí medesimo a Bologna, a significare le condizioni con le quali era contento di convenire: che ’l pontefice assolvesse Alfonso da Esti dalle censure, e tutti quegli che per qualunque cagione si erano intromessi nella difesa sua o nell’offesa dello stato ecclesiastico: liberasse medesimamente i Bentivogli dalle censure e dalle taglie, restituendo i beni che manifestamente a essi appartenevano: degli altri posseduti innanzi all’esilio si conoscesse in giudicio; e che avessino facoltá d’abitare in qualunque luogo piacesse loro, pure che non si appropinquassino a ottanta miglia a Bologna: non si alterasse nelle cose de’ viniziani quel che si disponeva nella confederazione fatta a Cambrai: che tra il pontefice e Alfonso da Esti si sospendessino l’armi almanco per sei mesi, ritenendo ciascuno quello possedeva; nel quale tempo le differenze loro si decidessino per giudici che si dovessino deputare concordemente; riservando a Cesare la cognizione delle cose di Modena, la qual cittá si deponesse incontinente in sua mano: Cotignuola si restituisse al re cristianissimo: liberassesi il cardinale di Aus, perdonassesi a’ cardinali assenti; e le collazioni de’ benefici di tutto il dominio del re di Francia si facessino secondo la sua nominazione. Con la quale risposta essendo ritornato il Mirandolano, ma non senza speranza che Ciamonte non persisterebbe rigorosamente in tutte queste condizioni, udiva pazientemente il pontefice, contro alla sua consuetudine, la relazione, e insieme i prieghi de’ cardinali che con ardore inestimabile lo supplicavano che, quando non potesse ottenere meglio, accettasse in questa maniera la composizione; ma da altra parte, lamentandosi essergli proposte cose troppo esorbitanti, e mescolando in ogni parola doglienze gravissime de’ viniziani, e dimostrando di stare sospeso consumava il dí senza esprimere quale fusse la sua deliberazione. Alzò la speranza sua che alla fine del dí entrò in Bologna Chiappino Vitello, con seicento cavalli leggieri de viniziani e una squadra di turchi che erano a’ soldi loro; il quale partito la notte dalla Stellata era venuto galoppando per tutto il cammino, per la somma prestezza impostagli dal proveditore viniziano. La mattina seguente alloggiò Ciamonte con tutto l’esercito al Ponte a Reno vicino a tre miglia a Bologna, dove andorno subito a lui i segretari degli oratori de’ re de’ romani di Aragona e di Inghilterra, e poco dipoi gli imbasciadori medesimi; i quali quel giorno, e con loro Alberto Pio venuto da Carpi, ritornorno piú volte al pontefice e a Ciamonte. Ma era, nell’uno e nell’altro variata non mediocremente la disposizione: perché Ciamonte, mancandogli per l’esperienza del dí dinanzi la speranza di sollevare per mezzo de’ Bentivogli il popolo bolognese, e cominciando a sentire strettezza di vettovaglie la quale era per diventare continuamente maggiore, diffidava della vittoria; e il pontefice, inanimito perché il popolo, scoprendosi favorevole alla Chiesa, aveva, finalmente il giorno medesimo pigliato l’armi, e perché s’aspettava che innanzi al principio della notte entrasse in Bologna, oltre a dugento altri stradiotti de’ viniziani, Fabbrizio Colonna con dugento cavalli leggieri e una parte degli uomini d’arme spagnuoli, non solo conosceva essere liberato dal pericolo ma, ritornato nella consueta elazione, minacciava di assaltare gli inimici, subito che fussino giunte tutte le genti spagnuole che erano vicine: per la qual confidenza rispose sempre quel dí, niuno mezzo esservi di concordia se il re di Francia non si obligava ad abbandonare totalmente la difesa di Ferrara. Proposonsi il dí seguente nuove condizioni, per le quali ritornorono a Ciamonte i medesimi imbasciadori; le quali si disturborno per varie difficoltá: di maniera che Ciamonte, disperato di potere fare piú, o coll’armi o per i trattati della pace, frutto alcuno, ed essere difficile a dimorare quivi, diminuendogli le vettovaglie e cominciando a essere per il sopravenire della vernata i tempi sinistri, ritornò il dí medesimo a Castelfranco e il dí prossimo a Rubiera; dimostrando di farlo mosso da’ prieghi degli oratori, e per dare al pontefice spazio di pensare sopra le cose proposte, e a sé di intendere la mente del re.

Accusorno in questo tempo molti la deliberazione di Ciamonte di imprudenza, l’esecuzione di negligenza: come se, non avendo forze sufficienti a spugnare Bologna, conciossiaché nell’esercito non fussino piú di tremila fanti, fusse stato inconsiderato consiglio il muoversi per i conforti de’ fuorusciti; le speranze de’ quali, misurate piú col desiderio che con le ragioni, riescono quasi sempre vanissime. Avere dovuto almeno, se pure deliberava di tentare questa impresa, ristorare colla prestezza la debolezza delle forze, ma per contrario avere corrotta l’opportunitá con la tarditá; perché dopo l’indugio del muoversi da Peschiera aveva perduti inutilmente tre o quattro dí, mentre che considerando la impotenza del suo esercito stava sospeso o di tentare da se medesimo o di aspettare le genti del duca di Ferrara e Ciattiglione con le lancie franzesi: potersi forse questo difendere; ma come mai potersi scusare che preso Castelfranco non si fusse subito accostato alle porte di Bologna, né dato spazio di respirare a una cittá dove non era ancora entrato alcuno soccorso, il popolo sospeso, e maggiore (come accade nelle cose súbite) la confusione e il terrore? mezzo unico, se alcuno ve ne era, a fargli ottenere o vittoria o onesta composizione. Ma sarebbe, per avventura, minore spesso l’autoritá di quegli che riprendono le cose infelicemente succedute se nel tempo medesimo si potesse sapere quel che sarebbe accaduto se si fusse proceduto diversamente; perché molte volte si conoscerebbe che sarebbe seguito altrimenti di quello che da se stessa si presuppone la fallacia de’ discorsi umani, quando, giudicando le cose incerte, affermano che se si fusse proceduto in questa forma, o se si fusse proceduto altrimenti, sarebbe risultato l’effetto che si desiderava o non arebbe avuto luogo quel che ora è accaduto.

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