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IX
Ma in questo tempo il Valentino, che dopo il caso di Arezzo era uscito con l’esercito di Roma, simulando di volere attendere alla espugnazione di Camerino, ove aveva prima mandato a dare il guasto e a tenerlo assediato il duca di Gravina e Liverotto da Fermo con parte delle sue genti, ma in veritá intento ad acquistare con insidie il ducato di Urbino, poiché ebbe raccolto il resto dello esercito ne’ confini di Perugia, dimandò a Guidobaldo duca di Urbino artiglierie e aiuto di genti; il che gli fu conceduto facilmente, perché a principe che avea l’armi tanto vicine non era sicuro il negare, e perché avendo prima composte col pontefice alcune differenze de’ censi non avea cagione di temerne: e cosí, rendutolo manco sufficiente a difendersi partito subito da Nocera, e camminando con tanta celeritá che non che altro non dette nel cammino spazio alle sue genti di cibarsi, si condusse il dí medesimo a Cagli, cittá del ducato di Urbino. La quale subita sua venuta, e il trovarsi sproveduti, spaventò tanto ciascuno che il duca con Francesco Maria dalla Rovere prefetto di Roma suo nipote, avuto con difficoltá spazio di salvarsi, se ne fuggirono: di maniera che, dalla rocca di San Leo e di Maiuolo in fuora, conseguí in poche ore tutto quello stato, con grandissimo dolore e terrore di Pandolfo Petrucci di Vitellozzo e degli Orsini, i quali per il male d’altri cominciavano chiaramente a conoscere il pericolo proprio.
Acquistato il ducato di Urbino furono vari i suoi pensieri, o di volgersi a ultimare la impresa di Camerino o di assaltare scopertamente i fiorentini, alla qual cosa sarebbe stato inclinato con tutto l’animo se non l’avesse ritenuto il comandamento giá avuto dal re, e l’essere certificato che ’l re, non ostante qualunque opera fatta dal pontefice perché non si opponesse a questi moti, mandava le genti d’arme in favore de’ fiorentini, disposto in tutto a difendergli, e, quel che piú lo moveva, che il re passava personalmente in Italia. Nella quale ambiguitá mentre che sta, fermatosi in Urbino per prendere giornalmente consiglio da quel che succedeva, si trattavano nel tempo medesimo per il pontefice e per lui varie cose co’ fiorentini, sperando indurgli a qualche loro desiderio; e da altra parte permetteva che continuamente de’ suoi soldati andassino nel campo di Vitellozzo. Il quale, avendo insieme ottocento cavalli e tremila fanti e, perché le cose procedessino con maggiore estimazione, chiamando l’esercito suo esercito ecclesiastico, aveva, dopo che si era arrenduta la cittadella di Arezzo, occupato il Monte a San Sovino, Castiglione Aretino e la cittá di Cortona, con tutte l’altre terre e castella di Valdichiana; delle quali niuna aveva aspettato l’assalto, non vedendo pronti gli aiuti de’ fiorentini, e perché essendo il tempo della ricolta non volevano perdere le loro entrate, e si scusavano non per questo ribellarsi da’ fiorentini, poiché nello esercito era Piero de’ Medici per la restituzione del quale si publicava essere fatta questa impresa. Né è dubbio, che se dopo l’acquisto di Cortona Vitellozzo fusse sollecitamente entrato nel Casentino, che in potestá sua sarebbe stato di andare insino alle mura di Firenze, non vi essendo ancora giunte le genti de’ franzesi, e dissipata la maggiore parte delle fanterie de’ fiorentini perché, essendo quasi tutte delle terre perdute, se ne erano ritornate alle case loro. Ma la cupiditá di acquistare per sé il Borgo a San Sepolcro, terra propinqua a Cittá di Castello (benché per velarla allegasse non essere sicuro lasciarsi dietro alle spalle terra alcuna degli inimici), impedí il migliore consiglio; e però si voltò ad Anghiari, la quale terra, poiché, sola in questa costanza, ebbe aspettato che vi fussino piantate l’artiglierie, impotente del tutto a difendersi, si arrendé con alcuni soldati che vi erano, senza alcuna eccezione, all’arbitrio suo. Avuto Anghiari, ottenne subito il Borgo a San Sepolcro per accordo, e dipoi ritornò verso il Casentino; e giunto alla villa di Rassina, mandò uno trombetto a dimandare la terra di Poppi, nella quale, forte di sito, erano dentro pochi soldati. Ma la riputazione dell’armi franzesi operò quel che ancora non erano bastanti a operare le forze loro. Perché essendo giá condotte presso a Firenze sotto il capitano Imbalt dugento lancie, non avendo ardire per mancamento di fanti di accostarsi agli inimici, erano andate a castel San Giovanni nel Valdarno con intenzione che in quel luogo si unissino tutte le genti; ma Vitellozzo, come ebbe intesa la mossa loro verso il Valdarno, temendo per l’assenza sua alle cose di Arezzo, si ritirò con grandissima prestezza dalla Vernia alla collina di Ciciliano presso a due miglia a Quarata, e dipoi fattosi piú innanzi tre miglia, per mostrare animo e assicurare Rondine e altri luoghi circostanti, si pose in forte alloggiamento a canto a Rondine, lasciati alcuni fanti a guardia di Gargonsa e di Civitella, che erano le porte onde le genti de’ fiorentini potevano entrare nel paese. Le quali, essendo arrivate giá sotto il capitano Lancre dugento altre lancie, si congregavano tra Montevarchi e Laterina, con intenzione, come avessino messo insieme tremila fanti, di andare ad alloggiarsi appresso a Vitellozzo in su qualche colle eminente; il che egli non volendo aspettare, perché né arebbe potuto dimorarvi né levarsene senza grandissimo pericolo, si ritirò alle mura di Arezzo. Ma essendo usciti i franzesi con tutto l’esercito in campagna e postisi a fronte di Quarata, si ritirò dentro in Arezzo; e ancora che sempre avesse detto di volere fare in quella cittá una difesa memorabile, fu necessitato, sopravenendo nuovi casi, a fare nuovi pensieri. Perché Giampaolo Baglione si era ritirato in Perugia con le sue genti, temendo per l’esempio di Urbino delle cose proprie: per il quale esempio, né meno per quello che succedette di Camerino, erano molto confusi gli animi di Vitellozzo di Pandolfo Petrucci e degli Orsini; perché il Valentino, mentre trattava accordo con Giulio da Varano signore di Camerino, conseguitò con inganni quella cittá, ed essendo Giulio con due figliuoli venuto in potestá sua, gli fece, con la medesima immanitá che usava contro agli altri, strangolare.
Ma quel che a Vitellozzo e agli altri dava maggiore terrore era che ’l re di Francia, arrivato giá in Asti, mandava Luigi della Tramoglia in Toscana con dugento lancie e con molte artiglierie; il quale giá condotto a Parma aspettava quivi tremila svizzeri mandati dal re per la recuperazione d’Arezzo, a spese de’ fiorentini. Perché il re, commosso maravigliosamente contro al pontefice, aveva nell’animo di spogliare Valentino della Romagna e degli altri stati i quali aveva occupati; e a questo effetto avendo chiamati a sé tutti quegli che o temevano della potenza sua o erano stati offesi da lui, affermava volervi andare in persona, dicendo publicamente con grande ardore che era impresa sí pietosa e sí santa che né piú pietosa né piú santa sarebbe la impresa contro a’ turchi: disegnando oltre a questo, nel tempo medesimo, cacciare di Siena Pandolfo Petrucci, perché a Lodovico Sforza quando ritornò a Milano avea mandato danari, e dipoi sempre fatto aperta professione di aderire a Cesare. Ma il pontefice e il Valentino, conoscendo non potere resistere a sí grave tempesta, si aiutavano con le loro arti; scusando il movimento d’Arezzo essere stato fatto da Vitellozzo senza saputa loro, né essere stati di autoritá bastante a ritirarlo né a fare che gli Orsini e Giampagolo Baglione, benché soldati suoi, mossi dagli interessi propri, si astenessino da dargli aiuto. Anzi, per mitigare piú l’animo del re, aveva Valentino mandato a minacciare Vitellozzo che se non abbandonava subito Arezzo e l’altre terre de’ fiorentini gli andrebbe contro con le sue genti. Per le quali cose spaventato Vitellozzo, e temendo che, come accade quasi sempre, riconciliatisi tra loro i piú potenti, lo sdegno del re non si volgesse contro a sé, manco potente, chiamato in Arezzo il capitano Imbalt, invano contradicendo i fiorentini i quali volevano che le terre perdute fussino restituite loro subito liberamente, convenne: che Vitellozzo, partendosi incontinente con le sue genti, consegnasse Arezzo e tutte l’altre terre a’ capitani franzesi per tenerle in nome del re, insino a tanto che il cardinale Orsino che andava al re avesse parlato con lui; e che in questo mezzo non entrasse in Arezzo altra gente che uno de’ capitani franzesi con quaranta cavalli, per sicurtá del quale, e non meno della osservanza delle promesse, Vitellozzo desse a Imbalt due suoi nipoti per statichi. Ma fatto l’accordo se ne andò subito con tutte le genti e artiglierie che erano in Arezzo, lasciando libera a’ franzesi la possessione di tutte le terre; le quali per commissione del re furono subito restituite a’ fiorentini, verificandosi quel che, mentre si trattava la concordia, aveva, non senza derisione, alle querele loro risposto Imbalt: non sapere dove si consistesse lo ingegno tanto celebrato de’ fiorentini, che non conoscessino che, per assicurarsi subito della vittoria senza difficoltá e senza spesa, e per fuggire il pericolo de’ disordini i quali per la natura de’ franzesi potrebbono nascere per mancamento delle vettovaglie o per altre cagioni, aveano da desiderare che Arezzo in qualunque modo venisse in mano del re; il quale non sarebbe obligato a attendere piú che gli paresse le promesse fatte da’ suoi capitani a Vitellozzo.
E cosí, essendo liberati con facilitá grande, benché con non piccola spesa, da sí grave e improviso assalto, dirizzorono l’animo a riordinare il governo della republica, per la confusione e per i disordini del quale essere nato tanto pericolo era per l’esperienza manifesto giá insino alla moltitudine; perché per la spessa mutazione de’ magistrati, e per essere il nome de’ pochi sospetto al popolo, non erano né persone publiche né particolari che tenessino cura assidua delle cose. Ma perché la cittá quasi tutta aborriva la tirannide e alla moltitudine era sospettissima l’autoritá degli ottimati, né era possibile ordinare con una medesima deliberazione la forma perfetta del governo, non si potendo convincere gli uomini incapaci solamente con le ragioni, fu deliberato di introdurre per allora di nuovo una cosa sola, cioè che il gonfaloniere della giustizia, capo della signoria e che insieme con quella si creava per tempo di due mesi, si eleggesse in futuro per tutta la vita sua, acciò che con pensieri perpetui vegghiasse e procurasse le cose publiche in modo che per essere neglette non cadessino piú in tanti pericoli. E si sperò che, con l’autoritá che gli darebbe la qualitá della sua persona e l’avere a stare perpetuo in tanta degnitá, acquisterebbe tale fede appresso al popolo che facilmente potrebbe riordinare alla giornata l’altre parti del governo; e mettendo in qualche onesto grado i cittadini di maggiore condizione, costituirebbe uno mezzo tra se medesimo e la moltitudine, per il quale, temperandosi la imperizia e la licenza popolare e raffrenandosi chi succedesse a lui in quella degnitá, se volesse arrogarsi troppo, si stabilirebbe uno reggimento prudente e onorato, con molte circostanze da tenere concorde la cittá. Dopo la quale deliberazione fu nel consiglio maggiore, con concorso e consenso grande de’ cittadini, eletto gonfaloniere Piero Soderini, uomo di matura etá di sufficienti ricchezze di stirpe nobile e di fama di essere integro e continente, e che nelle cose publiche si era molto affaticato, ed era senza figliuoli, il che, per non dare occasione a chi fusse eletto di pensare a cose maggiori, era assai considerato.