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VI

L’azione dei veneziani in Romagna. La questione di Faenza fra il pontefice ed i veneziani. Faenza si dá ai veneziani. Il Valentino in potere del pontefice. Conferma della legazione pontificia in Francia al card. di Roano.

Le cose della quale provincia, piena di molte novitá e mutazioni, tormentavano con vari pensieri l’animo del pontefice, conoscendosi per allora impotente a disporla ad arbitrio suo, e con difficoltá potendo tollerare che la grandezza de’ viniziani vi si ampliasse. Perché, come in Romagna si era inteso la fuga del Valentino in Castel Santo Agnolo e l’essersi dissipate le genti che erano seco, quelle cittá che prima cupidamente l’avevano aspettato, perduta la speranza della sua venuta, cominciorno a prendere diversi partiti. Cesena era tornata alla divozione antica della Chiesa; Imola, essendo stato il castellano della rocca per opera di alcuni principali cittadini ammazzato, stava sospesa, desiderando alcuni il dominio della Chiesa altri desiderando di ritornare sotto i Riari primi signori. La cittá di Furlí, stata posseduta lungamente dagli Ordelaffi innanzi che per concessione di Sisto pontefice pervenisse ne’ Riari, aveva richiamato Antonio della medesima famiglia; il quale, avendo prima tentato di entrarvi con favore de’ viniziani ma dipoi temendo che essi, per occuparla per sé, non usassino il nome suo, ricorrendo a’ fiorentini vi era ritornato con aiuto loro. In Pesero era ritornato Giovanni Sforza, in Rimini Pandolfo Malatesta; l’uno e l’altro chiamati dal popolo: ma Dionigi di Naldo, soldato antico del Valentino, richiesto dal castellano di Rimini andò in soccorso suo; però, essendosene fuggito Pandolfo, la cittá ritornò sotto il nome del Valentino. Faenza sola era perseverata nella divozione sua piú lungamente; ma privata alla fine della speranza del suo ritorno, rivolgendosi alle reliquie de’ Manfredi suoi antichi signori, chiamò Astore, giovane di quella famiglia ma naturale, perché non vi erano de’ legittimi. Ma i viniziani, aspirando al dominio di tutta la Romagna, avevano, subito dopo la morte di Alessandro, mandati a Ravenna molti soldati, co’ quali una notte all’improviso assaltorono con grande impeto la cittá di Cesena; il popolo della quale difendendosi virilmente, essi, che erano andativi senza artiglierie e sperando piú nel furto che nella forza, si ritornorono nel contado di Ravenna, intenti a tutte le cose che potessino dare loro occasione di distendersi in quella provincia. La quale si presentò loro prontamente, per la discordia tra Dionigi di Naldo e i faventini: perché essendo molestissimo a Dionigi che i faventini ritornassino sotto i Manfredi, da’ quali si era ribellato quando il Valentino assaltò quella cittá, chiamati i viniziani, dette loro le fortezze di Valdilamone che erano guardate da lui; i quali poco dipoi messono nella rocca di Faenza trecento fanti, introdottivi dal castellano corrotto con danari. Occuporono similmente, nel tempo medesimo, il castello di Furlimpopolo e molte altre castella della Romagna, e mandorono una parte delle loro genti a pigliare la cittá di Fano; ma il popolo costantemente si difese per la Chiesa. Furono ancora introdotti in Arimini con volontá del popolo, avendo prima convenuto con Pandolfo Malatesta di dargli in ricompenso la terra di Cittadella nel territorio padovano, provisione annua e condotta perpetua di gente d’arme; e si voltorono dipoi con sommo studio alla oppugnazione di Faenza, perché i faventini, non spaventati per la perdita della rocca (la quale perché è edificata in luogo basso, e perché subito con uno fosso profondo avevano separata dalla cittá, poteva poco nuocergli), resistevano virilmente, affezionati al nome de’ Manfredi, e sdegnati che dagli uomini di Valdilamone avesse a essere promesso ad altri il dominio di Faenza. Ma impotenti a difendersi da loro medesimi, perché i viniziani sotto Cristoforo Moro proveditore avevano accostato l’esercito e l’artiglierie alla terra e occupato i luoghi piú importanti del contado, ricercavano aiuto da Giulio giá assunto al pontificato: al quale era molestissima questa audacia, ma essendo nuovo in quella sedia e senza forze e senza danari, né sperando aiuto né dal re di Francia né di Spagna, occupati in maggiori pensieri, e perché recusava di congiugnersi con alcuno di loro, non poteva provedervi se non con l’autoritá del nome pontificale. La quale per fare esperienza quanto valesse appresso al senato viniziano, insieme col rispetto della amicizia tenuta lungo tempo da lui con quella republica, mandò il vescovo di Tivoli a Vinegia a lamentarsi che, essendo Faenza cittá della Chiesa, non si astenessino di fare questo disonore a uno pontefice il quale, innanzi che ascendesse a quel grado, era stato sempre congiuntissimo con la loro republica, e dal quale, salito ora a maggiore fortuna, potevano sperare frutti abbondantissimi della antica benivolenza.

È credibile che nel senato non mancassino di quegli medesimi che avevano giá dissuaso lo implicarsi nelle cose di Pisa, il ricevere in pegno i porti del reame di Napoli e il dividere col re di Francia il ducato di Milano, i quali considerassino quel che potesse partorire il diventare ogni dí molto piú esosi e sospetti a molti, e aggiugnere all’altre inimicizie quella de’ pontefici; ma essendo stati i consigli ambiziosi favoriti da successi tanto felici, e però spiegate tutte le vele al vento sí prospero della fortuna, non erano udite le parole di quegli che consigliavano il contrario. Però, fu con grande unione risposto allo imbasciadore del pontefice avere sempre quel senato sommamente desiderato che il cardinale di San Piero in Vincola ascendesse al pontificato, per l’amicizia lunghissima confermata con offici e benefici innumerabili dati e ricevuti da ciascuna delle parti, né essere da dubitare che colui che avevano tanto osservato quando era cardinale non osservassino ora molto piú quando era pontefice; ma non conoscere giá in quello che offendessino la sua degnitá abbracciando l’occasione, la quale se gli era offerta, di avere Faenza, perché quella cittá non solamente non era posseduta dalla Chiesa ma la Chiesa medesima si era spontaneamente spogliata di tutte le sue ragioni, avendone nel concistorio trasferito nel duca Valentino sí pienamente il dominio. Ricordargli che, eziandio innanzi a questa concessione, non avevano alla memoria degli uomini posseduto mai i pontefici Faenza, anzi di tempo in tempo l’avevano conceduta a nuovi vicari, non vi riconoscendo altra superioritá che il censo; il quale offerivano prontamente di pagare, in caso vi fussino obligati: né giá i faventini desiderare il dominio della Chiesa anzi, aborrendolo, avere insino all’estremo adorato il nome del Valentino, e mancata di questo ogni speranza essersi precipitati a chiamare i bastardi della famiglia de’ Manfredi. Supplicarlo finalmente che, pontefice, volesse conservare verso il senato viniziano il medesimo amore che aveva avuto quando era cardinale.

Arebbe il pontefice, poi che fu certificato dell’animo de’ viniziani mandato il duca Valentino in Romagna, il quale raccolto da lui, subito che ascese al pontificato, con grande onore e dimostrazione di benivolenza, alloggiava nel palagio pontificale, ma se ne astenne, dubitando che l’andata sua la quale da principio sarebbe stata grata a tutti i popoli non fusse ora molto odiosa, poiché giá tutti si erano ribellati da lui. Restava solamente a’ faventini il ricorso de’ fiorentini: i quali, malcontenti che una cittá tanto vicina pervenisse in potestá de’ viniziani, vi avevano da principio mandato dugento fanti e nutritigli con grande speranza di mandarvi altre genti, per dare loro animo a sostenersi tanto che il pontefice avesse tempo a soccorrergli; ma vedendo che il pontefice non era disposto a pigliare l’armi, e che né l’autoritá del re di Francia, il quale aveva da principio confortato i viniziani a non molestare gli stati del Valentino, era bastante a raffrenargli, non volendo soli implicarsi in guerra con inimici tanto potenti, s’astennono dal mandare loro maggiori aiuti. Però i faventini, esclusi di ogni speranza, e avendo giá l’esercito viniziano, il quale era alloggiato alla chiesa della Osservanza, cominciato a battere con l’artiglierie le mura della cittá, commossi ancora per essersi scoperto uno trattato e presi alcuni che avevano congiurato di mettere dentro i viniziani, dettono loro la cittá; i quali si convennono di dare ad Astore certa sovvenzione, benché piccola, per la sua vita. Avuta Faenza, i viniziani arebbono occupato facilmente Imola e Furlí, ma per non irritare piú il pontefice, che maravigliosamente si risentiva, mandate le genti alle stanze deliberorono per allora non procedere piú oltre: avendo occupato in Romagna, oltre a Faenza e Arimini co’ suoi contadi, Montefiore, Santarcangelo, Verrucchio, Gattea, Savignano, Meldola, Porto Cesenatico, Russi e, del territorio d’Imola, Tosignano, Solaruolo e Montebattaglia. Tenevansi per il Valentino in Romagna solamente le rocche di Furlí di Cesena di Furlimpopolo e di Bertinoro, le quali egli, con tutto che molto desiderasse di andare in Romagna, arebbe, perché non fussino occupate da’ viniziani, consentito di darle in custodia al pontefice, con obligazione di riaverle da lui quando fussino assicurate; ma il pontefice, non essendo ancora superata dalla forza della dominazione l’antica sua sinceritá, aveva recusato, dicendo non volere spontaneamente accettare l’occasioni che lo invitassino a mancargli della fede. Finalmente, per opporsi in qualche modo a’ progressi de’ viniziani, molestissimi per il pericolo dello stato ecclesiastico al pontefice, desideroso oltre a questo che il Valentino si partisse da Roma, fu convenuto con lui (interponendosi in questa convenzione oltre al nome del pontefice il nome del collegio de’ cardinali) che ’l Valentino per mare se n’andasse alla Spezie e di quivi, per terra, a Ferrara e dipoi a Imola, ove si conducessino cento uomini d’arme e cento cinquanta cavalli leggieri che ancora seguitavano le sue bandiere. Con la quale resoluzione essendo andato a Ostia per imbarcarsi, il pontefice, pentitosi di non avere accettato le fortezze e giá disposto, in qualunque modo potesse averle, a ritenerle per sé, mandò a lui i cardinali di Volterra e di Surrento, a persuadergli che per ovviare che quelle terre non andassino in mano de’ viniziani fusse contento deporle in lui, sotto la medesima promessa che si era trattata in Roma: ma recusando il Valentino di farlo, il pontefice sdegnato lo fece ritenere in sulle galee in sulle quali era giá montato, e dipoi con onesto modo menare alla Magliana, donde, giubilando tutta la corte e tutta Roma della sua retenzione, fu condotto in palazzo, ma onorato e carezzato, benché con diligente guardia, perché il pontefice, temendo che i castellani, disperati della salute sua, non vendessino le fortezze a’ viniziani, cercava d’avere da lui i contrasegni con umanitá e con piacevolezza. Cosí la potenza del duca Valentino, cresciuta quasi subitamente non manco con la crudeltá e con le fraudi che con l’armi e con la potenza della Chiesa, terminò con piú subita ruina; esperimentando in se medesimo di quegli inganni co’ quali il padre ed egli avevano tormentati tanti altri. Né ebbono migliore fortuna le sue genti, che condotte in quel di Perugia, con speranza che da’ fiorentini e altri fusse fatto loro salvocondotto, scoprendosi alle spalle le genti de’ Baglioni de’ Vitelli e de’ sanesi, si ridusseno, per salvarsi, in sul paese de’ fiorentini; dove essendosi distese tra Castiglione e Cortona, e ridotte al numero di quattrocento cavalli e pochi fanti, furono per ordine de’ fiorentini svaligiate, e fatto prigione don Michele che le guidava. Il quale fu poi da loro conceduto al pontefice, che lo dimandò con somma instanza, avendo in odio tutti i ministri di quel pontificato, per essere egli stato fidatissimo ministro ed esecutore di tutte le sceleratezze del Valentino; benché (come per natura si mitigava facilmente verso coloro contro a’ quali era in potestá sua lo incrudelire) non molto dipoi lo liberasse.

Partissi in questo tempo da Roma il cardinale di Roano per ritornarsene in Francia, ottenuta da Giulio, piú per non avere avuto ardire di dinegarla che per libera volontá, la confermazione della legazione di quel reame; ma non lo seguitò giá il cardinale Ascanio, con tutto che quando partí di Francia avesse promesso al re con giuramento di ritornarvi: dal quale giuramento si era prima fatto occultamente assolvere dal pontefice. Ma l’esempio dell’essere stata la sua credulitá schernita dal cardinale Ascanio non fece il cardinale di Roano piú cauto nelle cose di Pandolfo. Il quale, ricevutolo in Siena con grandissimo onore e insinuatosegli con grande astuzia e con artificiosi consigli, e promettendogli la restituzione di Montepulciano a’ fiorentini, gli persuase tanto della sua fede e della devozione verso il re che ’l cardinale, come fu in Francia, oltre all’affermare non avere trovato in tutta Italia uomo piú saggio di Pandolfo, fu operatore che ’l re concedesse che Borghese suo figliuolo, mandato in Francia per sicurtá dell’osservanza delle promesse paterne, se ne ritornasse a Siena. —


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