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II
Raffreddavansi in queste ambiguitá e difficoltá i tumulti delle armi temporali, ma andavano riscaldando quegli dell’armi spirituali; cosí dalla parte de’ cardinali autori del concilio come dalla parte del pontefice, intento tutto a opprimere questo male innanzi facesse maggiore progresso. Erasi, come è detto di sopra, inditto e intimato il concilio con l’autoritá del re de’ romani e del re di Francia, intervenuti alla intimazione i cardinali di Santa Croce di San Malò di Baiosa e di Cosenza, e consentendovi manifestamente il cardinale di San Severino; e successivamente, alle consulte e deliberazioni che si facevano, intervenivano i procuratori dell’uno e dell’altro re. Ma avevano i cinque cardinali, autori di questa peste, aggiunto nella intimazione, per dare maggiore autoritá, il nome di altri cardinali: de’ quali Alibret, cardinale franzese, benché malvolentieri vi consentisse, non poteva disubbidire a’ comandamenti del suo re; e degli altri, nominati da loro, il cardinale Adriano e il cardinale del Finale apertamente affermavano non essere stato fatto con loro mandato né di loro consentimento. Però, non si manifestando in questa cosa piú di sei cardinali, il Pontefice, sperando potergli fare volontariamente desistere da questa insania, trattava continuamente con loro, offerendo venia delle cose commesse e con tale sicurtá che e’ non avessino da temere di essere offesi; cose che i cardinali udivano simulatamente. Ma non per questo cessava da’ rimedi piú potenti; anzi per consiglio, secondo si disse, proposto da Antonio del Monte a San Sovino, uno de’ cardinali creati ultimatamente a Ravenna, volendo purgare la negligenza, intimò il concilio universale, per il primo dí di maggio prossimo, nella cittá di Roma nella chiesa di San Giovanni Laterano: per la quale convocazione pretendeva avere dissoluto il concilio convocato dagli avversari, e che nel concilio inditto da lui si fusse trasferita giuridicamente la potestá e l’autoritá di tutti; non ostante che i cardinali allegassino che, se bene questo fusse stato vero da principio, nondimeno, poiché essi avevano prevenuto, dovere avere luogo il concilio convocato e intimato da loro. Publicato il concilio, confidando giá piú delle ragioni sue, e disperandosi di potere riconciliarsi il cardinale di Santa Croce, il quale, per ambizione di essere pontefice, era stato in grande parte autore di questo moto, e il medesimo di San Malò, e di quello di Cosenza (perché degli altri non aveva ancora perduta la speranza di ridurgli sotto l’ubbidienza sua), publicò contro a quegli tre uno monitorio, sotto pena di privazione della degnitá del cardinalato e di tutti i benefici ecclesiastici se infra sessantacinque dí non si presentassino innanzi a lui: alla quale cosa perché piú facilmente si disponessino, il collegio de’ cardinali mandò a loro uno auditore di ruota, a invitargli e pregargli che, deposte le private contenzioni, ritornassino all’unione della Chiesa, offerendo di fare concedere qualunque sicurtá desiderassino.
Nel quale tempo medesimo, o essendo ambiguo e irrisoluto nell’animo o movendolo altra cagione, udiva continuamente la pratica della pace col re di Francia, la quale appresso a lui trattavano gli oratori del re e appresso al re il medesimo imbasciadore del re di Scozia e il vescovo di Tivoli nunzio apostolico; e da altra parte trattava di fare col re d’Aragona e co’ viniziani nuova confederazione contro a’ franzesi. Procurò nel tempo medesimo che a’ fiorentini fusse restituito Montepulciano, non per benivolenza inverso loro ma per sospetto che, essendo spirata la tregua che aveano co’ sanesi, non chiamassino, per essere piú potenti a recuperare quella terra, in Toscana genti franzesi; e con tutto che al pontefice fusse molesto che i fiorentini recuperassino Montepulciano, e che per impedirgli avesse giá mandato a Siena Giovanni Vitelli, condotto con cento uomini d’arme da’ sanesi e da lui, e Guido Vaina con cento cavalli leggieri, nondimeno, considerando poi meglio che quanto piú la difficoltá si dimostrava maggiore tanto piú si inciterebbono i fiorentini a chiamarle, deliberò, acciò che il re non avesse occasione di mandare genti in luogo vicino a Roma, provedere con modo contrario a questo pericolo: alla qual cosa consentiva Pandolfo Petrucci, che era nel medesimo sospetto, nutritovi artificiosamente da’ fiorentini. Trattossi la cosa molti dí: perché, come spesso le cose piccole non hanno minori difficoltá né meno difficili a esplicarsi che le grandissime, Pandolfo, per non incorrere nell’odio del popolo sanese, voleva si procedesse in modo che e’ paresse niuno altro rimedio essere ad assicurarsi della guerra e a non si alienare l’animo del pontefice. Volevano oltre a questo, il pontefice ed egli, che nel tempo medesimo si facesse tra i fiorentini e i sanesi confederazione a difesa degli stati; e da altra parte temevano che i montepulcianesi, accorgendosi di quel che si trattava, non preoccupassino, con l’arrendersi da loro medesimi, la grazia de’ fiorentini, i quali, conseguito lo intento loro, fussino poi renitenti a fare la confederazione: però fu mandato ad alloggiare in Montepulciano Giovanni Vitelli; e il pontefice vi mandò Iacobo Simonetta auditore di ruota, il quale molti anni poi fu promosso al cardinalato, perché per mezzo suo si adattassino le cose di Montepulciano. Tanto che, finalmente, in un tempo medesimo fu fatta confederazione per venticinque anni tra fiorentini e sanesi; e Montepulciano, interponendosi il Simonetta per la venia e confermazione delle esenzioni e privilegi antichi, ritornò in mano de’ fiorentini.