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III
Ma le cose de’ pisani, che giá solevano essere negli occhi di tutta Italia, erano in questo tempo di piccola considerazione, dependendo gli animi degli uomini da espettazione di cose maggiori. Perché, ratificata che fu la lega di Cambrai da tutti i confederati, cominciò il re di Francia a fare grandissime preparazioni; e con tutto che per ancora a protesti o minaccie di guerra non si procedesse, nondimeno, non si potendo piú la cosa dissimulare, il cardinale di Roano, presente tutto il consiglio, si lamentò con ardentissime parole con l’oratore de’ viniziani che quel senato, disprezzando la lega e l’amicizia del re, faceva fortificare la badia di Cerreto nel territorio di Crema: nella quale essendo stata anticamente una fortezza, fu distrutta per i capitoli della pace fatta l’anno mille quattrocento cinquantaquattro tra, viniziani e Francesco Sforza nuovo duca di Milano, con patto che i viniziani non potessino in tempo alcuno fortificarvi; a’ capitoli della quale pace si riferiva, in questo e in molte altre cose, la pace fatta tra loro e il re. E giá, essendo venuto il re pochi dí poi a Lione, camminavano le genti sue per passare i monti, e si apparecchiavano per scendere nel tempo medesimo in Italia seimila svizzeri soldati da lui. E aiutandosi, oltre alle forze proprie, di quelle degli altri, avea ottenute da’ genovesi quattro caracche, da’ fiorentini cinquantamila ducati per parte di quegli che se gli dovevano dopo l’acquisto di Pisa; e dal ducato di Milano, desiderosissimo d’essere reintegrato nelle terre occupate da’ viniziani, gli erano stati donati centomila ducati, e molti gentiluomini e feudatari di quello stato si provedevano di cavalli e d’armi per seguitare alla guerra con ornatissime compagnie la persona del re.
Da altra parte si preparavano i viniziani a ricevere con animo grandissimo tanta guerra, sforzandosi, co’ danari con l’autoritá e con tutto il nervo del loro imperio, di fare provisioni degne di tanta republica; e con tanto maggiore prontezza quanto pareva molto verisimile che, se sostenessino il primo impeto, s’avesse facilmente l’unione di questi príncipi, male conglutinata, ad allentarsi o risolversi: nelle quali cose, con somma gloria del senato, il medesimo ardore si dimostrava in coloro che prima aveano consigliato invano che la fortuna prospera modestamente si usasse che in quegli che erano stati autori del contrario; perché, preponendo la salute publica alla ambizione privata, non cercavano che crescesse la loro autoritá col rimproverare agli altri i consigli perniciosi né con l’opporsi a’ rimedi che si facevano a’ pericoli nati per la loro imprudenza. E nondimeno, considerando che contro a loro si armava quasi tutta la cristianitá, si ingegnorono quanto potettono di interrompere tanta unione, pentitisi giá d’avere dispregiata l’occasione di separare dagli altri il pontefice, avendo massimamente avuta speranza che egli sarebbe stato paziente se gli restituivano Faenza sola. Però con lui rinnovorno i primi ragionamenti, e ne introdusseno de’ nuovi con Cesare e col re cattolico; perché col re di Francia, o per l’odio o per la disperazione d’averlo a muovere, non tentorno cosa alcuna. Ma né il pontefice poteva accettare piú quel che prima avea desiderato, e al re cattolico con tutto che forse non mancasse la volontá mancava la facoltá di rimuovere gli altri; e Cesare, pieno d’odio smisurato contro al nome viniziano, non solamente non gli esaudí ma né udí l’offerte loro, perché recusò di ammettere al cospetto suo Giampiero Stella loro secretario mandatogli con amplissime commissioni. Però, voltati tutti i pensieri a difendersi coll’armi, soldavano da ogni parte quantitá grandissima di cavalli e di fanti, e armavano molti legni per la custodia de’ liti di Romagna, e per metterne nel lago di Garda e nel Po e negli altri fiumi vicini, per i quali fiumi temevano essere molestati dal duca di Ferrara e dal marchese di Mantova. Ma gli turbavano, oltre a’ minacci degli uomini, molti casi o fatali o fortuiti. Percosse una saetta la fortezza di Brescia, una barca mandata dal senato a portare danari a Ravenna si sommerse con diecimila ducati nel mare, l’archivio pieno di scritture attenenti alla republica andò totalmente in terra con subita rovina; ma gli empié di grandissimo terrore che in quegli dí, e nell’ora medesima che era congregato il consiglio maggiore, appiccatosi, o per caso o per fraude occulta di qualcuno, il fuoco nel loro arzanale, nella stanza dove si teneva il salnitro, con tutto vi concorresse numero infinito d’uomini a estinguerlo, aiutato dalla forza del vento e dalla materia atta a pascerlo e ampliarlo, abbruciò dodici corpi di galee sottili e quantitá grandissima di munizioni. Alle difficoltá loro si aggiunse che avendo soldato Giulio e Renzo Orsini e Troilo Savello, con cinquecento uomini d’arme e tremila fanti, il pontefice con asprissimi comandamenti, fatti come a feudatari e sudditi della Chiesa, gli costrinse a non si partire di terra di Roma, invitandogli a ritenersi quindicimila ducati ricevuti per lo stipendio, con promettere di compensargli in quello che i viniziani, per i frutti avuti delle terre di Romagna, alla sedia apostolica doveano. Volgevansi le preparazioni del senato principalmente verso i confini del re di Francia, dall’armi del quale aspettavano l’assalto piú presto e piú potente: perché dal re d’Aragona, con tutto che avesse agli altri confederati promesso molto, si spargevano dimostrazioni e romori, secondo la sua consuetudine, ma non si facevano apparati di molto momento; e Cesare, occupato in Fiandra perché i popoli sottoposti al nipote lo sovvenissino volontariamente di danari, non si credeva dovesse cominciare la guerra al tempo promesso; e il pontefice pensavano che, sperando piú nella vittoria degli altri che nell’armi proprie, avesse a regolarsi secondo i progressi de’ collegati.
Non si dubitava che ’l primo assalto del re di Francia avesse a essere nella Ghiaradadda, passando il fiume dell’Adda appresso a Casciano però si raccoglieva a Pontevico, in sul fiume dell’Oglio, l’esercito veneto, del quale era capitano generale il conte di Pitigliano e governatore Bartolomeo d’Alviano, e vi erano proveditori in nome del senato Giorgio Cornaro e Andrea Gritti, gentiluomini chiari e molto onorati per l’ordinarie loro qualitá, e per la gloria acquistata l’anno passato, l’uno per le vittorie del Friuli l’altro per l’opposizione fatta a Roveré contro a’ tedeschi. Tra’ quali consultandosi in che maniera fusse da procedere nella guerra erano varie le sentenze, non solo tra gli altri ma tra ’l capitano e il governatore. Perché l’Alviano, feroce di ingegno e insuperbito per i successi prosperi dell’anno precedente, e pronto a seguitare le occasioni sperate e di incredibile celeritá cosí nel deliberare come nell’eseguire, consigliava che, per fare piú tosto la sedia della guerra nel paese degli inimici che aspettare fusse trasferita nello stato proprio, si assaltasse, innanzi che ’l re di Francia passasse in Italia, il ducato di Milano. Ma il conte di Pitigliano, o raffreddato il vigore dell’animo (come diceva l’Alviano) per la vecchiezza o considerando per la lunga esperienza con maggiore prudenza i pericoli, e alieno dal tentare senza grandissima speranza la fortuna, consigliava che disprezzata la perdita delle terre della Ghiaradadda, che non rilevavano alla somma della guerra, l’esercito si fermasse appresso alla terra degli Orci, come giá nelle guerre tra’ viniziani e il ducato di Milano aveano fatto Francesco Carmignuola e poi Iacopo Piccinino, famosi capitani de’ tempi loro; alloggiamento molto forte per essere in mezzo tra’ fiumi dell’Oglio e del Serio, e comodissimo a soccorrere tutte le terre del dominio viniziano: perché se i franzesi andassino ad assaltargli in quello alloggiamento potevano, per la fortezza del sito, sperarne quasi certa la vittoria; ma se andassino a campo [a] Cremona o Crema o Bergamo o Brescia, potrebbono per difesa di quelle accostarsi coll’esercito in luogo sicuro, e infestandogli, con tanto numero di cavalli leggieri e stradiotti che avevano, le vettovaglie e l’altre comoditá, impedirebbeno loro il prendere qualunque terra importante. E cosí, senza rimettersi in potestá della fortuna, potersi facilmente difendere lo imperio viniziano da cosí potente e impetuoso assalto del re di Francia. De’ quali consigli l’uno e l’altro era stato rifiutato dal senato; quello dell’Alviano come troppo audace, questo del capitano generale come troppo timido e non consideratore della natura de’ pericoli presenti: perché al senato sarebbe piú piaciuto, secondo la inveterata consuetudine di quella republica, il procedere sicuramente e l’uscire il meno potessino della potestá di loro medesimi; ma da altra parte si considerava, se nel tempo che tutte quasi le loro forze fussino impegnate a resistere al re di Francia assaltasse il loro stato potentemente il re de’ romani, con quali armi con quali capitani con quali forze potersi opporsegli; per il quale rispetto, quella via che per se stessa pareva piú certa e piú sicura rimanere piú incerta e piú pericolosa. Però, seguitando come spesso si fa nelle opinioni contrarie, quella che è in mezzo, fu deliberato che l’esercito s’accostasse al fiume dell’Adda, per non lasciare in preda degli inimici la Ghiaradadda; ma con espressi ricordi e precetti del senato viniziano che, senza grande speranza o urgente necessitá, non si venisse alle mani con gli inimici.
Diversa era molto la deliberazione del re di Francia, ardente di desiderio che gli eserciti combattessino. Il quale, accompagnato dal duca dell’Oreno e da tutta la nobiltá del reame di Francia, come ebbe passati i monti, mandò Mongioia suo araldo a intimare la guerra al senato viniziano; commettendogli che, acciocché tanto piú presto si potesse dire intimata, facesse nel passare da Cremona il medesimo co’ magistrati viniziani. E se bene, non essendo ancora unito tutto l’esercito suo, avesse deliberato che non si movesse cosa alcuna insino a tanto che egli non fusse personalmente a Casciano, nondimeno, o per gli stimoli del pontefice, che si lamentava essere passato il tempo determinato nella capitolazione, o acciocché cominciasse a correre il tempo a Cesare obligato a muovere la guerra quaranta dí poi che il re l’avesse mossa, mutata la prima deliberazione, comandò a Ciamonte desse principio, non essendo ancora le genti viniziane, perché non erano raccolte tutte, partite da Pontevico.