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VI
Ma niuna cosa aveva dopo la rotta di Vaila spaventato tanto i viniziani quanto la espugnazione della rocca di Peschiera, intorno alla quale si erano persuasi doversi per la fortezza sua fermare l’impeto dei vincitori. Però attoniti per tanti mali, e temendo estremamente che non si facesse piú innanzi il re di Francia, disperate le cose loro e astretti piú da timiditá che da consiglio, ritiratesi le genti loro a Mestri, le quali senza obedienza e ordine alcuno erano ridotte a numero molto piccolo, deliberorono, per non avere piú tanti inimici, con disperazione forse troppo presta, di cedere allo imperio di terra ferma: né meno, per levare al re di Francia l’occasione di approssimarsi a Vinegia; perché non stavano senza sospetto che in quella cittá si facesse qualche tumulto, concitato da’ popolari o dalla moltitudine innumerabile che vi abita di forestieri, questi tirati da desiderio di rubare, quegli da non volere tollerare che, essendo cittadini nati per lunga successione in una medesima cittá, anzi molti del medesimo sangue e delle medesime famiglie, fussino esclusi dagli onori, e in tutte le cose quasi soggetti a’ gentiluomini. Della quale abiezione d’animo fu anche nel senato allegata questa ragione, che se volontariamente cedevano allo imperio per fuggire i presenti pericoli, che con piú facilitá, ritornando mai la prospera fortuna, lo ricupererebbeno; perché i popoli, licenziati spontaneamente da loro, non sarebbeno cosí renitenti a tornare sotto l’antico dominio come sarebbeno se se ne fussino partiti con aperta rebellione. Dalle quali ragioni mossi, dimenticata la generositá viniziana, e lo splendore di tanto gloriosa republica, contenti di ritenersi solamente l’acque salse, commesseno agli ufficiali che erano in Padova in Verona e nelle altre terre destinate a Massimiliano, che lasciatele in arbitrio de’ popoli se ne partissino. E oltre a questo, per ottenere da lui con qualunque condizione la pace, gli mandorono con somma celeritá imbasciadore Antonio Giustiniano; il quale, ammesso in publica udienza al cospetto di Cesare, parlò miserabilmente e con grandissima sommissione: ma invano, perché Cesare recusava di fare senza il re di Francia convenzione alcuna. Non mi pare alieno dal nostro proposito, acciò che meglio si intenda in quanta costernazione d’animo fusse ridotta quella republica, la quale giá piú di dugento anni non avea sentito avversitá pari a questa, inserire la propria orazione avuta da lui innanzi a Cesare, trasferendo solamente le parole latine in voci volgari; le quali furono in questo tenore:
— È manifesto e certo che gli antichi filosofi e gli uomini principali della gentilitá non errorono, quando quella essere vera, salda, sempiterna e immortale gloria affermorono la quale si acquista dal vincere se medesimo: questa esaltorono sopra tutti i regni trofei e trionfi. Di questo è laudato Scipione maggiore, chiaro per tante vittorie; e piú splendore gli dette che l’Africa vinta e Cartagine domata. Non partorí questa cosa medesima la immortalitá a quel macedone grande? quando Dario vinto da lui in una battaglia grandissima pregò gli dèi immortali che stabilissino il suo regno, ma se altrimenti avessino disposto non chiese altro successore che questo tanto benigno inimico tanto mansueto vincitore. Cesare dittatore, del quale tu hai il nome e la fortuna, del quale tu ritieni la liberalitá la munificenza e l’altre virtú, non meritò egli di essere descritto nel numero degli dèi per concedere per rimettere per perdonare? Il senato finalmente e il popolo romano, quello domatore del mondo, il cui imperio è in terra in te solo e in te si rappresenta la sua amplitudine e maestá, non sottopose egli piú popoli e provincie con la clemenza con la equitá e mansuetudine che con le armi o con la guerra? Le quali cose poi che sono cosí, non sará numerata trall’ultime laudi se la Maestá tua, che ha in mano la vittoria acquistata de’ viniziani, ricordatasi della fragilitá umana, saprá moderatamente usarla, e se piú inclinerá agli studi della pace che agli eventi dubbi della guerra. Perché quanta sia la incostanza delle cose umane, quanto incerti i casi, quanto dubbio mutabile fallace e pericoloso lo stato de’ mortali, non è necessario mostrare con esempli forestieri o antichi: assai e piú che abbastanza lo insegna la republica viniziana, la quale poco innanzi florida risplendente chiara e potente, in modo che ’l nome e la fama sua celebrata non stesse dentro a’ confini della Europa ma con pompa egregia corresse per l’Africa e per l’Asia, e risonando facesse festa negli ultimi termini del mondo, questa, per una sola battaglia avversa e ancora leggiera, privata della chiarezza delle cose fatte, spogliata delle ricchezze, lacerata conculcata e rovinata, bisognosa di ogni cosa, massime di consiglio, è in modo caduta che sia invecchiata la imagine di tutta l’antica virtú, e raffreddato tutto il fervore della guerra. Ma ingannansi, senza dubbio ingannansi i franzesi, se attribuiscono queste cose alla virtú loro; conciossiaché per il passato, travagliati da maggiore incomoditá, percossi e consumati da grandissimi danni e ruine, non rimessono mai l’animo, e allora potissimamente quando con grande pericolo facevano guerra molti anni col crudelissimo tiranno de’ turchi; anzi sempre di vinti diventorono vincitori. Il medesimo arebbono sperato che fusse stato al presente se, udito il nome terribile della Maestá tua, udita la vivace e invitta virtú delle tue genti, non fussino in modo caduti gli animi di tutti che non ci sia rimasta speranza alcuna non dico di vincere ma né di resistere. Però, gittate in terra l’armi, abbiamo riposta la speranza nella clemenza inenarrabile o piú tosto divina pietá della Maestá tua, la quale non diffidiamo dovere trovare alle cose nostre perdute. Adunque, supplicando in nome del principe, del senato e del popolo viniziano, con umile divozione ti preghiamo oriamo scongiuriamo: degnisi tua Maestá riguardare con gli occhi della misericordia le cose nostre afflitte, e medicarle con salutifero rimedio. Abbraccieremo tutte le condizioni della pace che tu ci darai, tutte le giudicheremo eque oneste conformi alla equitá e alla ragione. Ma forse noi siamo degni che da noi medesimi ci tassiamo. Tornino con nostro consenso a te, vero e legittimo signore, tutte le cose che i nostri maggiori tolsono al sacro imperio e al ducato di Austria. Alle quali cose, perché venghino piú convenientemente, aggiugniamo tutto quello che possediamo in terra ferma; alle ragioni delle quali, in qualunque modo siano acquistate, rinunciamo. Pagheremo oltre a questo, ogni anno, alla Maestá tua e a’ successori legittimi dello imperio, in perpetuo, ducati cinquantamila; ubbidiremo volentieri a’ tuoi comandamenti decreti leggi precetti. Difendici, priego, dalla insolenza di coloro co’ quali poco fa accompagnammo l’armi nostre, i quali ora proviamo crudelissimi inimici, che non appetiscono non desiderano cosa alcuna tanto quanto la ruina del nome viniziano: dalla quale clemenza conservati chiameremo te padre progenitore e fondatore della nostra cittá, scriveremo negli annali e continuamente a’ figliuoli nostri i tuoi meriti grandi racconteremo. Né sará piccola aggiunta alle tue laudi, che tu sia il primo a’ piedi del quale la republica veneta supplichevole si prostra in terra, al quale abbassa il collo, il quale onora riverisce osserva come uno dio celeste. Se il sommo massimo Dio avesse dato inclinazione a’ maggiori nostri non si fussino ingegnati di maneggiare le cose di altri, giá la nostra republica piena di splendore avanzerebbe di molto l’altre cittá della Europa; la quale ora, marcida di squallore di sorde di corruzione, deforme di ignominia e di vituperio, piena di derisione di contumelie di cavillazioni, ha dissipato in uno momento l’onore di tutte le vittorie acquistate. Ma perché il parlare ritorni finalmente dove cominciò, è in potestá tua, rimettendo e perdonando a’ tuoi viniziani, acquistare un nome, un onore, del quale niuno, vincendo, in qualunque tempo, acquistò mai il maggiore il piú splendido. Questo niuna vetustá niuna piú lunga antichitá niuno corso di tempo cancellerá delle menti de’ mortali, ma tutti i secoli ti chiameranno predicheranno e confesseranno pio, clemente, principe piú glorioso di tutti gli altri. Noi, tuoi viniziani, attribuiremo tutto alla tua virtú felicitá e clemenza: che noi viviamo, che usiamo l’aura celeste, che godiamo il commercio degli uomini. —
Mandorono i viniziani, per la medesima deliberazione, uno uomo in Puglia a consegnare i porti al re d’Aragona; il quale, sapendo senza spesa e senza pericolo godere il frutto delle altrui fatiche, aveva mandato di Spagna una armata piccolissima, dalla quale erano state occupate alcune terre di poco momento de’ contadi di quelle cittá. Mandorno similmente in Romagna uno secretario publico, con commissione che al pontefice si consegnasse quel che ancora si teneva per loro, in caso che e’ fusse liberato Giampagolo Manfrone e gli altri prigioni, avessino facoltá di trarne l’artiglierie, e che le genti che erano in Ravenna fussino salve. Le quali condizioni mentre che il pontefice, per non dispiacere a’ confederati, fa difficoltá di accettare, si arrendé la cittá di Ravenna. E poco dipoi i soldati, che erano nella fortezza, per loro medesimi la dettono; recusando il secretario de’ viniziani che vi era entrato dentro, perché quegli che per loro trattavano a Roma davano speranza che alla fine il pontefice consentirebbe alle condizioni con le quali la restituzione aveano offerta: lamentandosi gravemente il pontefice essere stata dimostrata maggiore contumacia con lui che non era stata usata né con Cesare né col re d’Aragona. E però, addimandandogli i cardinali Grimanno e Cornaro viniziani, in nome del senato, l’assoluzione dal monitorio come debita, per avere offerta nel termine de’ ventiquattro dí la restituzione, rispose non avere ubbidito, perché non l’aveano offerta semplicemente ma con limitate condizioni, e perché erano stati ammuniti a restituire oltre alle terre i frutti presi e tutti i beni che e’ possedevano appartenenti alle chiese o alle persone ecclesiastiche.