< Storia d'Italia < Libro VI
Questo testo è completo.
Libro VI - Capitolo XIV Libro VI - Capitolo XVI

XV

Dopo vivi contrasti, a Firenze si delibera di porre il campo a Pisa. Fallimento dell’impresa per la debolezza delle milizie; i fiorentini levano il campo da Pisa.

Questo esito ebbe il movimento di Bartolomeo d’Alviano, stato piú negli occhi degli uomini per le sue lunghe pratiche e per la iattanza delle sue parole piene di ferocia e di minaccie che per forze o fondamento stabile che avesse la impresa sua. Da questa vittoria preso animo Ercole Bentivoglio e Antonio Giacomini, commissario del campo, confortorono con veementi lettere e spessi messi i fiorentini che l’esercito vincitore si accostasse alle mura di Pisa, fatte prima con piú prestezza fusse possibile le provisioni necessarie per espugnarla; sperando che, per trovarsi in molte difficoltá ed essere mancata loro la speranza della venuta dell’Alviano, e come pare che ogni cosa ceda alla riputazione della vittoria, avesse con non molta difficoltá a ottenersi: nella quale speranza gli nutriva molto qualche intelligenza che avevano in Pisa con alcuni. Ma in Firenze, dimandando il magistrato de’ dieci, magistrato proposto alle cose della guerra, consiglio di quello fusse da fare a quegli cittadini co’ quali erano consueti di consultare le faccende importanti, fu dannata unitamente da tutti questa deliberazione; perché presupponevano che ne’ pisani fusse la consueta durezza, e che essendo esperimentati tanti anni nella guerra non bastasse a superargli il nome e la reputazione della vittoria avuta contro ad altri, per la quale non erano in parte alcuna diminuite le forze loro, ma bisognasse vincergli, come in ogni altro tempo, con le forze, delle quali solamente temono gli uomini bellicosi: e questo apparire pieno di molte difficoltá. Perché essendo la cittá di Pisa circondata, quanto altra cittá d’Italia, da solidissime muraglie, e bene riparata e fortificata e difesa da uomini valorosi e ostinati, non si poteva sperare di sforzarla se non con grosso esercito e con soldati che non fussino inferiori di virtú e di valore; il quale anche non sarebbe bastante a vincerla d’assalto o con breve oppugnazione, ma che sarebbe necessitato di starvi intorno molti dí, per accostarsi sicuramente e col prendere de’ vantaggi, e quasi piú presto straccandogli che sforzandogli. Repugnare a queste cose la stagione dell’anno, perché né si poteva con prestezza mettere insieme altro che fanteria tumultuaria e collettizia, né accostarvisi con intenzione di fermarsi molto, per la inclemenza dell’aria corrotta da’ venti del mare, che diventano pestiferi per i vapori degli stagni e delle paludi, e perniciosa agli eserciti, come era accaduto quando fu campeggiata da Paolo Vitelli; e perché il paese di Pisa comincia insino di settembre a essere sottoposto alle pioggie, dalle quali per la bassezza sua è soprafatto tanto che in quel tempo difficilmente vi si sta intorno. Né in tanta ostinazione universale potersi fare fondamento in trattati o intelligenze particolari, perché o riuscirebbono cose simulate o maneggiate da persone che non arebbono facoltá d’eseguire quello che promettessino. Aggiugnersi che benché al gran capitano non fusse stata data la fede publica, nondimeno avergli pure Prospero Colonna, benché come da sé, quasi con tacito consentimento loro, dato intenzione che per questo anno non si andrebbe con artiglieria alle mura di Pisa; e però aversi a tenere per certo che, commosso da questo sdegno e per le promissioni fatte molte volte a’ pisani e perché alle cose sue non espediva questo successo de’ fiorentini, si opporrebbe a questa impresa; e avere modo facile di impedirla, potendo in poche ore mettere in Pisa quegli fanti spagnuoli che erano in Piombino, come molte volte avea affermato che farebbe quando si tentasse di espugnarla. Essere piú utile usare l’occasione della vittoria dove, se bene il frutto fusse minore, la facilitá senza comparazione fusse maggiore, né perciò non senza notabile profitto. Nessuno essersi piú opposto e opporsi continuamente a’ disegni loro, nessuno avere piú impedito la recuperazione di Pisa, nessuno piú procurato di alterare il presente governo, che Pandolfo Petrucci; egli avere confortato il Valentino a entrare armato nel dominio fiorentino, egli essere stato principale consultore e guida dello assalto di Vitellozzo e della rebellione d’Arezzo, essersi mediante i suoi consigli congiunti con lo stato di Siena i genovesi e i lucchesi a sostentare i pisani, egli avere indotto Consalvo a pigliare la protezione di Piombino e a intromettersi di Pisa e a ingerirsi nelle cose di Toscana; e chi altri essere stato stimolatore e fautore di questo moto dell’Alviano? Doversi voltare l’esercito contro a lui, predare e scorrere tutto il contado di Siena, dove non si farebbe resistenza alcuna: potere succedere, con la reputazione dell’armi loro contro a lui, qualche movimento nella cittá, dove aveva molti inimici; e almeno non essere per mancare occasione di occupare qualche castello importante in quel contado, da tenerlo come per cambio e per pegno di riavere Montepulciano; e quello che non avevano fatto i benefici potersi sperare che facesse questo risentimento, di farlo per lo avvenire procedere con maggiore circospezione all’offese loro. Doversi nel medesimo modo correre poi il paese de’ lucchesi, co’ quali essere stato pernicioso usare tanti rispetti. Cosí potersi sperare di trarre della vittoria acquistata onore e frutto, ma andando all’oppugnazione di Pisa non si conoscere altro fine che spesa e disonore. Le quali ragioni allegate concordemente non raffreddorno però lo ardore che aveva il popolo (che si governa spesso piú con l’appetito che con la ragione) che vi si andasse a porre il campo; accecato anche da quella opinione inveterata che a molti de’ cittadini principali, per fini ambiziosi, non piacesse la recuperazione di Pisa. Nella quale sentenza essendo non meno caldo di tutti gli altri Piero Soderini gonfaloniere, convocato il consiglio grande del popolo, al quale non solevano referirsi queste deliberazioni, dimandò se pareva loro che si andasse col campo a Pisa: dove essendo co’ voti quasi di tutti risposto che vi si andasse, superata la prudenza dalla temeritá, fu necessario che l’autoritá della parte migliore cedesse alla volontá della parte maggiore. Però si attese a fare le provisioni con incredibile celeritá, desiderando prevenire non manco il soccorso del gran capitano che i pericoli de’ tempi piovosi.

Con la quale celeritá, il sesto dí di settembre, si accostò l’esercito con seicento uomini d’arme e settemila fanti sedici cannoni e molte altre artiglierie alle mura di Pisa, ponendosi tra Santa Croce e Santo Michele, nel luogo medesimo dove giá si pose il campo de’ franzesi; e avendo la notte seguente piantate prestissimamente le artiglierie, batterono il prossimo dí con impeto grande dalla porta di Calci insino al torrone di San Francesco dove le mura fanno dentro uno angolo: e avendo, da levata di sole, al quale tempo cominciorno a tirare l’artiglierie, insino a venti una ora rovinate piú di trenta braccia di muraglia, si fece dove era rovinato una grossa scaramuccia, ma con poco profitto, per non essere tanto spazio di muro in terra quanto sarebbe stato necessario a una terra dove gli uomini si erano presentati alla difesa col consueto animo e valore. Però la mattina seguente, per avere piú muro aperto, si cominciò un’altra batteria in luogo poco distante, restando in mezzo dell’una e dell’altra batteria quella parte della muraglia che giá era stata battuta da’ franzesi; e gittato in terra tanto muro quanto parve che fusse abbastanza, volle Ercole spingere le fanterie, che erano ordinate in battaglia, a dare gagliardamente lo assalto all’una e l’altra parte del muro rovinato; ove i pisani, lavorandovi, secondo il solito, con non minore animo le donne che gli uomini, aveano, mentre si batteva, tirato uno riparo con uno fosso innanzi. Ma non era nelle fanterie italiane, e raccolte tumultuariamente, tanto animo e tanta virtú. Però, cominciando per viltá a recusare di appresentarsi alla muraglia quello colonnello di fanti a’ quali, per sorte gittata tra loro, aspettava il primo assalto, né l’autoritá né i prieghi del capitano e del commissario fiorentino, né il rispetto dell’onore proprio né dell’onore comune della milizia italiana, furono bastanti a fargli andare innanzi. L’esempio de’ quali seguitando gli altri che avevano ad appresentarsi dopo loro, si ritirorono le genti agli alloggiamenti: non avendo fatto altro che, col farsi i fanti italiani infami per tutta Europa, corrotta la felicitá della vittoria ottenuta contro all’Alviano, e annichilata la reputazione del capitano e del commissario, che appresso a’ fiorentini era grandissima, se contenti della gloria acquistata avessino saputo moderare la prospera fortuna. Ritirati agli alloggiamenti, non fu dubbia la deliberazione del levare il campo; massime che il dí medesimo erano entrati in Pisa, per comandamento avuto dal gran capitano, secento fanti spagnuoli di quegli che erano a Piombino. Però il dí seguente l’esercito fiorentino si ritirò a Cascina, con grandissimo disonore, e pochi dí poi entrorno di nuovo in Pisa mille cinquecento fanti spagnuoli; i quali, poiché non era necessario il presidio loro, dato che ebbono per suggestione de’ pisani uno assalto invano alla terra di Bientina, continuorono la navigazione sua in Ispagna: dove erano mandati dal gran capitano, perché giá era fatta la pace tra il re di Francia e Ferdinando re di Spagna.


Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.