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X
Ma, per ritornare alle cose comuni, al re di Francia come fu giunto in Asti concorsono, secondo il consueto, tutti i príncipi e tutte le cittá libere di Italia, chi in persona chi per imbasciadori; tra’ quali il duca di Ferrara e il marchese di Mantova, benché questo né confidato né molto accetto, e Batista cardinale Orsino, andatovi contro alla volontá del pontefice per giustificare i suoi e Vitellozzo delle cose di Arezzo, e per incitare il re contro al pontefice e al Valentino; contro a’ quali, atteso l’ardore dimostrato prima dal re, si aspettava con sommo desiderio di tutta Italia che l’armi franzesi si movessino. Ma l’esperienza dimostra essere verissimo che rare volte succede quel che è desiderato da molti; perché dipendendo comunemente gli effetti delle azioni umane dalla volontá di pochi, ed essendo l’intenzioni e i fini di questi quasi sempre molto diversi dall’intenzioni e da’ fini de’ molti, possono difficilmente succedere le cose altrimenti che secondo la intenzione di coloro che danno loro il moto. Cosí intervenne in questo caso, nel quale gli interessi e fini particolari indussono il re a deliberazione contraria al desiderio universale. Mosse il re non tanto la diligenza del pontefice, il quale non cessò mai, mandandogli spesso uomini propri, di cercare di mitigare l’animo suo, quanto il consiglio del cardinale di Roano, desideroso, come sempre era stato, di conservare l’amicizia tra il pontefice e il re; inducendolo a questo forse, oltre all’utilitá del re, in qualche parte l’utilitá particolare: perché e dal pontefice gli fu prorogata la legazione di Francia per diciotto mesi, e perché, attendendo sollecitamente a farsi fondamenti per ascendere al pontificato, voleva potere ottenere da lui promozione di parenti e dependenti da sé al cardinalato. E giudicava servirgli alla medesima intenzione l’avere fama di amatore e di protettore dello stato ecclesiastico.
Concorrevano le condizioni de’ tempi presenti a indurre piú facilmente il re in questa sentenza. Conciossiaché e di Cesare avesse sospetto, il quale non quietando l’animo aveva mandato di nuovo a Trento molti cavalli e certo numero di fanti, e faceva offerte grandi al pontefice per essere aiutato da lui a passare in Italia per la corona dello imperio; ed era ogni suo moto in maggiore considerazione perché sapeva il re essere molesto a’ viniziani che in mano sua fusse il ducato di Milano e il regno di Napoli. Aggiugnevasi l’essere in discordia co’ quattro cantoni de’ svizzeri che dimandavano la cessione delle ragioni di Bellinzone e che oltre a questo desse loro Vallevoltolina, Scafusa, e altre cose immoderate; minacciando altrimenti di accordarsi con Massimiliano. Le quali difficoltá faceva piú gravi l’essere allora escluso di ogni speranza di composizione col re di Spagna; perché se bene quel re gli avea proposta la restituzione del re Federico a quello reame, e perciò egli l’avesse condotto seco in Italia, e si fusse anche trattato di fare tregua per certo tempo ritenendo ciascuno quello possedeva, nondimeno l’una e l’altra pratica ebbe tante difficoltá che il re di Francia, con grandissima indegnazione, licenziò gli oratori spagnuoli dalla sua corte. Per le quali cagioni, avendogli il pontefice ultimatamente mandato Troccies cameriere suo confidatissimo, e promettendogli Valentino ed egli di aiutarlo quanto potessino nella guerra napoletana, si dispose di continuare nell’amicizia del pontefice; e però, come Troccies fu ritornato a Roma, il Valentino, in sulla relazione fatta da lui, montato secretamente in sulle poste andò al re, che era venuto a Milano: da cui, contro all’espettazione e con gravissimo dispiacere di tutti, fu ricevuto con eccessive carezze e onori. Onde, non gli essendo piú necessarie le genti che aveva in Toscana, le richiamò in Lombardia; avendo prima ricevuto nella sua protezione i sanesi e Pandolfo Petrucci, con condizione che, parte di presente parte in certi tempi, gli pagassino quarantamila ducati. ‑
Raffreddoronsi poi prestamente i movimenti di Massimiliano, in modo che al re rimaneva quasi solo il pensiero delle cose di Napoli. E queste pareva che succedessino insino allora prosperamente, e si sperava per l’avvenire maggiore prosperitá, avendovi il re, subito che giunse in Italia, mandati di nuovo per mare dumila svizzeri e piú di dumila guasconi; i quali uniti col viceré, che giá aveva, eccetto Manfredonia e Santo Angelo, occupato tutto il Capitanato, si accamporono a Canosa, guardata da Pietro Navarra con seicento fanti spagnuoli: il quale, poiché per molti dí si fu difeso egregiamente, commettendogli Consalvo, perché non si perdessino quegli fanti, che non aspettasse gli ultimi pericoli, arrendé la terra a’ franzesi, salve le robe e le persone. Donde, non si tenendo piú né in Puglia né in Calavria né nel Capitanato terra alcuna per gli spagnuoli eccetto le sopradette, e Barletta, Dati, Andria, Galipoli, Taranto, Cosenza, Ghiarace, Seminara e poche altre vicine al mare, e trovandosi molto inferiori di gente, Consalvo si ridusse con l’esercito in Barletta, senza danari, con poca vettovaglia e carestia di munizioni; benché a questo fu alquanto sollevato per tacito consenso del senato viniziano, il quale non proibí che in Vinegia facesse comperare molti salnitri: di che querelandosi il re di Francia, rispondevano essere stato fatto senza saputa loro da mercatanti privati, e che in Vinegia, cittá libera, non era stato mai vietato ad alcuno che non esercitasse le sue negoziazioni e i suoi commerci.
Presa Canosa, i capitani franzesi, allegando che per molte cagioni, massime per carestia di acqua, non si poteva fermarsi con tutto l’esercito intorno a Barletta (benché, come molti affermano, contro al consiglio e i protesti di Obigní) deliberorno che le genti, le quali era fama che fussino mille dugento lancie e diecimila fanti tra italiani e oltramontani, rimanendone una parte ad assedio largo intorno a Barletta, l’altre attendessino alla recuperazione del resto del reame: cosa che, come molti hanno creduto, aggiunta alla negligenza de’ franzesi, dette alle cose loro grandissimo nocumento. Dopo la quale deliberazione il viceré si insignorí di tutta la Puglia, eccetto Taranto Otranto e Galipoli; benché scorrendo insino in sulle porte di Taranto fu morto di uno colpo di artiglieria monsignore della Banda, capitano di quaranta lancie. Dopo il quale successo ritornò all’assedio di Barletta. E nel tempo medesimo Obigní, entrato in Calavria con l’altra parte dell’esercito, prese e saccheggiò la cittá di Cosenza, rimanendo la rocca in potere degli spagnuoli; e dipoi, essendosi uniti tutti gli spagnuoli di quella provincia con altre genti venute di Sicilia, venuto con loro alle mani gli ruppe. Queste prosperitá, o sopravenute tutte o giá nel corso di succedere mentre che il re era in Italia, non solo lo feceno negligente a continuare le debite provisioni, nelle quali continuando sollecitamente arebbe facilmente cacciato gli inimici di tutto il regno, ma gli rimossono ogni dubitazione di ritornarsene in Francia; tanto piú che giá sperava d’ottenere, come poco dipoi ottenne, tregua lunga dal re de’ romani.
Ma nella partita sua di Italia cominciò, con somma ammirazione universale, a venire a luce quel che aveva trattato col duca Valentino; il quale, ammessagli la giustificazione delle cose di Arezzo, non solo avea ricevuto in grazia ma, ricevuta promissione e fede dal pontefice e da lui di aiutarlo, quando gli fusse di bisogno, nella guerra del regno di Napoli, gli aveva all’incontro promesso di concedergli trecento lancie per aiutarlo ad acquistare, in nome della Chiesa, Bologna e opprimere Giampaolo Baglioni e Vitellozzo: movendolo a favorire cosí immoderatamente la grandezza del pontefice o perché imprudentemente si persuadesse averselo a fare con tanti benefici sinceramente amico, e, stante questa congiunzione, niuno dovere ardire di tentare contro a lui in Italia cose nuove, o perché non tanto confidasse della sua amicizia quanto temesse della inimicizia. E si aggiugneva che contro a Giampaolo, Vitellozzo e gli Orsini aveva sdegno particolare, perché tutti aveano disprezzato i comandamenti suoi di levarsi dalle offese de’ fiorentini; e Vitellozzo specialmente avea recusato l’artiglierie occupate in Arezzo, e oltre a questo, avendogli dimandato salvocondotto per andare sicuramente a lui e ottenutolo, aveva poi recusato di andarvi. Né reputava il re essere inutile alle cose sue che i capitani italiani fussino oppressi: senza che, o per l’astuzia del pontefice e del Valentino o per persuasioni di altri, avea cominciato a temere che questi medesimi e gli Orsini non aderissino finalmente e seguitassino gli stipendii de’ re di Spagna.