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I
Non erano tali le infermitá d’Italia, né sí poco indebolite le forze sue, che si potessino curare con medicine leggiere; anzi, come spesso accade ne’ corpi ripieni di umori corrotti, che uno rimedio usato per provedere al disordine di una parte ne genera de’ piú perniciosi e di maggiore pericolo, cosí la tregua fatta tra il re de’ romani e i viniziani partorí agli italiani, in luogo di quella quiete e tranquillitá che molti doverne succedere sperato aveano, calamitá innumerabili, e guerre molto piú atroci e molto piú sanguinose che le passate: perché se bene in Italia fussino state, giá quattordici anni, tante guerre e tante mutazioni, nondimeno, o essendosi spesso terminate le cose senza sangue o le uccisioni state piú tra’ barbari medesimi, avevano patito meno i popoli che i príncipi. Ma aprendosi in futuro la porta a nuove discordie, seguitorono per tutta Italia, e contro agli italiani medesimi, crudelissimi accidenti, infinite uccisioni, sacchi ed eccidi di molte cittá e terre, licenza militare non manco perniciosa agli amici che agli inimici, violata la religione, conculcate le cose sacre con minore riverenza e rispetto che le profane.
La cagione di tanti mali, se tu la consideri generalmente, fu come quasi sempre l’ambizione e la cupiditá de’ príncipi: ma considerandola particolarmente, ebbono origine dalla temeritá e dal procedere troppo insolente del senato viniziano, per il quale si rimossono le difficoltá che insino allora avevano tenuto sospesi il re de’ romani e il re di Francia a convenirsi contro a loro; l’uno de’ quali immoderatamente esacerbato condussono in grandissima disperazione, l’altro nel tempo medesimo concitorono in somma indegnazione, o almeno gli dettono facoltá di aprire sotto apparente colore quel che lungamente aveva desiderato. Perché Cesare, stimolato da tanta ignominia e danno ricevuto, e avendo in luogo di acquistare gli stati di altri perduto una parte de’ suoi ereditari, non era per lasciare indietro cosa alcuna per risarcire tanta infamia e tanto danno; la quale disposizione accrebbono di nuovo, dopo la tregua fatta, imprudentemente i viniziani, perché, non si astenendo da provocarlo non meno con le dimostrazioni vane che con gli effetti, riceverono in Vinegia con grandissima pompa e quasi come trionfante l’Alviano: e il re di Francia, ancora che da principio desse speranza di ratificare la tregua fatta, dimostrandosene poi alterato maravigliosamente, si lamentava che i viniziani avessino presunto di nominarlo e includerlo come aderente, e che, avendo proveduto al riposo proprio, avessino lasciato lui nelle molestie della guerra: necessitato, per l’onore e utilitá propria, a difendere contro a Cesare (che da Cologna andava in Fiandra per opprimerlo), il duca di Ghelleri, antico collegato suo e pronto sempre per lui a opporsi a’ fiamminghi e a molestargli, e per la cui autoritá ne’ popoli vicini e per l’opportunitá del suo paese gli era facile il fare passare nella Francia fanti tedeschi, quante volte avesse volontá di soldarne. Le quali disposizioni dell’animo dell’uno e dell’altro incominciorono in breve spazio di tempo a manifestarsi: perché Cesare, delle forze proprie non confidando, né sperando piú che per le ingiurie sue si risentissino i príncipi o i popoli di Germania, inclinava a unirsi col re di Francia contro a’ viniziani, come unico rimedio a ricuperare l’onore e gli stati perduti; e il re, avendogli lo sdegno nuovo rinnovata la memoria delle offese che si persuadeva avere ricevute da loro nella guerra napoletana, e stimolato dall’antica cupiditá di Cremona e dell’altre terre possedute lungo tempo da’ duchi di Milano, aveva la medesima inclinazione: perciò si cominciò a trattare tra loro, per potere, rimosso l’impedimento delle cose minori, attendere insieme alle maggiori, di comporre le differenze trall’arciduca e il duca di Ghelleri.
Stimolava similmente l’animo del re contro a’ viniziani nel tempo medesimo il pontefice, acceso oltre all’antiche cagioni da nuove indegnazioni; perché si persuadeva che per opera loro i fuorusciti di Furlí, i quali si riducevano a Faenza, avessino tentato di entrare in quella cittá, e perché nel dominio veneto aveano ricetto i Bentivogli, stati dal re scacciati del ducato di Milano; aggiugnendosi che all’autoritá della corte di Roma avevano in molte cose minore rispetto che mai: nelle quali avea ultimatamente turbato molto l’animo del pontefice che avendo conferito il vescovado di Vicenza, vacato per la morte del cardinale di San Piero a Vincola suo nipote, a Sisto similmente nipote suo, surrogato da lui nella degnitá del cardinalato e ne’ medesimi benefici, il senato viniziano disprezzata questa collazione aveva eletto uno gentiluomo di Vinegia; il quale, recusando il pontefice di confermarlo, ardiva temerariamente nominarsi vescovo eletto di Vicenza dallo eccellentissimo consiglio de’ pregati. Dalle quali cose infiammato, mandò prima al re Massimo secretario del cardinale di Nerbona e di poi il medesimo cardinale, che succeduto nuovamente per la morte del cardinale di Aus nel suo vescovado si chiamava il cardinale di Aus; i quali, uditi dal re con allegra fronte, riportorono a lui vari partiti da eseguirsi, e senza Cesare e unitamente con Cesare. Ma il pontefice era piú pronto a querelarsi che a determinarsi; perché da una parte combatteva nella sua mente il desiderio ardente che si movessino l’armi contro a’ viniziani, da altra parte lo riteneva il timore di non essere costretto a spendere immoderatamente per la grandezza d’altri, e molto piú la gelosia antica conceputa del cardinale di Roano, per la quale gli era molestissimo che eserciti potenti del re passassino in Italia: e turbava in qualche parte le cose maggiori l’avere il pontefice conferito poco innanzi senza saputa del re i vescovadi d’Asti e di Piacenza, e il ricusare il re che ’l nuovo cardinale di San Piero in Vincola, a cui per la morte dell’altro era stata conferita la badia di Chiaravalle, beneficio ricchissimo e propinquo a Milano, ne conseguisse la possessione.
Nelle quali difficoltá quel che non risolveva il pontefice deliberorno finalmente Cesare e il re di Francia, i quali trattando insieme secretissimamente contro a’ viniziani, si convennono nella cittá di Cambrai, per dare alle cose trattate perfezione, per la parte di Cesare madama Margherita sua figliuola, sotto ’l cui governo si reggevano la Fiandra e gli altri stati pervenuti per l’ereditá materna nel re Filippo, seguitandola a questo trattato Matteo Lango secretario accettissimo di Cesare, e per la parte del re di Francia il cardinale di Roano; spargendo fama di convenirsi per trattare la pace tra l’arciduca e il duca di Ghelleri, tra’ quali aveano fatta tregua per quaranta dí, ingegnandosi che la vera cagione non pervenisse alla notizia de’ viniziani: all’oratore de’ quali affermava con giuramenti gravissimi il cardinale di Roano, volere il suo re perseverare nella confederazione con loro. Seguitò il cardinale, piú tosto non contradicente che permettente, lo imbasciadore del re d’Aragona; perché se bene quel re fusse stato il primo motore di questi ragionamenti tra Cesare e il re di Francia erano stati dipoi continuati senza lui, persuadendosi l’uno e l’altro di loro essergli molesta la prosperitá del re di Francia, e sospetto, per rispetto del governo di Castiglia, ogni augumento di Cesare, e che perciò i pensieri suoi non fussino in questa cosa conformi colle parole. A Cambrai si fece in pochissimi dí l’ultima determinazione, non partecipata cosa alcuna, se non dopo la conclusione fatta, con l’oratore del re cattolico; la quale il dí seguente, che fu il decimo di dicembre, fu con solenni cerimonie confermata nella chiesa maggiore, col giuramento di madama Margherita, del cardinale di Roano e dello imbasciadore spagnuolo, non publicando altro che l’essere contratta tra ’l pontefice e ciascuno di questi príncipi perpetua pace e confederazione. Ma negli articoli piú secreti si contennono effetti sommamente importanti; i quali, ambiziosi e in molte parti contrari a’ patti che Cesare e il re di Francia aveano co’ viniziani, si coprivano (come se la diversitá delle parole bastasse a trasmutare la sostanza de’ fatti) con uno proemio molto pietoso nel quale si narrava il desiderio comune di cominciare la guerra contro agli inimici del nome di Cristo, e gli impedimenti che faceva a questo l’avere i viniziani occupate ambiziosamente le terre della Chiesa. Li quali volendo rimuovere per procedere poi unitamente a cosí santa e necessaria espedizione, e per i conforti e consigli del pontefice, il cardinale di Roano come procuratore e col suo mandato e come procuratore e col mandato del re di Francia, e madama Margherita come procuratrice e col mandato del re de’ romani e come governatrice dell’arciduca e degli stati di Fiandra, e l’oratore del re d’Aragona come procuratore e col mandato del suo re, convennono di muovere guerra a’ viniziani, per ricuperare ciascuno le cose sue occupate da loro, che si nominavano: per la parte del pontefice, Faenza, Rimini, Ravenna e Cervia; per il re de’ romani, Padova, Vicenza e Verona appartenentigli in nome dello imperio, e il Friuli e Trevigi appartenenti alla casa d’Austria; per il re di Francia, Cremona e la Ghiaradadda, Brescia, Bergamo e Crema; per il re d’Aragona, le terre e i porti stati dati in pegno da Ferdinando re di Napoli. Fusse tenuto il re cristianissimo venire alla guerra in persona, e dargli principio il primo giorno del prossimo mese di aprile; al qual tempo avessino similmente a cominciare il pontefice e il re cattolico: che acciò che Cesare avesse giusta causa di non osservare la tregua fatta, il papa lo richiedesse, come avvocato della Chiesa, di aiuto; dopo la quale richiesta Cesare gli mandasse almeno uno condottiere, e fusse tenuto, fra quaranta dí che ’l re di Francia avesse rotta la guerra, assaltare personalmente lo stato de’ viniziani: qualunque di loro avesse recuperato le cose proprie fusse tenuto aiutare gli altri insino che avessino interamente ricuperato, obligati tutti alla difesa di chiunque di loro fusse nelle terre ricuperate molestato da’ viniziani; co’ quali niuno potesse convenire senza consentimento comune: potessino essere nominati infra tre mesi il duca di Ferrara, il marchese di Mantova e ciascuno che pretendesse i viniziani occupargli alcuna terra; nominati, godessino come principali tutti i benefici della confederazione, avendo facoltá di ricuperarsi da se stessi le cose perdute: ammunisse il pontefice, sotto pene e censure gravissime, i viniziani a restituire le cose occupate alla Chiesa; e fusse giudice della differenza tra Bianca Maria moglie del re de’ romani e il duca di Ferrara, per conto della ereditá di Anna sorella di lei e moglie giá del duca predetto: investisse Cesare il re di Francia, per sé per Francesco d’Anguelem e loro discendenti maschi, del ducato di Milano; per la quale investitura il re gli pagasse ducati centomila: non facessino né Cesare né l’arciduca, durando la guerra e sei mesi poi, novitá alcuna contro al re cattolico per cagione del governo e de’ titoli de’ regni di Castiglia; esortasse il papa il re di Ungheria a entrare nella presente confederazione: nominasse ciascuno tra quattro mesi i collegati e aderenti suoi, non potendo nominare i viniziani né i sudditi o feudatari di alcuno de’ confederati; e che ciascuno de’ contraenti principali dovesse intra sessanta dí prossimi ratificare. Alla concordia universale s’aggiunse la particolare trall’arciduca e il duca di Ghelleri, nella quale fu convenuto che le terre occupate nella guerra presente allo arciduca, si restituissino, ma non giá il simigliante di quelle che al duca erano state occupate. Stabilita in questa forma la nuova confederazione, ma tenendosi quanto si poteva secreto quel che apparteneva a viniziani, il cardinale di Roano si partí il dí seguente da Cambrai, mandati prima a Cesare il vescovo di Parigi e Alberto Pio conte di Carpi per ricevere da lui la ratificazione in nome del re di Francia; il quale senza dilazione ratificò e confermò con giuramento, colle solennitá medesime colle quali era stata fatta la publicazione nella chiesa di Cambrai. Con questi semi di gravissime guerre finí l’anno mille cinquecent’otto.
È certo che questa confederazione, con tutto che nella scrittura si dicesse intervenirvi il mandato del papa e del re d’Aragona, fu fatta senza mandato o consentimento loro, persuadendosi Cesare e il re cristianissimo che avessino a consentire, parte per l’utilitá propria parte perché, per la condizione delle cose presenti, né l’uno né l’altro di essi alla loro autoritá ardirebbe repugnare: e massimamente il re d’Aragona, al quale benché fusse molesta questa capitolazione (perché temendo che non si augumentasse troppo la grandezza del re di Francia anteponeva la sicurtá di tutto il reame di Napoli alla recuperazione della parte posseduta da’ viniziani), nondimeno, ingegnandosi di dimostrare con la prontezza il contrario di quello che sentiva nello animo, ratificò con le solennitá medesime subitamente.
Maggiore dubitazione era nel pontefice, combattendo in lui, secondo la sua consuetudine, da una parte il desiderio di ricuperare le terre di Romagna e lo sdegno contro a’ viniziani e dall’altra il timore del re di Francia; oltre che, essere pericoloso per sé e per la sedia apostolica giudicava che la potenza di Cesare cominciasse in Italia a distendersi. E però, parendogli piú utile l’ottenere con la concordia una parte di quello desiderava che il tutto con la guerra, tentò di indurre il senato viniziano a restituirgli Rimini e Faenza; dimostrando che i pericoli che soprastavano per l’unione di tanti príncipi sarebbono molto maggiori concorrendo nella confederazione il pontefice, perché non potrebbe recusare di perseguitargli con le armi spirituali e temporali, ma che, restituendo le terre occupate alla Chiesa nel suo pontificato, e cosí riavendo insieme con le terre l’onore, arebbe giusta cagione di non ratificare quel che era stato fatto in nome suo ma senza suo consentimento; e che rimovendosene l’autoritá pontificale diventerebbe facilmente vana questa confederazione, che per se stessa aveva avute molte difficoltá: il che potevano essere certi egli, quanto potesse, procurerebbe con l’autoritá e con la industria, se non per altro perché in Italia non si augumentasse piú la potenza de’ barbari, pericolosissima non meno alla sedia apostolica che agli altri. Sopra la quale dimanda facendosi nel senato viniziano varie consulte, e inclinando molti a consentire alle sue domande per l’utilitá che risulterebbe dal separarsi l’autoritá del pontefice dagli altri, molti per contrario affermando non si dovere comperare con tanta indegnitá quel che non basterebbe a liberargli dalla guerra, sarebbe1 finalmente prevaluta l’opinione di quegli che confortavano la piú sana e migliore sentenza, se Domenico Trivisano senatore di grande autoritá, e uno de’ procuratori del tempio ricchissimo di San Marco, onore nella republica veneta di maggiore stima che alcun altro dopo il doge, levatosi in piedi, non avesse consigliato il contrario: il quale, con molte ragioni e con efficacia grande di parlare, si ingegnò di persuadere essere cosa molto aliena dalla degnitá e dalla utilitá di quella chiarissima e amplissima republica restituire le terre dimandate dal pontefice, dalla cui congiunzione o alienazione cogli altri confederati poco si accrescerebbono o alleggierirebbeno i loro pericoli. Perché se bene, acciò che apparisse meno disonesta la causa loro, avessino nel convenire usato il nome del pontefice, si erano effettualmente convenuti senza lui, in modo che per questo non diventerebbono né piú lenti né piú freddi alle esecuzioni deliberate; e per contrario, non essere l’armi del pontefice di tale valore che e’ dovessino comprare con tanto prezzo il fermarle. Conciossiaché, se nel tempo medesimo fussino assaltati dagli altri, potersi con mediocre guardia difendere quelle cittá, le quali le genti della Chiesa (infamia della milizia, secondo il vulgatissimo proverbio) non erano per se medesime bastanti né a espugnare, né a fare inclinazione alcuna alla somma della guerra; e ne’ movimenti e nel fervore delle armi temporali non sentirsi la riverenza né i minacci delle armi spirituali, le quali non essere da temere che nocessino piú loro in questa guerra che fussino nociute in molte altre e specialmente nella guerra fatta contro a Ferrara, nella quale non erano state potenti a impedire che non conseguissino la pace onorevole per sé e vituperosa per il resto d’Italia, che con consentimento tanto grande, e nel tempo che fioriva di ricchezze d’armi e di virtú, si era unita tutta contro a loro: e ragionevolmente, perché non era verisimile che il sommo Dio volesse che gli effetti della sua severitá e della sua misericordia, della sua ira e della sua pace, fussino in potestá d’uno uomo ambiziosissimo e superbissimo, sottoposto al vino e a molte altre inoneste voluttá: che la esercitasse ad arbitrio delle sue cupiditá, non secondo la considerazione della giustizia o del bene publico della cristianitá. Giá, se in questo pontificato non era piú costante la fede sacerdotale che fusse stata negli altri, non vedere che certezza potesse aversi che, conseguita da loro Faenza e Rimini, non si unisse con gli altri per recuperare Ravenna e Cervia, non avendo maggiore rispetto alla fede data che sia stato proprio de’ pontefici; i quali, per giustificare le fraudi loro, hanno statuito, tra l’altre leggi, che la Chiesa, non ostante ogni contratto ogni promessa ogni beneficio conseguitone, possa ritrattare e direttamente contravenire alle obligazioni che i suoi medesimi prelati hanno solennemente fatte. La confederazione essere stata fatta tra Massimiliano e il re di Francia con grande ardore, ma non essere simili gli animi degli altri collegati, perché il re cattolico vi aderiva malvolentieri e nel pontefice apparivano segni delle sue consuete vacillazioni e sospizioni; però non essere da temere piú della lega fatta a Cambrai che di quello che altra volta a Trento e dipoi a Bles avevano convenuto, col medesimo ardore, i medesimi Massimiliano e Luigi, perché alla esecuzione delle cose determinate repugnavano molte difficoltá, le quali per sua natura erano quasi impossibili a svilupparsi. E perciò, il principale studio e diligenza di quel senato doversi voltare a cercare di alienare Cesare da quella congiunzione, il che per la natura e per le necessitá sue, e per l’odio antico fisso contro a’ franzesi, si poteva facilmente sperare; e alienatolo, non essere pericolo alcuno che fusse mossa la guerra, perché il re di Francia abbandonato da lui non ardirebbe d’assaltargli piú di quello che avesse ardito per il passato. Doversi in tutte le cose publiche considerare diligentemente i princípi, perché non era poi in potestá degli uomini partirsi, senza sommo disonore e pericolo, dalle deliberazioni giá fatte e nelle quali si era perseverato lungo tempo. Avere i padri loro ed essi successivamente atteso in tutte l’occasioni ad ampliare l’imperio, con scoperta professione di aspirare sempre a cose maggiori: di qui essere divenuti odiosi a tutti, parte per timore parte per dolore delle cose tolte loro. Il quale odio benché si fusse conosciuto molto innanzi potere partorire qualche grande alterazione, nondimanco non si erano però né allora astenuti da abbracciare l’occasioni che se gli offerivano, né ora essere rimedio a’ presenti pericoli cominciare a cedere parte di quello possedevano; conciossiaché non per questo si quieterebbono, anzi si accenderebbeno, gli animi di chi gli odiava, pigliando ardire dalla loro timiditá: perché essendo titolo inveterato, giá molti anni, in tutta Italia che il senato viniziano non lasciava giammai quel che una volta gli era pervenuto nelle mani, chi non conoscerebbe che il fare ora cosí vilmente il contrario procederebbe da ultima disperazione di potersi difendere dai pericoli imminenti? Cominciando a cedere qualunque cosa benché piccola, declinarsi dalla riputazione e dallo splendore antico della loro republica; onde augumentarsi grandemente i pericoli. Ed essere piú difficile, senza comparazione, conservare, eziandio da’ minori pericoli, quel che rimane, a chi ha cominciato a declinare che non è a chi, sforzandosi di conservare la degnitá e il grado suo, si volge prontamente, senza fare segno alcuno di volere cedere, contra chi cerca di opprimerlo. Ed essere necessario o disprezzare animosamente le prime dimande o, consentendole, pensare d’averne a consentire molte altre: dalle quali, in brevissimo spazio di tempo, risulterebbe la totale annullazione di quello imperio, e seguentemente la perdita della propria libertá. Avere la republica veneta, e ne’ tempi de’ padri e ne’ tempi di loro medesimi, sostenuto gravissime guerre co’ príncipi cristiani, e per avere sempre ritenuta la costanza e generositá dell’animo riportatone gloriosissimo fine. Doversi nelle difficoltá presenti, ancorché forse paressino maggiori, sperarne il medesimo successo; perché e la potenza e l’autoritá loro era maggiore, e nelle guerre fatte comunemente da molti príncipi contro a uno solere essere maggiore lo spavento che gli effetti, perché prestamente si raffreddavano gli impeti primi, prestamente cominciando a nascere varietá di pareri indeboliva tra loro la fede; e dovere quel senato confidarsi che, oltre alle provisioni e rimedi che essi farebbono da se medesimi, Dio, giudice giustissimo, non abbandonerebbe una republica nata e nutrita in perpetua libertá, ornamento e splendore di tutta la Europa, né lascerebbe conculcare alla ambizione de’ príncipi, sotto falso colore di preparare la guerra contro agli infedeli, quella cittá la quale, con tanta pietá e con tanta religione, era stata tanti anni la difesa e il propugnacolo di tutta la republica cristiana. Commossono in modo gli animi della maggiore parte le parole di Domenico Trivisano che, come giá qualche anno era stato spesse volte quasi fatale in quello senato, fu, contro al parere di molti senatori grandi di prudenza e di autoritá, seguitato il consiglio peggiore. Però il pontefice, il quale aveva differito insino all’ultimo dí assegnato alla ratificazione il ratificare, ratificò; ma con espressa dichiarazione di non volere fare atto alcuno di inimicizia contro a’ viniziani se non dappoi che il re di Francia avesse dato alla guerra cominciamento.
- ↑ [Questa lezione, da «e inclinando» a «sarebbe» fu preferita dal Gherardi ad altra, pure dei codici, perché gli parve ad essa posteriore. L'altra, forse omessa di cancellare, cosí dice: «varie consulte, alcuni giudicavano dovere essere di grandissimo momento il separarsi dagli altri il pontefice, altri la riputavano cosa indegna né bastante a rimuovere la guerra. Sarebbe»].